Vogliamo essere groenlandesi

16 Agosto 2025

A chi appartiene la Groenlandia? Si tratta dell’isola più grande del mondo, con una superficie che corrisponde ca. a metà di quella dell'Unione Europea, mentre la sua popolazione è pari a quella di Baden-Baden, ca. 57.000 abitanti. Un paese artico ricco di risorse naturali non sfruttate, situato in una posizione strategica tra il Nord America, l'Europa e l'Asia.

All'inizio del XVIII secolo i danesi avevano colonizzato l’isola. Di recente Donald Trump ha rivendicato un presunto diritto di proprietà: il repubblicano Buddy Carter ha proposto alla Camera dei rappresentanti di rinominare la Groenlandia (in inglese “Greenland”, letteralmente terra verde, n.d.t.) “Red, White and Blueland”, dai colori della bandiera statunitense. A marzo di quest’anno Trump ha dichiarato che “in un modo o nell'altro” avrebbe ottenuto la Groenlandia.

Tuttavia sono finiti i tempi in cui le superpotenze si spartivano il resto del mondo: un “resto” che a loro appariva vuoto. I 57.000 groenlandesi non godono ancora di una piena libertà politica e anche da un punto di vista economico dipendono dalla Danimarca, ma continuano ad aspirare all'indipendenza del loro Paese. "Non vogliamo essere danesi. Non vogliamo essere americani. Vogliamo essere groenlandesi", ha recentemente dichiarato il primo ministro Múte Bourup Egede. È vero che la coalizione tra il suo partito, Inuit Ataqatigiit (Comunità degli Inuit), e il partito socialdemocratico Siumut (Avanti), ha perso la maggioranza nelle parlamentari dell'11 marzo. Tuttavia, anche il partito vincitore Demokraatit, guidato da Jens-Frederik Nielsen, è favorevole a una separazione dalla Danimarca, non appena l'economia groenlandese avrà raggiunto una maggiore stabilità economica.

Già all'inizio dell'anno, Egede aveva prospettato un referendum sull'indipendenza del Paese. Vi sono buone possibilità che una tale iniziativa abbia esito positivo: un sondaggio condotto alla fine di gennaio, ha rivelato infatti che più della metà dei groenlandesi voterebbe a favore dell'indipendenza e che l'85% rifiuta di essere governato dagli Stati Uniti. Hanno già avuto abbastanza esperienze negative sotto il dominio danese. Contrariamente a quanto si dice, il colonialismo danese non è stato affatto filantropico, né innocuo.

Ne parla in modo coinvolgente il romanzo pluripremiato Blomsterdalen di Niviaq Korneliussen. La giovane scrittrice groenlandese vi descrive cosa significa vivere in una società che non si è ancora liberata completamente dal giogo coloniale. La valle dei fiori questo il titolo del romanzo pubblicato in tedesco (e in italiano, trad. di Francesca Turri, Iperborea, 2023) nel 2023 – racconta di un’inquietante ondata di suicidi. Nell’omonima valle, vicino a Tassilaq, vi è un cimitero ricoperto di fiori di plastica. Tra queste tombe anonime sono sepolti numerosi giovani che hanno scelto di porre fine alla propria vita.

Questi suicidi di massa non rappresentano una finzione romanzesca. Ancora oggi la Groenlandia ha uno dei tassi di suicidio più alti al mondo: è schizzato in alto negli anni Settanta, raggiungendo il picco nel decennio successivo. “La Groenlandia è condannata a morte”, dichiara una Inuit senzatetto nel romanzo di Korneliussen: “È la legge della natura, un popolo che non riesce a destreggiarsi su questa Terra, è destinato a estinguersi”. Eppure prima del 1970, tra gli Inuit della Groenlandia (i Kalaallit, come si definiscono loro stessi), il suicidio era un fenomeno pressoché sconosciuto. Cos’è accaduto?

Per capirlo realmente, dobbiamo fare qualche passo indietro nella storia.

Circa 4.500 anni fa, i primi nomadi Inuit giunsero sull’attuale Groenlandia venendo da ovest sulle proprie canoe. Trovarono un’isola ricoperta da una spessa calotta glaciale. Si dedicarono alla caccia: di foche, narvali e trichechi nelle acque costiere; mentre sulla terra ferma, grazie alle slitte trainate dai cani, cacciarono buoi muschiati, caribù e orsi polari.

Fu solo millenni dopo, nel 985, che i primi europei approdarono in Groenlandia: erano i Vichinghi. Si insediarono principalmente come pastori sulle coste meridionali e occidentali. Tuttavia, per ragioni ancora sconosciute, dopo il 1410 scomparvero.

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Il viaggio del pastore Hans Egede verso la leggendaria isola verde, 1721

Passarono altri trecento anni prima che il Regno di Danimarca-Norvegia (che dal XVII secolo comprendeva possedimenti in India, in Africa e nei Caraibi, nonché le Isole Faroe e l'Islanda) annettesse la Groenlandia al proprio impero. Nel 1721, il pastore luterano Hans Egede (originario di Harstad in Norvegia), partì con tre navi e circa quaranta uomini per conto di Re Federico IV. L'obiettivo era convertire alla fede luterana i leggendari Vichinghi dell'isola verde e di conquistarla per la corona danese-norvegese. Fondò dunque la prima stazione missionaria della Groenlandia occidentale. Sette anni dopo, sorgeva Godthåb (“Buona Speranza”): un villaggio abitato da danesi praticanti, da cui in seguito si sviluppò l'attuale capitale Nuuk. Tuttavia il pastore Egede non riuscì a trovare alcuni discendenti dei Vichinghi. Fu così che annunciò la “Buona Novella” ai “selvaggi” che incontrò e che considerava stupidi pagani. Egede e il suo seguito demonizzarono la spiritualità sciamanica degli Inuit con le loro danze rituali. Oltre alla fede cristiana, portarono con sé gravi malattie: negli anni Trenta del XVIII secolo, un'epidemia di vaiolo uccise quasi la metà degli Inuit della Groenlandia occidentale.

La spedizione di Egede era stata finanziata da una compagnia commerciale di Bergen: l’obbiettivo era di avviare il commercio con la nuova colonia. Tuttavia l’inizio fu difficoltoso, poiché i mercanti danesi e norvegesi non parlavano il kalallisut. Il re dovette intervenire per salvare la colonia. Nel 1774, la corona danese concesse alla società statale “Den Kongelige Grønlandske Handel” il monopolio sul commercio con la Groenlandia: questa forniva alla colonia tutti i beni necessari che venivano barattati con grasso di balena, pelli di foca, e olio di grasso della stessa (molto richiesto in Europa come combustibile per le lampade a olio). Il monopolio sopravvisse fino al 1950 e contribuì a integrare l'antica cultura dei cacciatori Inuit in un modello di impronta capitalistica. Allo stesso tempo, isolò gli Inuit dal mondo moderno, consentendo di mantenere intatta la loro base economica e dunque il rispettivo stile di vita fino al XX secolo.

La situazione cambiò con l’avvento della Seconda guerra mondiale. Quando la Danimarca fu occupata dalla Wehrmacht nell'aprile 1940, non fu più in grado di garantire la difesa e l'approvvigionamento della Groenlandia. Franklin D. Roosevelt, allora presidente degli Stati Uniti, venne in soccorso: inviò le sue truppe e fece costruire basi militari, aeroporti, stazioni radio e meteorologiche. Dopo il 1945, il governo Truman negoziò con Copenaghen la prosecuzione dell’uso militare dell'isola: anche perché, con l'avvicinarsi della Guerra Fredda, la sua importanza strategica non faceva che aumentare.

Già allora gli Stati Uniti proposero alla Danimarca di acquistare questa colonia nell'Atlantico settentrionale (come avevano fatto nel 1917 con le Isole Vergini nei Caraibi). Copenaghen da un lato rifiutò, ma dall’altro si dichiarò disposta ad accettare la presenza militare permanente in Groenlandia.

Fu così che, nel 1951, 1.200 chilometri a nord del Circolo Polare Artico, ebbe inizio la “Operation Blue Jay”: migliaia di soldati statunitensi costruirono l'enorme base aerea di Thule. Una pista di atterraggio lunga tre chilometri che attraversa la pianura della tundra incontaminata di Pituffik. Durante le tensioni della Guerra Fredda, questo punto – situato a metà tra New York e Mosca – divenne una delle più importanti basi aeree della superpotenza occidentale.

Ma l'impianto non fu costruito in un deserto di ghiaccio: appena entrato in funzione, tutti gli Inughuit – il nome del più piccolo dei tre gruppi etnici indigeni – che vivevano nelle vicinanze furono espropriati ed espulsi per volere dell'amministrazione coloniale danese. La base militare era già stata isolata con recinzioni, dunque gli Inughuit non potevano più andare a caccia senza ostacoli. Nel maggio 1953, 116 di loro dovettero lasciare il villaggio di Uummannaq. I danesi promisero loro case sostitutive a ben cento chilometri di distanza: a Qaanaaq, nell'insediamento più settentrionale della Groenlandia. Quando gli Inughuit vi giunsero sulle loro slitte trainate da cani, i materiali da costruzione non erano ancora arrivati. Gli sfollati passarono dei mesi in delle semplici tende nel freddo artico prima di potersi trasferire nelle loro mini-case.

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Fotografia di Annie Spratt.

La perdita del loro stile di vita ha causato profonde ferite emotive. Nel nuovo luogo di residenza gli Inughuit riescono a mantenersi a malapena con la caccia e la pesca, dunque sono diventati dipendenti dall’acquisto di cibo e dai sussidi sociali della Danimarca. Nel giro di pochi mesi, questo "popolo dell'arpione" fu catapultato dall'"era delle foche" all'era atomica, come descritto dall'etnologo Jean Malaurie nel suo bestseller Gli ultimi re di Thule (1955).

Nel frattempo, sulla scia della decolonizzazione globale, aumentò la pressione internazionale affinché la Danimarca trovasse una soluzione sostenibile per la sua ultima colonia. Il governo di Copenaghen cercava un modo per abolire formalmente il regime coloniale, pur mantenendo il controllo sulla Groenlandia, ricca di risorse ittiche e minerarie. A tal fine, la nuova costituzione del 1953 incorporò l'isola nordatlantica come la provincia più settentrionale della comunità imperiale danese.

Gli Inuit divennero così cittadini danesi senza essere interpellati. Da quel momento in poi, poterono persino inviare due rappresentanti al parlamento danese. Tuttavia, i "danesi del Nord", come venivano ora chiamati, vissero questa presunta emancipazione come "l'inizio effettivo del dominio coloniale straniero", come scrive lo storico Ebbe Volquardsen. L'obiettivo della Danimarca era quello di "far sviluppare" l'isola, che era molto povera, e di portare gli "eschimesi primitivi" agli standard scandinavi il più rapidamente possibile.

Ciò sarebbe stato possibile grazie alla cattura e alla lavorazione industriale del merluzzo. A questo scopo Copenaghen investì nella costruzione di aeroporti, strutture portuali, ospedali e scuole. Si ottenne così il contenimento della tubercolosi, malattia dei poveri e all'epoca principale causa di morte in Groenlandia.

Tuttavia, i progressi avevano un rovescio della medaglia. Non da ultimo per ragioni di costo, gli Inuit che vivevano sparsi lungo le coste, furono costretti a lasciare i loro villaggi e a trasferirsi in piccole città emergenti come Nuuk. In palazzine di cemento o in case prefabbricate, gli ex cacciatori da una parte avevano i comfort della vita moderna: stanze riscaldate, luce elettrica, acqua corrente e servizi igienici. Inoltre molti dei reinsediati hanno trovato lavoro nelle fabbriche di pesca che producono per l'esportazione. Ma in cambio hanno perso i legami identitari con la terra, i loro vecchi territori di caccia e le loro reti sociali.

I bambini inuit, separati dai loro genitori, dovevano diventare "cittadini danesi modello"

Nelle scuole gli indigeni venivano deliberatamente allontanati dalla loro cultura: insegnanti danesi insegnavano ai bambini in danese. In alcuni casi, bambini e ragazzi sono stati separati dai genitori: mandati in Danimarca, a più di 3.500 chilometri di distanza, per essere educati.

Nel 1951, questo accadde a 22 bambine e bambini "scelti", di età compresa tra i cinque e gli otto anni. Solo alcuni di loro erano orfani. Dovevano essere rieducati per diventare "cittadini danesi modello" e contribuire a lanciare la "nuova Groenlandia" come futura élite di lingua danese.

In Danimarca, questi bambini hanno sofferto per la nostalgia di casa e per il cibo sconosciuto. Un anno e mezzo dopo, 16 di loro sono stati riportati in Groenlandia (gli altri sono stati adottati definitivamente dai genitori affidatari danesi) e sono stati costretti a vivere in una casa per bambini della Croce Rossa a Nuuk per altri otto anni. I contatti con le loro famiglie erano limitatissimi e severamente controllati, inoltre fu permesso loro di parlare solo in danese, cosicché quasi tutti dimenticarono la loro lingua madre e non erano più in grado di comunicare con i loro genitori e fratelli a Kalaallisut.

Helene Thiesen, nata nel 1944, era una di questi bambini. Nelle sue memorie (pubblicate in inglese nel 2022 Routledge), racconta che questo esperimento sociale ha segnato i "bambini rubati" per il resto della loro vita. Alcuni hanno sviluppato malattie mentali, altri si sono dati all'alcol o si sono tolti la vita. "Il governo danese", ha detto in un'intervista, "ci ha portato via la nostra famiglia, la nostra lingua e la nostra patria – e poi, a un certo punto, si è semplicemente dimenticato di noi".

L'assimilazione forzata dei "bambini sperimentali" non fu l'ultima violazione dei diritti umani. Per rallentare la rapida crescita della popolazione inuit, alimentata da una migliore assistenza sanitaria e dall'aumento del tenore di vita, a partire dal 1966 le autorità danesi fecero impiantare la spirale a migliaia di giovani donne groenlandesi: si dice che ne siano state impiantate 4.500 nell’arco di soli 4 anni: tra il 1966 e il 1970. Lo scandalo è diventato pubblico in Danimarca solo due anni e mezzo fa.

Le ragazze, spesso minorenni, non sapevano cosa stesse accadendo loro. Nella maggior parte dei casi, la procedura, oltretutto dolorosa, veniva eseguita all'insaputa dei genitori o senza il loro consenso, approfittando di controlli sanitari di routine o di ricoveri in ospedale. Una misura contraccettiva obbligatoria per contenere i costi crescenti di asili, scuole e i sussidi per le giovani madri non sposate. Nel 1970 – all'inizio del decennio in cui iniziarono ad aumentare i suicidi – il ministro responsabile annunciò con orgoglio che il tasso di natalità era stato dimezzato.

Solo di recente la Danimarca, un paese elogiato come esemplare sotto molti aspetti, ha iniziato ad affrontare il suo passato coloniale. Per molto tempo si è creduto che il suo dominio sulla Groenlandia fosse un'impresa animata da buone intenzioni. I danesi non hanno mai soppresso militarmente la Groenlandia, ma la politica di modernizzazione e ‘danesizzazione’ ha distrutto completamente ciò che, fino al 1950 ca., restava della vecchia società inuit. I numerosi suicidi sono stati anche una reazione a questa forma di invasione e violenza da parte dello Stato.

Nonostante tutto, negli ultimi anni i groenlandesi hanno acquisito fiducia in se stessi e hanno sviluppato una nuova forma di autostima – a volte mista a rabbia: la notte del 21 giugno 2020, alcuni attivisti hanno cosparso di vernice rossa la statua dedicata a Hans Egede sopra il vecchio porto di Nuuk. Sul piedistallo vediamo l’imperativo "Decolonizzatevi!", e sotto di esso si riconoscono diversi simboli inuit. Si è trattato di un atto simbolico di liberazione, avvenuto poco dopo l'attacco mortale della polizia all'afroamericano George Floyd. Nei prossimi anni potrebbe seguire il tentativo di compiere il passo verso l'indipendenza anche da un punto di vista politico. In nessun caso, però, i groenlandesi si scrolleranno di dosso le vecchie catene per finire come Red, White, and Blueland.

Articolo apparso in DIE ZEIT n. 11/2025 (13 marzo 2025), per gentile concessione dell'autore e della testata, che ringraziamo. Traduzione dal tedesco di Elisabeth Zoja.

In copertina, fotografia di Tina Rolf.

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