Fleur Jaeggy: sostituire il mondo con le parole

31 Luglio 2022

Nel 1968, Adelphi pubblica Il dito in bocca di Fleur Jaeggy e sulla bandella di quarta, firmata da Ingeborg Bachmann, si legge che “è un libro stravagante e insolito, fra l’altro per la superba trascuranza delle correnti letterarie. L’autrice ha l’invidiabile primo sguardo per le persone e le cose, c’è in lei un insieme di distratta leggerezza e di saggezza autoritaria: da queste capacità contraddittorie nascono dialoghi di una diabolica intelligenza e descrizioni di una semplicità disarmante”. Nel 1968, io non sono ancora nata. 

Nel 2014, in una raccolta di racconti intitolata Sono il fratello di XX, Jaeggy dedica un racconto a Bachmann, che comincia con “Una volta con Ingeborg parlammo della vecchiaia, lei sorrideva a quella parola, ma quella parola non era accompagnata né dal cuore né da un vero sorriso. Immaginavo una longevità senza morte, una casa di campagna, un muro, le descrivevo l’architettura esterna e la legavo con una corda.” A quel punto, ho trentasei anni, sono seduta sul pavimento di una stanza di Rai Radio 3, sollevo gli occhi dalla pagina al cielo, come nelle migliori tradizioni dalla Bibbia a Silvia Plath, il cielo mi sembra vuoto, riabbasso gli occhi sul racconto “La stanza asettica” e capisco, come in una illuminazione, cosa avesse inteso Bachmann con “saggezza autoritaria”. Se nella vita è deprecabile legare le persone, qualsiasi sia il motivo, nei sogni no. Nei sogni quelli che ami devi legarli e sperare che restino quando apri gli occhi. Nel caso tu li riapra. 

Come molti, ho conosciuto Fleur Jaeggy leggendo I beati anni del castigo, un perturbante romanzo ambientato in un collegio svizzero negli anni Cinquanta. La voce narrante è una veterana del collegio – molti anni dopo, seduta nel suo salotto, domanderò a Jaeggy Com’era il collegio? E lei risponderà con austera dolcezza Si capisce che non sei mai stata in collegio, di collegio non ce n'è mai uno solo. Nemmeno in I beati anni del castigo il collegio, in effetti, è uno solo. Soprattutto, nel romanzo, si racconta che molte ragazze, e la stessa voce narrante, provengono da altri collegi. Del perché ciò accada e ogni quanto tempo si passi da un collegio all’altro non è dato sapere, è così. I collegi sono la realtà. I perché in fondo possono essere cattivi comportamenti, insofferenza, occasione. La protagonista del romanzo è Frédérique, una ragazza un po’ più grande della voce narrante e della quale chi legge, sedotta da chi racconta, si innamora. Il romanzo, tuttavia, non è un romanzo d’amore, ma di nostalgia dei riti, e dei miti a essi connessi.

Il rito presuppone la comunità, che gli altri ci siano o no quando viene compiuto. Il rito presuppone conoscenza e attenzione. Il rito, in breve, rassicura sul fatto che non siamo soli. Ovviamente nel 1989, all’età di undici anni, non penso ai riti, ai miti ad essi connessi, alla consolazione che può dare l’essere insieme, e nemmeno a chi sia Fleur Jaeggy, semplicemente mi innamoro di Frédérique. L’amore, come si capisce da I beati anni del castigo – che perfeziona una prassi delle relazioni introdotta da Ginzburg prima con Lessico Famigliare e poi con Caro Michele – è qualcosa che ti insegna come stare al mondo, a decifrare le regole per starci. Innamorarsi ti spinge, ma amare ti cambia forma.

La voce narrante, osservando Frédérique, si rende conto che per vivere tranquilli è necessario essere ritenuti conformi, Frédérique è adorata dalle insegnanti perché è sempre in ordine, sempre preparata, sempre educata. La forma di Frédérique è tale che nessuno si chieda chi sia Frédérique. L’educazione di Frédérique è una forma di distanza. La grafia di Frédérique è esercitata. In questo non suscitare domande, in questo esercizio di lasciarsi presupporre, sta la libertà. Lo impara la voce narrante, ce lo racconta, lo impariamo noi. Io, almeno, l’ho imparato. Non avessi incontrato Frédérique sarei incappata nel mito dell’apparire stravagante per essere considerata una artista.

Senza Frédérique non avrei saputo così bene che Sono innamorata di è una frase troppo facile da dire. In un mondo di superlativi assoluti, desiderio e possibilità di vedere ed essere visti, di elogio e sottolineatura delle differenze, nel quale la nostalgia del rito è ridotta, statisticamente, a brevi coreografie TikTok, nel quale l’indignazione è misura della morale e pare che i colori rimasti per dipingere le umane faccende siano il bianco e il nero, leggere Jaeggy è trovarsi immersi in una scala di grigi o camminare su un prato che, smaltato di violette, somiglia a un pavimento di linoleum.

Ma molto più vasto. Basti dire che i romanzi e i racconti di Jaeggy sono pieni di vecchi, bambini, corpi non conformi (come si dice adesso), animali, tazze che, tenute in mano, ti fanno sentire Amleto col teschio di Yorick, zucchine che appassiscono nei piatti di porcellana e morti. I morti ci sono sempre, ma ti cercano solo quando sei prossimo anche tu al passaggio di stato.

Il dito in bocca (1968), L’angelo custode (1971), Le statue d’acqua (1980), I beati anni del castigo (1989), La paura del cielo (1994), Proleterka (2001), Vite congetturali (2009), Sono il fratello di XX (2014) tutti pubblicati da Adelphi. Esiste un libro intitolato Scatole dell’eros (con S. De Caro e M. De Gemmis, Electa, 2002) ma è difficile da reperire. Esiste il catalogo di una mostra di disegni di Fleur Jaeggy nella galleria di Antonia Jannone a Milano nel 2016, sulla copertina azzurro polvere si legge Opere su carta, non credo si possa comprare. Il dito in bocca e L’angelo custode sono ormai introvabili.

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Dal 2014 non è uscito un nuovo libro, io non faccio altro che rileggere, talvolta in altre lingue, perché le righe mi diano ancora una indicazione, e mi facciano ridere. Io rido spesso leggendo Fleur Jaeggy perché, come Virginia Woolf, ha toni comici. Come nella narrativa di Virginia Woolf, anche in Jaeggy Ogni cosa è sempre qualcos’altro. Non si tratta di paragoni o somiglianze – che senso ha tra scrittura e scrittura o tra persona e persona – ma di intersezioni.

Ci sono almeno tre cose da dire sulla narrativa di Jaeggy. La prima è che i suoi romanzi e racconti sono, essenzialmente, e nella piena tradizione della narrativa italiana, storie di famiglia. Le famiglie di Jaeggy sono però spezzate o interrotte. Dove i genitori, entrambi o uno dei due, sono sostituiti da un gruppo di persone (gli insegnanti del collegio), o da maggiordomi e cameriere, o infermiere talvolta. Ci sono entrambi i genitori nel racconto che dà il nome alla raccolta Sono il fratello di XX, ma l’unico insegnamento che lasciano ai figli è l’importanza di far uso di psicofarmaci, abdicando dunque immediatamente all’onnipotenza.

Nessuno è onnipotente nella narrativa di Jaeggy, nessuno può credere di esserlo. Spesso tuttavia compaiono fratelli, che siano nati o no, che siano distinti da chi racconta o no, che siano vivi o no. La seconda è che l’amore ha a che fare con la prossimità. La prossimità porta “fiducia corporea” (Cvetaeva, Taccuini 1919-21, trad. Pina Napolitano, Voland, 2014) o costrizione. 

Non è bene o male l’amore, non è un sentimento buono o cattivo. È una misura di distanza. Siamo talmente vicini, talmente spesso a certe persone che finiamo per starci dentro o loro a noi. Questa congettura d’amore porta ovviamente a togliere qualsiasi giudizio di natura morale dalle relazioni. La prossimità non ha cronologia o parentela, così l’amore. La madre di Agnes e io giochiamo a carte. Anche la madre di Agnes tenta di saltarmi addosso. Mi dice che sua figlia ha sempre dormito con lei. Gli esseri umani sono interscambiabili, sostituibili, l’unica responsabilità è la presenza.

La dedizione che sostituisce i rapporti di sangue porta con sé i difetti metrici della prossimità, l’ossessione e la persecuzione (avvicinamento), la separazione (allontanamento), la coesistenza di ossessione, persecuzione e separazione. Esiste nell’aiutare gli altri una vaga passione omicida che è difficile contenere in un sentimento meno sanguinario. C’è, ad ogni modo, solo la realtà. Ma come? La terza caratteristica della narrativa di Jaeggy è che la realtà è come le cicale, è bella quando si interrompe.

Percepiamo la realtà quando essa si sospende. Motivo per cui il raccontare di Fleur Jaeggy non procede per cronologia, ma per analogia. Cose e persone lontane nel tempo che riportano al presente. Il presente anzi che evoca cose lontane nel tempo o a venire e le fissa. La realtà viene sospesa quando le venature del legno rivelano i pensieri del taglialegna, quando gli incontri non si avverano, quando le inziali diventano una anticipazione della lapide, quando capita di avere una conversazione col quadro di una sconosciuta, quando un dondolo lasciato solo in una camera continua a muoversi per giorni e giorni, quando infine si verbalizza, un mattino, il desiderio di avere un mattatoio.

D’altronde, quante volte lo abbiamo visto, Moncherini di altre braccia sono sparsi sul soffitto. È rimasto poco del colore della carne rosa, un po’ di blu cobalto e qualche stella d’oro. Era un cielo. La frase tra virgolette viene da Le statue d’acqua, il protagonista si chiama Beecklam, al romanzo è inspirata una canzone di Franco Battiato che amo molto, si intitola Le Aquile. Nel 1980, a due anni, non leggevo Jaeggy e non ascoltavo Battiato, passavo il tempo, così testimoniano fotografie che sbiadiscono su carta lucida, seduta su un mare di brecciolini. Ne facevo piccole pile che, immagino, franassero con una certa frequenza.

Osservando le foto con occhio critico – non capisco perché ce ne siano tante, forse per via della primogenitura, e nemmeno perché una bimbetta seduta ore e ore e giorni e giorni (cambiano i vestiti, cambia la stagione come si deduce dalla vegetazione intorno più e meno folta, dai fili d’erba che si fanno spazio tra i brecciolini o dalle foglie che interrompono il biancore del manto) in un campo di sassolini sia un soggetto interessante, forse la fissità mi dico, a distanza di quarantadue anni, tutto nelle foto muta ma noi io, sono sempre seduta allo stesso modo, ho i capelli sempre della stessa lunghezza – osservando le foto con occhio critico, dicevo, intuisco che dividevo le brecciole per forma e grandezza, catalogavo. Catalogare, come scrivere, è il modo in cui il soggetto agente può evitare i dilemmi morali, lasciandoli a chi legge o chi guarda. 

Il mondo di Fleur Jaeggy, come spesso capiti per scrittori e scrittrici che narrano l’infanzia, anche una infanzia postuma, è privo tenerezza. E proporzione. Avanza per ossimori e contrasti. Così il colore del fuoco è celestiale, l’indulgenza è acrimoniosa, qualcuno è abissalmente cortese, la dolcezza ha la stessa intensità della collera, Paradiso e Aurora sono nomi violenti, la vivacità è spossata, qualcuno è appassionatamente timido, la vendetta è esaudita, la clandestinità delle cose semplici è selvaggia, l’innocenza è rude e pedante, la geometria del biancore è fatale, l’allegria dei bambini è intollerante.

Entrare nel suo universo linguistico significa accettare sinonimie, antinomie, ossimori e antitesi che avvicinano, e spesso mescolano, quantità e qualità, immanenza e trascendenza, confondono volontà e desiderio, vendetta e accondiscendenza, vivi e trapassati. La narrativa di Jaeggy è gotica perché racconta ciò che tutti sappiamo e cioè che non tutte le cose invisibili sono impossibili, che la superficie delle cose è appunto solo un esercizio, che esistono faccende di natura varia che non possono essere nominate ma neppure negate.

Dunque, se qualche volta non veniamo nominati o visti, non ammazziamoci. Leggere Jaeggy serve per vivere felici e non ammazzarsi, per non cedere alla richiesta di inesattezze non richieste nella quali tutti viviamo. Nelle conversazioni e nella modulistica. Esistono gli oggetti che passando da una mano all’altra, da una casa all’altra ci fanno vivere con i fantasmi e come i fantasmi. 

Qualche giorno fa, mentre parlavamo al telefono, ho detto Fleur, in fondo, gli altri possono essere un sollievo, lei mi ha risposto Raramente. E abbiamo riso, come quando leggendo le lettere a Milena di Kafka ci si imbatte in quella frase che recita C’è molta speranza, ma nessuna per noi. Che mi pare sempre molto adatta al giorno in cui uno compie gli anni. E gli anni compiono noi.

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