Crisi e biciclette

17 Agosto 2025

Se si scendono pochi gradini, al numero Sessanta/D di Passeggiata Lungopassirio, ci si trova davanti a quella che fu la Redazione Meranese del quotidiano "Alto Adige". È stata chiusa anche questa. Una mano sapiente ha disposto sul banchetto bianco che sta in vetrina tre oggetti cartacei: una fotocopia di due intestazioni della pagina di Merano del giornale, una ancora con l'indirizzo meranese, datata trenta settembre duemilatredici, l'altra, del giorno successivo, con l'unico indirizzo ormai della sola sede principale, bolzanina. Poi c'è un'altra fotocopia, quella d'una pagina di un giornale concorrente, in lingua tedesca, intitolata "La fine di un'era". Allineato accanto alle due fotocopie, già lievemente ingiallite, sta un volumetto rosso che reca in copertina la seguente dicitura: Guida ai servizi cimiteriali di Merano. Oltre il banchetto bianco s'intravedono le scrivanie deserte, ingombre di vecchie copie sparse dell'"Alto Adige". Tutto appare come pietrificato e senza tempo.

Qualche mese dopo la chiusura, e naturalmente proprio sulla pagina meranese, giusto a fondo pagina, è comparsa un'inserzione che annunciava la messa in vendita dei locali della ex-redazione. Per ora rimangono senza compratore. Chissà, forse la redazione meranese riaprirà in un futuro non così remoto.

Non molto lontano dalla Passeggiata Lungopassirio Sessanta/D si possono per il momento osservare un paio di gelaterie che prima fungevano da mercerie e poi sono state trasformate in tabaccherie e poi anche in gioiellerie, nelle loro vite precedenti, di gestione in gestione, ma invano: chiudono, chiudono tutti, uno dopo l'altro, uno accanto all'altro, negozi vuoti come piscine vuote. Oppure negozi-fantasma, con le stesse borse perennemente esposte, uguali di mese in mese, d’anno in anno. Gli stessi tappeti invenduti che sbiadiscono lentamente. È la crisi. 

La crisi come se la immaginava Pasolini in uno dei suoi estremi sprazzi poetici: piccole fabbriche crollanti, giovani coi calzoni rattoppati di ritorno da Torino o dalla Germania che suonano il mandolino, i vecchi di sera seduti sui muretti come su poltrone di senatori. Persino i banditi, secondo Pasolini, avrebbero riacquistato, con la crisi, facce umane e capelli corti. E fin qui bene. Ma quando il poeta in questa sua immaginaria Recessione, scritta in friulano nel 1974, descrive visioni di "città grandi come mondi, piene di gente che va a piedi" e "treni e corriere che passeranno di tanto in tanto come in un sonno" e "borghi vuoti di motori", ahi! come si sbaglia! Come si sbagliava il nostro poeta corsaro e luterano! Non riusciva a concepire, nemmeno lui che di contraddizioni assolute era esperto, il paradosso di una crisi in cui la gente continua ad andare a motore, in auto, moto, autotreno e autoarticolato.

C'è chi dice, dati alla mano, che, con la crisi, sono aumentate le biciclette. La circolazione delle biciclette avrebbe subito un'autentica impennata. E c'è chi se ne rallegra. Se ne rallegrerebbero anche i camminanti se è per questo. La bicicletta è un mezzo gentile, umano, ecologico e perfino poetico. 

È presente in effetti in molte poesie. Una, molto bella, di Guido Gozzano, Le due strade (1907), dove campeggia una splendida "bicicletta accesa d'un gran mazzo di rose", la bici d'una giovane ragazza, bella, forte, vivace bruna. E' una "macchina", dice il poeta, che ha "il fruscìo d'un piede scalzo", che ha il fruscìo "d'un battere d'ali ignote", "un non so che d'alato" che la anima. L'adolescente in bici, questa bici adorna di rose, scende per una strada che pare d'alabastro e sorride. I suoi denti mandano un baluginare come di perla.

Di questa giovane balenante in bici dev'essersi ricordato una trentina d'anni dopo (1938) Vittorio Sereni. Anche lui, in una sua deliziosa poesia, parla d'una certa Bianca il cui ricordo "è un fruscìo solo di velocipedi che vanno quietamente". La ragazza in bici si avventura per una discesa, tra cancelli e case e sospirosi declivi, finché, leggera nel vento, si perde nella sera.

Giorgio Caproni, anche lui grande poeta, forse il più grande del Novecento, ha dedicato un'intera poesia alle Biciclette, composta nel 1947. Otto stanze di sedici versi ciascuna consacrate al mezzo in questione. È, per molti aspetti, una poesia profetica. Si sa, del resto, che i poeti, nell'impeto dell'ispirazione, possono anticipare il futuro e comprendere a fondo realtà lontanissime più di mille esperti e studiosi.

Anche Caproni inizia con il "delicato suono di biciclette umide" che sembrano "un'arpa nel mattino", mentre il tenue ronzio dei raggi è come un "lieve trasporto di piume". Il pedale è melodico. Soffia una "brezza di armoniche ruote". Siamo in pieno idillio ciclistico. Ma non dura. A poco a poco insensibilmente la rappresentazione idillica dei bicicli s'incrina. Subentra una dura realtà le biciclette sono "tetre". Ronzano funeste. "Sul pedale preme un tallone senza cuore".

È proprio così. Non è tanto importante che il poeta abbia metaforizzato l'incombere della guerra tramite questo mutare di segno nella descrizione delle bici: dal positivo al negativo, dal paradisiaco all'infernale. Quello che conta è l'aver colto infallibilmente la temibile insidia del mezzo a due ruote. A Merano non c'è la guerra (a meno che essa non si svolga sempre e dovunque benché non dichiarata), però le bici hanno caratteristiche sinistre, infide, perniciose.

Naturalmente sono tali i ciclisti, non i loro ignari e docili strumenti meccanici. I ciclisti di Merano sbucano come folli da ogni svolta, curva, dosso, cunetta, uscita, passo carrabile e non. Naturalmente godono, sempre come folli, a sfrecciare sui marciapiedi, soprattutto se contromano. Ancor di più qualora possano fare pelo e contropelo a inermi passanti, pedoni, camminanti anche malfermi, i quali tutti fungono da paletti per i loro slalom demenziali. Paletti umani non consenzienti. Coatti piuttosto. I ciclisti meranesi hanno occhi iniettati di sangue. Facce contratte in smorfie di scherno. Anche quelli di Bolzano sono così. Forse, e ci si crede a stento, sono addirittura peggio, i ciclisti di Bolzano. Attraversare sulle strisce pedonali, per un camminante, è molto ma molto ma molto più rischioso se si tratta di una pista ciclabile che se si trattasse di una strada percorsa da auto, a Bolzano. Il bolzanino è evidentemente colpito dal nome pista più che dall'aggettivo ciclabile. Se è una pista devo correre a più non posso, pensa, per onorare degnamente il nome.

Ad Amsterdam, tanto per fare un paragone, i ciclisti, vanno più piano. E lì, si può controllare, le bici, che sono moltissime, sono anche più o meno tutte sprovviste di freni. Corrono a frotte, a torme, ma si fermano non si sa come agli stop, tutte senza eccezione. O meglio si sa come: i ciclisti puntano i piedi per terra, oppure si aggrappano alle ringhiere dei ponti (ad Amsterdam, di ponti, ce ne sono parecchi), si abbrancano a pali e piloni. Però si fermano.

A Merano, a Bolzano (a Trento chissà) i ciclisti non concepiscono nemmeno la possibile esistenza d'un pedone sul loro percorso. Come mai? Cosa sta alla base di tale insano atteggiamento?

A tutta prima si potrebbe pensare che i ciclisti semplicemente condividano il clima di aggressività generale che pare regnare a Merano, a Bolzano e forse anche a Trento. Sì perché a Merano, per esempio, sono aggressive anche le madri con la carrozzella. Spingono avanti i loro piccini con sguardi spietati, truci. Usano i bambini come scudi umani. Anzi come arieti umani. Non parlano, ma i loro occhi, furenti, dicono: via! Fate largo! Passiamo noi, che abbiamo il merito di accrescere la specie! Scansatevi voialtri sterili! Può parere incredibile, ma anche i marmocchi nelle carrozzelle sono aggressivi: frignano in modo imperativo, o imperioso, coadiuvando con questi pianti ultimativi i comandi inespressi delle madri.

Però i ciclisti di Merano e Bolzano (Trento rimane un'incognita) possiedono un'aggressività specifica, che va indagata in sé. Dopo lungo (e rischioso) studio sul campo, un camminante di lungo corso ha formulato la seguente ipotesi: meranesi, bolzanini (trentini non pervenuti) si caratterizzano per un uso automobilistico della bicicletta. Ciò sta a significare che essi non sono dei miti e accomodanti ciclisti, dei ciclisti nativi per così dire, ma degli automobilisti che vanno in bici e che in quanto tali, cioè sia in quanto automobilisti sia in quanto ciclisti, si credono autorizzati, consciamente o meno, a usare la bici come fosse un'auto. Anzi, peggio di un'auto. Perché si permettono infrazioni continue, recidive e premeditate al codice della strada che da automobilisti non si permetterebbero mai. Se le permettono invece alla grande da ciclisti, in forza d'una presunta coscienza ecologica. Essi pensano più o meno così: ecco, ho lasciato l'auto in garage; non inquino; non occupo suolo pubblico; ergo: sono libero di fare quello che mi pare, con la mia bici e sfido chiunque a provare il contrario; e se qualcuno osa muovermi qualche obiezione, ritorno di corsa al volante e vi faccio vedere io!

Il camminante meranese e/o bolzanino ha dunque la vita dura; per lui automobilisti e ciclisti pari sono, più o meno. Può scegliere, eventualmente, tra l'auto e la bici: venir travolto da un'auto o da una bici? questo è il dilemma, e non è certo un bel dilemma. Un fatterello di cronaca minima, uno di quelli che si dimenticano subito, che non scatenano dibattiti, prese di posizione, polemiche, commenti e interventi, un piccolo evento insignificante può però servire alla riflessione: un ventoso giorno di marzo di qualche anno fa, a Bolzano, sulla pista ciclabile, nel passaggio che scorre sotto ponte Druso, due ragazzine in bici hanno investito un anziano (ossia un vecchio, dato che nella parola "vecchio" non c'è nulla di offensivo contrariamente a quel che crede la maggioranza ipocrita o "politicamente corretta"). Un cinquantenne, così riportano le cronache, ha assistito alla scena e, invece di prestare soccorso al vecchio o alle ragazzine, le ha schiaffeggiate ripetutamente, le ragazzine medesime, e le ha anche strattonate, ripetutamente anche questo. Schiaffoni e strattoni a iosa, alle ragazzine. Intanto il vecchio rantolava per terra. Un comportamento sicuramente riprovevole, deplorabile, censurabile, quello del cinquantenne.

Ma quanti soprusi avrà subito questo sciagurato camminante di mezza età, quanti, da parte di ciclisti efferati, aguzzini, assassini, che saettano e schizzano e scorrazzano con ghigno satanico sui marciapiedi e sulle parti pedonali delle pedo-ciclabili e su ogni millimetro quadro libero, ossia non invaso dalle auto? A quale raffica di shock auto-ciclistici sarà stato sottoposto questo povero diavolo di pedone cinquantenne prima di perdere la testa così, senza ritegno? 

Lasciamo il quesito in sospeso e tiriamo innanzi. Il cammino continua.

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