Un antidoto all'attualità
In una lettera dall’America all’inizio del novecento, un mio antenato raccontava ai parenti toscani che lì, quando volevano vendere una cosa, lo scrivevano su dei manifesti sui muri. In Italia non c’era ancora la pubblicità. Così come i miei nonni non usavano la televisione per informarsi e non la guardavano. Ascoltavano dischi d’opera, conversavano. Ancora i miei genitori usavano prevalentemente i giornali mentre io li leggo online, e i miei figli utilizzano siti che sono spesso interessanti ma del tutto assenti dal panorama dei grandi gruppi editoriali. Sebbene come il mio antenato in America credo abbiamo tutti mantenuto un certo scetticismo di fronte a quanto ci viene raccontato (e in Italia, con il novecento che abbiamo avuto, come potrebbe essere altrimenti?) siamo come tutti e sempre alla ricerca dell’attualità in un’infinita attesa di futuro, di qualcosa che sia davvero davanti a noi, che accada adesso. In Veneto per dire cosa è successo si dice cosa è nato, in fondo perché speriamo che il mondo nasca adesso, attendiamo una liberazione da quello che siamo, una realtà più pressante che ci distragga dalla realtà che conosciamo, da quel che siamo, come se vivessimo in una festa piena di gente in cui tutti parlano con qualcuno, ma in realtà guardano oltre l’interlocutore per vedere se è arrivato qualcuno di più importante. L’attualità che inseguiamo ha il suo momento migliore nell’immaginazione, è non solo vulnerabile ma predisposta alle teorie cospirative perché la nostra ansia di sfuggire a quel che siamo proietta in grande libertà le proprie angosce su scenari internazionali. Cogliere cosa rende questo nostro tempo quello che è l’arte divinatoria di quello che accade adesso.
Questo adesso è però sempre vuoto. Storditi da notizie tragiche, un terremoto o un traghetto che affonda dall’altra parte del pianeta, guerre come quelle in Ucraina e a Gaza di cui cerchiamo di decifrare gli elementi travolti da propagande che come in ogni guerra mescolano la protervia degli aggressori con il dolore delle vittime, ci risucchia da noi stessi e da quelli che abbiamo intorno come gusci d’uovo dopo che si è bevuto l’interno. Certo, tutto è attuale e importante, ma lo è anche la scadenza per la dichiarazione dei redditi o un appuntamento per una colonscopia, l’attesa di un figlio o di un nipote o il ritorno di una persona amata e così via. Sono attuali i libri, le mostre, i film che escono in queste settimane e chi scrive per i giornali o chi lavora in un ufficio stampa conosce bene l’inanità di inseguire ogni giorno lo spirito del tempo, come fosse qualcosa che per sua natura sfugge. O come dice lapidario Wittgenstein: merita di essere raggiunto dallo spirito del tempo chi si limita ad anticiparlo. Perché il tempo non è questa scommessa sul futuro: quello che sembrava alla moda improvvisamente scompare e sale alla ribalta qualcosa di imprevedibile. Nel grande e nel piccolo orizzonte, in quello tragicamente significativo e in quello comicamente insignificante, cerchiamo di nuotare come meglio ci riesce, ma presto un’onda imprevista ci costringe a un adattamento, siamo spostati da dove eravamo, finiscono cose e ne iniziano altre.
Interpretare o anche solo menzionare il costante muoversi della superficie degli eventi ci illude di abitare un mondo sensato e che si sta andando da qualche parte, e che questo sia diverso dal non andare da nessuna parte. Da sempre genitori e professori sprecano così i loro consigli ai giovani, convinti che la loro vita ripeterà le circostanze della loro. A volte alcuni arrivano al punto di costringere chi gli sta attorno a seguire la direzione che indicano. Siccome siamo tutti smarriti, individualmente e come collettività, avere qualcuno che pare convinto di aver capito come vadano risolte le tante crisi in cui siamo immersi attrae facilmente un seguito. Sollecita la passività. Come scrive Domostene, rimproverando gli ateniesi: "È morto Filippo?" "No, per Zeus, ma è ammalato."Ma per voi che differenza fa? Infatti anche se a costui capitasse qualcosa, sùbito voi creerete un altro Filippo. Così a questo primo tempo dello smarrimento affianchiamo un tempo più lungo, quello della storia, della rassicurazione nel passato, e i confini tra i due ambiti sono labili. Chi nel presente è convinto di fare la storia appare un megalomane: certo, tutto e tutti, ogni lista della spesa di cento anni fa e ogni racconto, persino ogni fenomeno atmosferico, montagna o costa, fanno parte della storia. O piuttosto del passato. Ma immaginare sé stessi nella storia, quasi per sottrarsi all’orizzonte accidentale dell’attualità e capire meglio, più a fondo, è anche gonfiare il petto, cercare una prospettiva che di solito va a scapito degli altri esseri umani con cui si vive in modo inconsapevole.
Solo sei anni dopo la morte di Napoleone, mentre scrive Adelchi e inizia Fermo e Lucia, Alessandro Manzoni scrive all’amico di una vita Claude Fauriel: (29/1/1821): la relazione semplice e nuda dei fatti conserva, per ragioni di curiosità spiegabilissime negli uomini, un fascino così immediato, che li disamora di tutte le invenzioni poetiche che vi si volessero mescolare, e anzi le fa apparire ingenue e puerili.
È questa la storia antidoto all’attualità? Se dalla superficie degli eventi possiamo venire inghiottiti, è la storia che ci salva? a volte arriva un libro da un’altra epoca, trovato per caso su una bancherella, oppure incontriamo qualcuno che non c’entra nulla con quello che sembra importante, una vecchia zia o un bambino, e la superficie dell’attualità si mostra improvvisamente sottile, arbitraria, tutto in noi acquista un altro spessore, più umano e bello, abitiamo un tempo più lungo, che include infanzia e vecchiaia e non solo l’epoca in cui si fanno tante cose per denaro, prestigio, potere. C’è anche il gioco, lo scherzo, o un distacco malinconico dalle cose.

In Guerra e pace, che ha per protagonista la generazione dei nonni di Tolstoij ed è come tutti i romanzi ricco di autobiografia, ci sono continui accenni polemici contro gli storici. Tolstoij gli rimprovera di rivendicare per sé un ruolo adulto, contro la puerilità di poeti e bambini. Quello che conta in tutti i romanzi di Tolstoj, per chi li legge con passione, è infatti proprio la familiarità che stabilisce con i personaggi che crea: l’atmosfera che si respira tra i Rostov o con i Leuvin, un’aria di casa, libera, ricca di sfumature umanissime, dove ci sono bambini e vecchi, c’è vita ovunque.
La storia comincia dunque oltre i nonni? La frontiera è diversa per ognuno, per il tipo di famiglia in cui si cresce, per l’epoca, per gli studi che si intraprendono. E naturalmente ci spostiamo nel corso della vita dall’essere i nipoti a diventare i nonni e presto, come il mio antenato del primo novecento, curiosi testimoni di fenomeni come i primi cartelloni pubblicitari. Sappiamo, per il presente e il passato, che attraverso ognuno di noi parla quello che accade ed è accaduto: storia e storie, grandi o piccole che siano, guerre, politica, processi di espulsione e assimilazione che si sono svolti nelle famiglie, inducendo a fughe o piegando al conformismo. Siamo il risultato di queste violenze, con amori, amicizie e figli che cercano di rispondere con la vita alle tragedie di cui facciamo parte.
Al polo opposto, dall’inizio del novecento, una certa idea di psicologia ha tentato di immaginare un nucleo psichico e lo ha ipotizzato come il centro del mondo del soggetto. Intorno a questo soggetto si costruiscono e ricostruiscono narrazioni il cui scopo principale è farci funzionare nel mondo, far passare il passato. Non è essenziale che siano vere, conta di più la loro funzione. Come appunto i romanzi in cui l’intreccio è solo un desiderio di capire chi è l’assassino per arrivare in fondo. Il contrario di quei libri che vorremmo non finissero mai. Una delle analogie che Freud usa per spiegare la psicanalisi è quella delle statuine egizie di cui faceva collezione e che oggi si trovano nel museo di Freud a Londra: si può considerare il nucleo psichico come qualcosa di alieno che riemerge. Frammenti che spuntano nella sabbia del deserto. Il sogno, certi atti involontari, i lapsus e via dicendo, cioè il contrario di una ricerca rigorosa condotta con strumenti verificabili. Alla fine della fiera, come scrive in una lettera, l’inconscio è il passato (e Freud aggiunge, e Dio sa se mi ha piegato la schiena).
Ma il passato è anche perduto, distante, inattuale, popolato da morti che non rispondono più alle nostre domande e quindi una vera ricostruzione è in realtà impossibile. Si immaginano cose più o meno accurate intorno a un frammento, ma i morti sono morti, quel che è avvenuto e che ci segna così profondamente, è irredimibile. Cambia al più la prospettiva, che è del resto determinata dalle circostanze in cui ci troviamo e che ci portano a proiettare alle nostre spalle una certa narrazione. In fondo è proprio l’attualità che cerca la storia, e lo fa spesso in modo inconscio, carambolando per sentieri già segnati come un destino.
Del materiale che fa la nostra vita non siamo quindi consapevoli: ci stupiamo a volte di somiglianze, ripetersi di eventi o epifanie. Quello che ci raccontiamo, con o senza psicanalisi, è un modo per tentare di abitare il nostro ambiente, un adattamento, ma si rivela costantemente inadeguato. Un tentativo di essere attuali, nel presente. Per questo, come scriveva Manzoni, ci appassioniamo di storia e di scienza, perché lì ci sono fatti concreti: con metodo, lavoro, rigore si ha il senso di superare il confuso dolore in cui viviamo abitualmente.
Eppure la poesia esiste: parla di amore, amicizia, lutti, speranze, timori. A volte abolisce il tempo, o almeno la sua linearità. Come il sorriso di un bambino o il passo veloce di una persona sconosciuta che ci sfiora per strada, o il pensiero profondo e conturbante di qualcuno che amiamo e che è irrimediabilmente lontano, perché è morto, oppure sposato o sposata a un altro, o perché come Pierre Bezuchov abbiamo promesso al nostro amico Andreij di proteggere la giovane Natasha, la portiamo a ballare ogni sera e nessuno saprà mai quanto nel profondo dell’anima la amiamo. Come dice Giulietta quando Romeo inizia a parlarle, chi sei tu, che protetto dalla notte penetri nel mio segreto? Laggiù non arriva nessuno, neppure noi: affiorano reperti, troviamo l’invenzione.
O anche più semplicemente, di fronte a un quadro, un quartetto, una poesia, la meraviglia della nostra partecipazione si radica in emozioni che sono più profonde delle opinioni. Vorremmo spiegare, ma lì sentiamo, come fossimo innamorati, o in un lutto, non sapremmo davvero cosa dire. Anzi, dire, qualunque cosa, pare banalizzare il luogo in cui siamo giunti. Qualcuno lo ha scritto o dipinto in modo così convincente che quando siamo lì, siamo più presenti che nella vita che viviamo distrattamente, in cerca di attualità. Sporgendoci oltre la consapevolezza, ci si lascia parlare da una materia che forse non è neppure materia, è tutto ciò in cui si è immersi, e non è chiaro. A volte è il cucchiaio di una zia in una vecchia fattoria irlandese, come in una poesia di Seamus Heaney. Altre il canto di un uccello, o di una tessitrice mentre siamo piegati sulle sudate carte. E così come i nonni sorridevano vedendo quei primi sentimenti umani nei nipotini, quell’aria familiare, complice nelle tragedie che Primo Levi riesce a trovare persino ad Auschwitz quando va a prendere il rancio con Pikolo, quel frammento trascende la storia con la letteratura.
Così se da bambini l’immaginazione colora in modo fantastico tutto quello che ha intorno e a vent’anni, uscendo di casa per gironzolare in città, siamo ancora così ricchi di quella immaginazione che quello che non è immediato, ora, attuale appare subito passato, mano a mano che scorriamo il filo del tempo tra le dita il presente si fa sempre più eloquente e meno attuale, non è mai solo adesso ma sempre più sempre. I colori e l’urgenza dell’immaginazione di allora ritornano in quello che vediamo, o che magari non riusciamo a vedere più con gli occhi ma solo con l’anima perché sappiamo che è lì, oltre i sensi. Concreto, eppure pieno di mito. Ci guardiamo intorno con la crescente agnizione di quanto l’inconsapevolezza dei bambini sia impregnata di destino, del mondo che si va dispiegando, sperando di non venire storditi dalle ripetizioni e di evitare un fatalismo rassegnato.
La storia, con la sua fattualità, ha raccolto soprattutto la politica che, per chi ha il potere, è sempre soffocata da interessi economici, pendenze giudiziarie, questioni private. Certo, attuale, ma di un’attualità che non si legge, si svolge assurda, anonima, e che appena cerchiamo di interpretarla esce da questo non sapere collettivo, che ci può sempre precipitare in una guerra o in sentimenti di indifferenza che non vorremmo avere, perché continua a farsi di un materiale più stratificato di quello che capiamo.
Di questo viaggio nel tempo, che ognuno di noi percorre ogni giorno, è un miracolo quando ci si incontra, riusciamo a parlarne, a sorriderne insieme. Quando la familiarità ricca di affetti che sentivamo con i nonni ci accoglie e, con nipoti, con gli altri bambini, gli animali e gli alberi, la consapevolezza, la storia, la scienza lasciano che le cose si presentino in quella nudità piena di poesia che, un altro noi e in un’altra epoca, abitava senza comprendere.
In copertina, Droughts in the Amazon”, Musuk Nolte, Panos Pictures/Bertha Foundation, Finalista Stories Sud America, World Press Photo 2025.
