Albert Speer, verità e menzogne
Quasi mille pagine, decine di anni di ricerche, colloqui, letture di documenti, libri, giornali, memorie. Una vita di studi dedicata ad Albert Speer. Ma ne valeva la pena? Pochi giornalisti, storici o ricercatori possono vantare un’opera così immensa come quella di Gitta Sereny culminata nel libro Albert Speer. La sua battaglia con la verità (Adelphi, traduzione di Valeria Gattei). Un’opera immensa dalla lettura ambivalente: gradevole e insieme faticosa, interessante e respingente, noiosa eppure avvincente. Non si parla solo di Speer (1905-1981), l’architetto scelto da Hitler, ma dell’intera Germania nazista. Lui era un giovane brillante, di ricca famiglia alto-borghese, dagli studi seri, con una carriera universitaria subito assicurata. Nel 1931, allarmato dal caos della società tedesca del tempo e convinto dal fascino discreto di Hitler durante un incontro con gli studenti si era iscritto al partito nazista, ma – lui afferma – senza eccessivo impegno e poi avvenne la svolta verso il successo, la gloria e infine la tragedia, come dichiarò ai giudici nel celebre processo di Norimberga ai massimi gerarchi del Terzo Reich. Fu uno dei pochi a essere condannato, nel 1947, a ‘soli’ venti anni. La strategia di difesa era nel presentarsi come professionista scrupoloso: «Io mi vedevo così un architetto che prima aveva un certo numero di clienti e poi uno soltanto, Hitler». Ecco lo strenuo tentativo di accreditarsi come un tecnico prestato alla politica. Un architetto tutto preso dai monumentali progetti di ricostruire Berlino con immensi progetti, custoditi nel sancta sanctorum delle Modellhallen, del laboratorio dove aveva posto il grandioso plastico di “Germania” la nuova capitale del Reich millenario. In quell’atelier si svolgevano le conversazioni con Hitler, appassionato di architettura, come tutti i dittatori.
Così ricorda Speer a Gitta Sereny: «Nell’estate del 1939, una sera ci trovavamo di fronte al plastico del grande palazzo dei congressi, con l’enorme cupola. Hitler indicò il disegno dell’aquila del Reich con la svastica fra gli artigli in cima alla cupola, che doveva essere alta duecentonovanta metri. “Questo va cambiato” disse. “Al posto della svastica, metta l’aquila appollaiata sul globo terracqueo”. Naturalmente mi rendevo conto del fatto che volesse dominare il mondo. […] A quell’epoca non chiedevo niente di meglio. Era questo il senso delle mie costruzioni. Se Hitler si fosse fermato alla Germania sarebbero sembrate grottesche. Io volevo che questo grande uomo dominasse il mondo». La grande sala delle adunate naziste doveva a sua volta avere un’altezza di duecentoventi metri e un diametro di duecentocinquanta con una capienza di centottantamila spettatori in piedi. Speer era l’architetto che assecondava con entusiasmo la mania megalomane del Führer, tentando di dare un’immagine ‘unpolitisch’, impolitica di sé stesso, ma non poteva ignorare che quei progetti erano la proiezione di ben altri piani: quelli della conquista dell’Europa e del mondo, come il Führer gli confidò dopo il congresso di Norimberga del 1935 per cui Speer aveva raggiunto un successo straordinario con le sue istallazioni di “suoni e luci”. Hitler ormai dava sfogo alla sua sfrenata volontà di potenza, che l’architetto registrava sognando costruzioni faraoniche: «Creeremo un Reich enorme, Speer, che unirà tutti i popoli germanici, dalla Norvegia fino all’Italia settentrionale. Devo realizzarlo da solo: nessun altro ha l’esperienza e la volontà per farlo. Se solo riuscissi a mantenermi in salute! E i suoi palazzi berlinesi saranno il coronamento di quest’impresa. Capisce ora la necessità delle dimensioni monumentali? La capitale del Reich germanico!”».

Agghiaccianti prospettive, eppure non per Speer né per la stragrande maggioranza ‘ariana’ dei suoi compatrioti che sembrava vivere in un sogno.
Per centinaia e centinaia di pagine l’autrice riporta dialoghi talvolta serrati talora conviviali con Speer, ormai liberato dal carcere-fortezza di Spandau (ancora in funzione fino alla morte di Hess), con la moglie, i figli, i collaboratori di un tempo, reclutati giovanissimi con vera genialità da Speer, alcuni dei quali diventarono tra i più affermati architetti negli anni della ricostruzione, nonché vari personaggi di spicco del regime. Vi sono inoltre ampissimi excursus sull’atmosfera sociale, politica e militare nel Terzo Reich, con citazioni fin troppo abbondanti dai diari di Goebbels, e con approfondimenti degli aspetti spesso criminali della politica nazista come l’eutanasia di stato e la persecuzione e lo sterminio degli ebrei, che sono i temi più scivolosi e inquietanti: nessuno sapeva, nessuno si avvedeva, tutti erano felici e contenti che Hitler aveva fatto ripartire il “made in Germany” con l’immediato superamento della crisi economica, la costruzione di autostrade, con una spessa cementificazione, certo pensata per i nuovi panzer, ma anche per i ‘maggiolini’, le automobili per il popolo, la mitica Volkswagen, alla cui progettazione aveva partecipato il carismatico Führer. Tutto questo diffondeva un clima di attivismo e di felicità collettiva: è qui la chiave del successo, dell’effetto di Hitler sul suo Volk, ovvero sul popolo, ‘purificato’ dagli ebrei, e soprattutto sulla giovane generazione. Paradossalmente quest’operazione di ipnosi collettiva, questo incantamento generale, questo sopore collettivo delle coscienze avveniva con la parola d’ordine Deutschland erwache! Germania svegliati! cui seguiva la tremenda ed eloquente parola d’ordine: Juda, verrecke! (liberamente: Morte agli ebrei).

Il Führer aveva creato un’atmosfera diffusa di futuristico entusiasmo: «L’idea che Hitler mi avesse dato la possibilità di lavorare – per lui e per la Germania – era… felicità pura. Era un’emozione […] molto profonda e piacevole. Voglio dire, queste emozioni non riuscivo a classificarle, né allora né dopo. I miei sentimenti erano legati soprattutto all’uomo, Hitler? Al paese, alla Germania? Al lavoro? Non lo sapevo né, suppongo, avevo bisogno di saperlo o cercavo di scoprirlo. Bastava provare qualcosa; soprattutto fare qualcosa». Ernst Jünger di fronte a questi uomini del fare parla dei tecnici della potenza, inebriati dal mito del potere e Speer ne aveva moltissimo e il potere cresceva e cresceva: il 30 gennaio del 1937 fu nominato Generalbauinspektor, responsabile generale delle costruzioni dell’intero Reich, fino a raggiungere l’acme del 1942 quando il Führer lo nominò – in pieno conflitto – ministro degli armamenti dopo la morte (misteriosa) di Fritz Todt, il genio dell’organizzazione e Albert Speer non fu da meno anche perché si trovava a disporre di masse di forza-lavoro gratuita: le inermi moltitudini di prigionieri e d’internati nei Lager. Alla fine giunse dal bunker di Hitler l’ordine terribile – il famigerato Decreto Nerone – nell’aprile del 1945: distruggere tutto, ponti, fabbriche, strade, tutto, fare deserto. Allora Speer, per la prima volta, si rifiutò di eseguire la direttiva dell’amato Führer, che stranamente lo lasciò andare via, sano e salvo, da Berlino. Certo, il rapporto del giovane architetto, alto, bello, distinto, elegante, discreto, con l’“imbianchino”, il “caporale” austriaco doveva essere assai intenso e ambiguo. L’autrice allude a tensioni omosessuali tra i due, confinate nell’ambito platonico.

Albert Speer si era sposato assai giovane con Magarete Weber, la moglie che amò per tutta la vita, madre dei suoi sei figli, molto spesso ospite ai pranzi e alle cene del Führer a Berlino a al Berghof, dove Hitler aveva il suo idilliaco locus amoenus tra le Alpi e dove Speer si era costruito una Hütte, un casolare, come pure altri gerarchi, tra cui Göring e Bormann, per stare vicino a Lui. Sicuramente tra Hitler e Speer si era stabilita una forte simpatia. Speer era stato assai lentamente accettato da Hitler dopo un primo incontro a Monaco, dove il giovane architetto, ancora assai intimidito dal Führer, si era recato per esporgli il suo progetto per la ristrutturazione della sede del partito. Hitler, muto, non gli rivolse lo sguardo, tutto impegnato a smontare e rimontare un revolver. L’architetto non se ne ebbe a male, era troppo felice per l’insperata e inattesa occasione professionale. A Berlino nel cantiere dove Speer lavorava ai progetti per il partito, Hitler cominciò a venire spesso, d’improvviso. Un giorno lo invitò a pranzo e addirittura, per sostituire la giacca impolverata di calce, gli prestò la sua con il distintivo d’oro, che designava il Führer. I gerarchi presenti capirono che Albert era il favorito, che però non abusò mai della sua posizione di potere. Gli inviti sempre più frequenti divennero una abitudine, che coinvolse anche la giovane signora Speer, lusingata dall’elegante baciamano viennese da parte del Führer. Poi il crollo sempre più rapido, la catastrofe, il processo e la condanna, per altro abbastanza tenue, insieme agli altri sette gerarchi non condannati a morte.

A Spandau ebbe luogo una graduale catarsi grazie al pastore calvinista francese Georges Casalis con cui Speer cominciò un percorso di ravvedimento con la lettura guidata dell’opera teologica di Karl Barth. Casalis fu trasferito dopo tre anni, troppo presto, lasciando Speer in una profonda depressione cui seguì una nuova inaspettata fase della vita: la scrittura, con lettere dapprima clandestine alla famiglia e qualche intimo. Decine e decine di migliaia di fogli, all’inizio sui più impensabili mezzi: la carta dei pacchetti di sigarette e perfino quella igienica. Si contano più di 25.000 di lettere, quelle più intense, intime e affettuose furono quelle all’unica figlia veramente amata, Hilde, con cui si stabilì un dialogo intenso e autentico: «Questa ragazza esile e delicata dai serici capelli biondi, che aveva solo dieci anni quando il padre era stato condannato e che gli sarebbe rimasta accanto caparbiamente per tutto il periodo della detenzione, aveva già instaurato con lui un rapporto molto speciale». Hilde Speer era nata nel 1937, amò il padre e voleva sapere. Lavorò coraggiosamente su se stessa: ancora liceale si recò per un periodo di studio in America ospite presso una generosa famiglia di ebrei. Per il padre Hilde rappresentò la vera ancora – seppur precaria – di salvezza psicologica.

Mi capitò d’incontrarla nel 1968 a Berlino; suo marito Ulf Schramm era un giovane (eravamo tutti giovani nel ’68) germanista, specialista di Musil, politicamente impegnato nella “Rote Zelle” (Cellula rossa) della facoltà di Lettere. Un giorno m’invitò a casa, era in anno sabbatico, aveva deciso di prendersi cura del figlietto appena nato. Un gesto che apprezzai molto. Hilde era impegnata in politica e lo è ancora per la sinistra berlinese, precisamente per i Grünen (i Verdi), è stata anche vicepresidente del partito nell’anno fatidico 1989-1900 e a lungo deputata al senato di Berlino distinguendosi in campagne a favore delle vittime del nazismo e dei perseguitati ebrei. Strano destino: un padre impolitico, ogni giorno accanto al Führer e lei così generosamente politica. Nel 1966 aveva accolto il padre ormai liberato dal carcere. Per anni collaborò all’ordinamento delle migliaia di lettere, degli scritti e del ‘memoriale di Spandau’, da cui Speer trasse Memorie del Terzo Reich, il suo best seller mondiale, nonché i Diari segreti di Spandau, che rivelano un autentico talento letterario con l’evocazione della solitudine e tristezza di un uomo travolto dal destino e dalla colpa, con la sua incerta battaglia con la verità, un testimone singolare, ancor oggi incomprensibile, della più grande tragedia della storia, non solo tedesca.
