La geometria del dolore

15 Ottobre 2022

Il mio rapporto con la matematica è sempre stato difficile, come quando si è tremendamente attratti da qualcuno ma non lo si riesce a capire per niente. Durante il mio ultimo anno al liceo classico il professore di matematica ci propose di partecipare a un corso aggiuntivo di matematica e geometria, più avanzato rispetto al programma che si seguiva. Sempre che ovviamente, precisò speranzoso, ci fosse un numero sufficiente di studenti interessati. Nella mia classe solo io dissi di essere interessata.

Deluso, il professore disse che la nostra classe non avrebbe aderito al progetto e non perché solo io avessi detto di sì, ma perché di tutti ero la meno indicata a seguire quel corso. L’insegnante riteneva, infatti, che io avessi per la matematica una certa curiosità ma non un vero interesse. Mi sentii piuttosto umiliata, per questo ricordo ancora con precisione le sue parole. Adesso invece penso che non fosse un bravo insegnante, perché non capiva come una curiosità soddisfatta e ben alimentata sia una porta che si apre sulla strada che conduce a un vero e profondo interesse. Era un insegnante mediocre soprattutto perché non amava abbastanza i suoi studenti e neppure quello che insegnava.

Questo episodio e il senso di inadeguatezza che me ne è derivato mi sono tornati alla memoria mentre leggevo, per recensirlo, Geometria del dolore (Codice Edizioni) del matematico Michael Frame, a lungo docente all’Università di Yale e ora ritiratosi dall’insegnamento per problemi di salute. La voce del mio vecchio professore mi sta mettendo in guardia: non sei la persona più adatta a farlo. Lo so. Però è stata la mia antica curiosità a spingermi a leggere il libro di Frame pur sapendo che lo avrei potuto capire solo in parte. Chi conosce più di me la matematica e la geometria potrà certamente apprezzarlo pienamente, ma anche chi non ha particolari competenze di matematica geometrica lo leggerà con piacere perché è scritto bene, racconta molte storie personali e fa emergere una passione profonda non solo per la matematica ma anche per gli allievi. Infatti Frame è stato un grande insegnante che, nella sua lunga carriera, ha ricevuto molti importanti riconoscimenti e premi per l’originalità e l’efficacia dell’insegnamento.

Michael Frame ha collaborato a lungo con il matematico Benoît Mandelbrot, diventandone un grande amico, nello studio di quegli elementi molto particolari che sono i frattali, ossia quegli oggetti geometrici che si ripetono mantenendo la propria forma anche su scale diverse. La natura ne è ricca, ne sono esempi le gocce di pioggia, le linee di costa, il profilo delle montagne, l’interno dei gusci di certi animali e così via. I frattali, sia che li si allarghi sia che li si rimpicciolisca, non cambiano aspetto, ossia sono autosimili, come si dice in termini tecnici. L’autosomiglianza è una caratteristica che i frattali condividono con il dolore, secondo Frame, perché ogni grande dolore ne contiene in sé molti altri più piccoli, non difficili da individuare; per farne un esempio racconta come la morte di sua madre sia stato per lui un dolore devastante, fatto dai diversi dolori provocati dalla mancanza di tutto ciò di cui l’assenza della madre lo avrebbe privato: i sorrisi, gli abbracci, gli incoraggiamenti… molti dolori piccoli la cui somma portava al grande dolore di quella perdita. In altre parole, «i dolori differiscono per grado, ma non per natura… ogni dolore ha molti sottoinsiemi, veri e propri sottodolori». 

Il dolore provocato dalla morte di una persona cara, nel suo caso una zia molto amata morta quando era bambino e in seguito i genitori, contiene le infinite perdite causate dalla sua assenza. È il dolore della perdita ma è anche il rimpianto per tutto ciò che avrebbe potuto essere e non sarà mai più. Ogni scelta irreversibile, per Frame porta in sé, più piccolo ma uguale, il dolore della perdita di qualcuno che ci è caro. 

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Il dolore non va confuso con la tristezza, come la bellezza è ben distinta dall’essere grazioso. Il dolore è irreversibile, la situazione che lo causa crea una frattura che cambia il futuro possibile, che chiude le infinite varianti possibili lasciandone percorribile una soltanto; l’emozione che provoca non è un’onda alta, ma uno tsunami violento, e siccome ogni dolore ne contiene molti altri si può dirlo trascendente. Le stesse caratteristiche le ha la bellezza, spiega Frame. Contemplare qualcosa di veramente bello ci cambia, cambia la nostra visione, ci emoziona fortemente e ci porta al di là di noi stessi. 

Michael Frame nel suo libro vuole dichiaratamente esplorare «alcuni modi in cui il dolore permea la geometria e la geometria permea il dolore» e il suo approccio può non essere compreso appieno da chi non condivide la stessa passione totalizzante per la geometria. Tuttavia, è senza dubbio interessante percorrere con lui questa sua strada così singolare, il tentativo di osservare, come fossero collocate su un piano cartesiano, le coordinate del dolore per cercarne una comprensione da cui trarre conforto. In fondo non è completamente diverso dal metodo seguito dalla psicologia: un dolore, una paura, un qualsiasi sentimento sconvolgente risulta più affrontabile nel momento stesso in cui, trasformandolo in parola, si distanzia un poco dal soggetto che lo patisce e solo a quel punto può essere guardato con maggiore distacco e combattuto. 

La geometria non emoziona la maggior parte di noi, ma il libro di Frame riesce a commuovere in molti punti come quando esprime l’intensità del suo turbamento di fronte alla diagnosi di una malattia che piano piano annebbia e fa svanire il mondo ordinato della geometria che organizza «i nostri modelli del mondo, delle sue forme e delle sue dinamiche». E confessa al lettore: «Via via che invecchio, ad ogni anno che passa, ciò che capisco della geometria viene meno e aggiunge fratture complesse al mio cuore spezzato».

Nel libro di Frame c’è molta geometria ma ci sono anche molte storie personali e molti rimandi alla letteratura, come a Le intermittenze della morte, di José Saramago; o al cinema e ai fumetti, soprattutto a I Simpson, perché sono il modo più efficace di comunicare «idee che hanno un’importanza emotiva». Mi dispiace che Frame nomini e liquidi un libro importante e bello come il Diario di un dolore, di C.S. Lewis, affermando che «il fatto che Lewis proietta il suo dolore attraverso la lente della sua religione, secondo me diluisce e confonde al contempo l’espressione delle sue reazioni». In realtà C.S. Lewis fa esattamente quello che Michael Frame fa e consiglia di fare, cioè analizza il proprio dolore attraverso ciò che più ama. Per Frame è la geometria, per Lewis era Dio.

Da ogni pagina di La geometria del dolore trapela un certo struggimento, e non potrebbe essere diversamente giacché il libro vuole essere «un canto d’amore per i miei defunti genitori, per gli amici che abbiamo perso e per i gatti che abbiamo perso». Ognuno ha il proprio dolore e soffre a modo suo, perché nessuno è uguale. La medesima storia diventa per ciascuno un’esperienza diversa. Ognuno di noi cerca, e sperabilmente trova, consolazione al dolore a modo suo, ma per tutti vale quello che Frame suggerisce attingendo dalla propria esperienza: affrontiamo i nostri lutti, piccoli o grandi, tenendoci saldamente ancorati a quello che amiamo con passione e se possibile lasciamo che il dolore ci proietti al di là di noi stessi indicandoci «azioni in grado di aiutare gli altri.

Il mio pensiero più ottimistico è che parte dell’energia del dolore si possa reindirizzare in questo modo». Il messaggio che Michael Frame vuole inviare con il suo libro non è che la geometria aiuta a superare o a sopportare il dolore, ma che quello che amiamo e ci appassiona, qualunque cosa sia, può farlo. Può essere la matematica, Dio, lo sport, qualsiasi cosa ci porti a guardare al di là di noi stessi. Conosco chi l’ha fatto coltivando fiori sul balcone, o accudendo un gattino, comunque sempre uscendo da sé, dal proprio spazio, per dare ad altri la cura e l’affetto rimasto orfano del proprio oggetto. La geometria del dolore consente infinite variabili.

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