Errani humanum est

11 Luglio 2014

La vicenda di Vasco Errani va letta “simbolicamente”, nel senso della concretezza e della potenza dei simboli. Insomma, sembra una vicenda giudiziaria, come mille altre in tutto il Paese, città regioni comuni metropoli piccoli centri. È difficile negare che lo sia, una vicenda giudiziaria, in realtà non lo è.

 

Vasco Errani, governatore della Regione Emilia-Romagna da tre mandati, quindici anni, è stato effettivamente condannato. Assolto in primo grado, condannato in Appello, vedremo in Cassazione. La vicenda giudiziaria è – onestamente – abbastanza bislacca, e non perché il Pd sia meglio della destra (magari lo è, ma il punto non è questo), non perché paragonare anche solo per sbaglio Errani a un Cota o a un Formigoni è una bestemmia (da qualunque punto di vista, anche nel caso arrivasse una condanna nel terzo e definitivo grado di giudizio). Errani, tra l’altro, e non è un dettaglio, si è dimesso mezzo minuto dopo la condanna. Pensate a Cota. Pensate a Formigoni. O a Galan o a tutti gli altri.

 

Ma perché la lettura che più si avvicina al “vero” – cioè che meglio ci aiuta a interpretare la “realtà” - è quella simbolica? Perché Errani sarebbe “scaduto” comunque fra pochi mesi, a marzo. Perché ciò che in altre regioni e Regioni sarebbe stato un elemento paralizzante, in Emilia-Romagna diventa, al contrario, un elemento di accelerazione e di cambiamento, di accelerazione del cambiamento (che non è sinonimo di “miglioramento”, s’intende). Un paradosso, ma è così, e si spiega anche abbastanza facilmente.

 

In Emilia-Romagna vigeva già una specie di democrazia presidenziale, una specie di repubblica presidenziale se non una specie di monarchia illuminata. E si sa quanto la fine di un Regno sia il periodo peggiore, quello più gravido di pericoli, lotte intestine, colpi bassi, riassesti e dissesti. Il dopo-Errani era cominciato da un pezzo, molto prima della condanna e delle dimissioni, e nel modo ovviamente peggiore, sotto il segno della paralisi e dei piccoli interessi di bottega del Pd. Che si possa andare a votare fra tre mesi invece che in primavera può solo fare bene, dunque, a questa regione e al Pd in particolare, che lo voglia o no. Interromperà o abbrevierà – anche se sotto il segno non bello e forse persino ingiusto di una condanna – tutto questo immobile movimento che in nessun conto tiene gli interessi dei cittadini. Si sa anche, del resto, che nulla è peggiore di un’agonia che si trascina troppo lentamente e per troppo tempo.

 

Ma perché parlo di simboli e di simboli potenti? Perché in Emilia-Romagna Errani – persino involontariamente – rappresentava la politica, e il Pd, e una stagione del Pd che c’era fino a un anno fa ma che non c’è più e sembra sia finita da un secolo invece che da una manciata di mesi: il Pd (e la politica) dell’era pre-renziana. Tutto qui, ma non vi parrà certo poco. Anzi.

In Emilia-Romagna, quando si era capito, di colpo e appena in tempo (ma giusto in tempo), da che parte spirava il vento (un vento impetuoso che sospingeva Renzi a vincere le primarie e poi a diventare Premier) tutti erano passati, dalla sera alla mattina, con lui. Era stato un salto della quaglia così impressionante, nei numeri, nella velocità, nei personaggi, da lasciare senza fiato. Renzi si era trovato con un Pd emiliano che dal 10 per cento era adesso, con lui, all’80 per cento. Non solo in Emilia, lo sappiamo bene, ma qui lo spettacolo era stato mozzafiato.

 

Futuri ministri, ex-sindaci passati poi direttamente al governo, segretari di partito di ogni ordine e grado, un vero parapiglia, uno spintonarsi a cambiare cavallo e a saltare sul famoso carro del famoso vincitore, senza nemmeno l’obbligo o l’imbarazzo di una motivazione.

 

Che ci faceva dunque Errani in una Regione politicamente cambiata così tanto e così di colpo? Lui regnava, era anche il presidente della Conferenza delle Regioni, ma era in scadenza a marzo, dopo tre lunghissimi lustri, e in qualche modo davvero improvvisamente fuori posto. Totalmente fuori posto, pur con tutto il prestigio, il potere, la venerazione.

Io fantastico fosse il primo a volere che finisse prima possibile. Che non vedesse l’ora, lui più di chiunque altro. Che marzo fosse per lui troppo, troppo tardi, troppo lontano. E dunque che la vicenda giudiziaria – per quanto sgradevole e forse ingiusta e sicuramente il modo peggiore per finire un mandato, anzi tre – gli abbia procurato anche sollievo, e un poco tolto, a bocca amara ma pur sempre tolto, le castagne dal fuoco, un pretesto fortissimo per fare quello che desiderava e non poteva.

 

Vasco Errani si è dimesso sicuramente per senso civico. Ha sicuramente sofferto la condanna. Ma credo l’abbia in qualche modo e suo malgrado anche benedetta. Lui, lì, improvvisamente era il passato, il secolo scorso, era il presidente rosso (?) nell’epoca berlusconiana. Finita. Ma di colpo dentro il nuovo, appena iniziato, presumibile ventennio renziano.

Fuori posto. Fuori luogo. Fuori tempo. Fuori prima del tempo.

 

Catapultato in una nuova epoca, del partito e della società, come uno stordente viaggio spaziotemporale. Ed ecco ancora il simbolo, potente. Il fulmine della condanna è come il fulmine che, in “Ritorno al futuro”, si scarica sull’orologio del municipio permettendo a Emmet “Doc” Brown di riportare nel tempo “giusto” Marty McFly.

 

Era rimasto solo Vasco Errani, a guardare gli altri aspettare che se ne andasse per trovare anche loro la collocazione “giusta”. Giusta per se stessi, per questo tempo, per i cittadini non si sa, a cominciare dall’irrequieto segretario regionale Stefano Bonaccini che da un anno c’è ma non c’è e non sa che fare – a quanto sembra – del proprio (ritorno al) futuro.

Ora anche in Emilia-Romagna il renzismo può cominciare davvero, e dilagare senza resistenze. Perché il renzismo è e può essere solo populista, solo dilagante e vincente. Quando non dilagherà più, sarà finito. Ma adesso è appena cominciato. Ora tutte le tessere possono andare al loro posto. Si chiamino Del Rio, Poletti o chiunque altro. Ma il 2014, anno primo dell’era renziana, ultimo dell’era berlusconiana, può finalmente cominciare. Che il sipario si alzi, e lo spettacolo inizi.

 

Tornerà a Bologna, al Parco Nord, la festa del Pd e – con un partito nelle mani degli ex-Margherita – tornerà a chiamarsi non Festa Democratica ma Festa dell’Unità. Mentre “l’Unità” chiude, ingloriosamente. Ditemi se non è l’epoca dei simboli, delle metafore, dei paradossi.

 

Vasco Errani non ci sarà, mentre quella Festa, l’ultima, avrebbe dovuto celebrare la sua apoteosi, una grandiosa festa d’addio, la più scoppiettante delle uscite di scena, tra un diluvio di applausi. Sarebbe il momento dei progetti e degli uomini nuovi. Sarà invece, temo, per alcuni il tempo dello smarrimento, della malinconia, dell’incertezza. Per gli altri, il tempo di altri proclami roboanti. Per tutti, poi, l’ultima fase della campagna elettorale per la successione, che ancora non sappiamo se furibonda e all’arma bianca o completamente pacificata dalla stravittoria annunciata di un candidato, ovviamente renziano e a quel punto privo di “competitor”.

 

Non ci sarà Vasco Errani. Ah, ma ci sarà – auspichiamo – l’altro Vasco regionale, Vasco Rossi. Ancora un simbolo, l’ultimo. Quello dei due Vasco che fra continuità e discontinuità rappresenta senza incertezze la prima. E che non ha mai avuto il problema delle primarie.

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