Trump e Putin: la diplomazia del set
Scrivere di come l’immagine in politica sia fondamentale, nell’epoca dei selfie, dello streaming 24/7 e della connessione perpetua, appare ridondante, eppure il summit tra Vladimir Putin e Donald Trump rappresenta un momento di passaggio importante proprio per come è stato strutturato il vertice, dalla sua convocazione alla conclusione repentina e senza pranzo ufficiale. Non è stato tanto l’incontro diplomatico in sé ad attrarre l’attenzione, quanto la sequenza di immagini che lo hanno preceduto, accompagnato e seguito, dando vita a un vero e proprio racconto visivo che ha finito per oscurare il contenuto dei colloqui.
L’impressione di chi ha osservato la preparazione dell’incontro in Alaska è di esser stato travolto da video e fotografie – tutte con grande potenziale memetico – di ogni dettaglio, dall’orsetto inquadrato da Kirill Dmitriev, membro della delegazione russa e a capo del Fondo sovrano d’investimenti, e prontamente pubblicato su Instagram, fino all’inserviente che passa l’aspirapolvere sul tappeto rosso steso per l’arrivo dei presidenti all’aeroporto di Anchorage. Scene minime, apparentemente marginali, che diventano materia prima per la costruzione di un immaginario collettivo. Non è importante ciò che mostrano, ma ciò che evocano: il tappeto rosso tirato a lustro non è più soltanto un gesto di pulizia, ma il simbolo della messinscena politica; l’orso non è un incontro casuale nella natura artica, ma una premonizione favorevole.

La felpa di Sergei Lavrov, una riproduzione di una sweater URSS ma dai colori inediti, bianco e nero, somigliante più a una divisa d’antan della Juventus che della nazionale sovietica, è un altro esempio di come l’iconografia abbia preso il sopravvento sulla diplomazia. Non conta la sostanza delle dichiarazioni che il ministro degli Esteri avrebbe poi rilasciato, ma la scelta di un capo d’abbigliamento rievocativo - senza esser nemmeno una copia conforme - che ha generato associazioni, battute, commenti. A questo si aggiungano i tendoni militari allestiti per ospitare i giornalisti, che restituivano l’immagine di un vertice “sul campo” o il viaggio di Putin in aereo, con la sosta a Magadan e l’incontro con la squadra giovanile cittadina di hockey: gesti e immagini pensati per comunicare non solo all’estero, ma anche e soprattutto all’interno, a un pubblico russo che segue con attenzione ogni dettaglio. E come dimenticare gli oltre centocinquantamila utenti connessi a FlightRadar24 per tracciare il volo del presidente russo verso Anchorage? In quel momento, più che di diplomazia, si è trattato di partecipazione collettiva a un rito: la traiettoria di un aereo come nuova forma di osservazione della politica estera.
Già prima dell’inizio dei colloqui vi era dunque stata una considerevole produzione di immagini, in grado di poter essere alla base di riflessioni, testi e meme per le settimane successive; ma la nostra epoca è segnata dalla velocità permanente: a quei fotogrammi preparatori sono seguiti gli scatti e le riprese dell’incontro vero e proprio, in grado di comunicare molto più delle scarne parole usate nella conferenza stampa finale. Se il vertice si è rivelato soprattutto un grande produttore di immagini, ciò non toglie che proprio queste abbiano avuto un impatto sugli equilibri politici. Perché, al netto delle dichiarazioni minimali e delle formule prudenti, il capitale simbolico accumulato da Putin è evidente; certo, Trump aveva cercato di impostare lo spettacolo: telecamere sempre accese, intervista preregistrata pronta a essere diffusa a mo’ di trailer, la scenografia studiata nei minimi dettagli, eppure… la regia si è rovesciata, e chi doveva essere al massimo coprotagonista è diventato il mattatore, ovvero Vladimir Putin, che ha potuto presentarsi al mondo non come l’uomo isolato, bensì come l’ospite accolto nella casa del nemico, anzi, dell’avversario egemone.
La narrazione ufficiale russa può ora giocare su un messaggio semplice e potente: la Russia non è sola, il suo ruolo di grande potenza è riconosciuto dall’egemone globale, gli Stati Uniti. Bastano le immagini – la discesa energica dalla scaletta, il sorriso compiaciuto intravisto dal vetro blindato della limousine americana – a conferire legittimità internazionale a Putin in un momento in cui le sanzioni e la guerra in Ucraina avrebbero dovuto, nelle intenzioni occidentali, relegarlo ai margini. In questo senso, il vertice non è stato un fallimento: è stato una vittoria sul piano iconografico.

La breve durata dei colloqui, rispetto a quanto si prevedeva (e qui torna utile la proverbiale cautela da usare con le previsioni di Peskov, il quale aveva ipotizzato ben 6-7 ore di discussione), sembra indicare che i russi non siano riusciti a ottenere l’inserimento della questione ucraina in un tavolo più ampio, legato alla gestione globale di aree sensibili come l’Artico, il Medio Oriente o forse l’Africa. Una volta caduta questa prospettiva, restava poco da discutere, e la scena si è chiusa in fretta, ma oggi anche un vertice povero di contenuti può generare effetti politici duraturi. Da una parte, Mosca ribadisce che il suo unico interlocutore credibile, in grado di darle risalto e legittimità, sono gli Stati Uniti: non l’Unione Europea, rumorosa a parole ma lenta e marginale nei fatti, ed è interessante come Pechino sia (al momento?) esclusa da questo dialogo tra Putin e Trump. Il Cremlino ha ottenuto la possibilità di mostrare al proprio pubblico interno – e anche a quello esterno – che la Russia è tornata al tavolo dei grandi, le minacce di Joe Biden e dei paesi europei son state una breve parentesi temporale, e il ruolo storico di Vladimir Putin è indiscutibile, ancora una volta, in tale rappresentazione della realtà. L’immagine, ancora una volta, prevale sul contenuto: il summit come quinta teatrale più che come luogo di negoziazione.
Alla fine, ciò che resta del vertice non sono le parole pronunciate nelle sale riservate né le dichiarazioni scarne della conferenza stampa, ma la densità di immagini prodotte attorno all’evento. Sul piano politico, i risultati sono modesti, quasi nulli: nessuna svolta, nessuna intesa di rilievo, nessuna apertura tangibile sulla questione ucraina. Ma sul piano iconografico l’effetto è stato dirompente. Il Cremlino ha potuto confezionare un racconto efficace, basato non sui contenuti ma sulle inquadrature: il presidente russo accolto negli Stati Uniti, il suo ingresso in una base militare americana, il contatto diretto con l’inquilino della Casa Bianca, istantanee che funzionano come capitale simbolico, strumenti di propaganda interna e segnali inviati all’esterno, a dimostrazione che la Russia non è isolata, che continua a essere riconosciuta come interlocutore necessario. Il summit in Alaska, in tal senso, ha offerto a Putin molto più di quanto abbiano fatto i negoziati stessi: ha consegnato alla sua leadership una serie di immagini pronte per essere incorniciate nella narrazione ufficiale. Nel linguaggio della politica contemporanea, dove il frame visivo ha un peso pari, se non superiore, alle parole, queste immagini valgono più di qualunque trattato. Una discesa energica dalla scaletta dell’aereo o un sorriso catturato dietro il vetro blindato di una limousine diventano strumenti di legittimazione e di forza simbolica, capaci di oscurare la sostanziale assenza di progressi concreti.
È il paradosso della nostra epoca: un vertice povero di contenuti ma ricco di fotogrammi può risultare più incisivo di un negoziato complesso ma privo di immagini memorabili. Così la politica si piega alle logiche della rappresentazione, e il potere si misura sempre più nella capacità di produrre icone spendibili. In questo quadro, Putin ha ottenuto ciò che voleva: non un accordo scritto, ma un palcoscenico globale da cui riaffermare che la Russia c’è, che siede ancora al tavolo dei grandi, che resta protagonista di una narrazione planetaria, diffusa a reti unificate e sui social, grazie all’hype promosso da Donald Trump. È questa, forse, la vera vittoria di Anchorage: non ciò che è stato detto, ma ciò che è stato mostrato, non un impegno da sottoscrivere, ma un set fotografico globale che ha trasformato la politica in rappresentazione. In Alaska non hanno trovato un accordo: hanno trovato un set.
