L'anima, la coscienza e il computer

19 Marzo 2023

Anima è una parola bellissima, ma su di lei pesano molti pregiudizi. Ha origine dall’aria, dal fiato, dal vento. Aerea e impalpabile, legata alla vita e alla coscienza, una volta tutti sapevano di averne una e la credevano immortale. 

Con lo scorrere del tempo e l’accumularsi delle conoscenze – soprattutto di quelle riguardanti la neurobiologia – le cose sono cambiate; l’anima ha perso la sua poesia, non è più dono di un dio, non è il segno della nostra parentela divina. Forse non esiste nemmeno più. Nuove visioni, nuove antropologie hanno relegato l’anima e le speranze che lei regalava nella sfera del mito, delle favole, della religione, residuo di un tempo ingenuo e inconciliabile con la modernità (qualunque cosa s’intenda per modernità, concetto tutt’altro che semplice).

Dell’anima abbiamo già avuto modo di parlare in un precedente articolo, Esiste l’anima? presentando un libro di Adin Steinsaltz in cui l’autore non si pone affatto il problema dell’esistenza dell’anima, che dà per scontata, ma piuttosto quello della sua cura, ed esorta a non commettere il grave errore di trascurarla. 

Ora, la recente riedizione di un libro di Gianfranco Ravasi Breve storia dell’anima (il Saggiatore) ci permette di tornare sull’argomento. Per chi conosce l’autore è inutile sottolineare che si tratta di un libro molto colto, scritto con uno stile elegante e scorrevole che porta il lettore, senza alcuno sforzo, in un cammino che attraversa molti secoli e spazia dalla religione alla filosofia, dalla letteratura alla poesia e alla musica. 

Si tratta di un lungo viaggio, così lo definisce Ravasi, sul fiume della storia del concetto di anima che comincia con le concezioni più antiche dell’Egitto, della Mesopotamia, dell’India e dell’Arabia. Da dove nasceva nei popoli antichi l’idea dell’anima? Ravasi individua tre elementi: il confronto tra la vita e la morte; l’esperienza del sonno e dei sogni; il sentimento religioso. Il concetto di anima nasceva come «frutto di un’intuizione e di un’esperienza spirituale» che ne rendeva evidente l’esistenza. 

Ogni cultura poi le attribuiva caratteristiche diverse. Le «sorgenti del fiume dell’anima» per quanto concerne l’Occidente sono due, prosegue Ravasi. Da un lato, il mondo della Grecia classica, dei miti e della filosofia platonica che considerano l’anima la parte migliore dell’essere umano, quella immortale, intrappolata da un corpo che ne impedisce la libertà e l’ascesa all’empireo cui è destinata. Dall’altro lato, il mondo della Bibbia in cui l’anima «non svolazza aerea nei cieli come un’angelica farfalla ma è intimamente compatta con la carne dell’uomo così da costituire un essere vivente unitario. L’anima biblica è piuttosto la dimensione trascendente della persona… È il segno efficace della nostra intimità con Dio e quindi la nostra capacità di eternità». Il fatto che nella prima traduzione greca della Bibbia si renda per lo più con il termine psyché l’ebraico nefesh che significa propriamente vita (ma non solo), fa dire a Umberto Galimberti che nel mondo biblico non esiste il concetto di anima.

La sua osservazione non sembra del tutto convincente dal momento che nefesh è ciò che l’adam (il terrestre) diventa dopo che Dio gli ha soffiato un alito di vita (Gen 2,7). Dunque non si tratta di vita puramente biologica, è qualcosa che è trasmesso dal soffio di Dio. Se non è l’anima, ci assomiglia molto. Poi questi due bracci del fiume dell’anima, per continuare la metafora di Ravasi, si sono fusi insieme nel cristianesimo dei primi secoli, con una certa prevalenza della visione greca di una netta separazione tra corpo (negativo) e anima (positiva). Delle conseguenze di tale idea abbiamo pagato un caro prezzo fino a tempi recenti e, forse, molti ancora non riescono a sfuggirle del tutto.

Ravasi ama i trittici, e struttura il suo viaggio lungo tre percorsi (anima religiosa, anima filosofica, anima poetica). Osserva, quindi, il profilo dell’anima disegnato dalla teologia cristiana, passa poi a tratteggiare l’immagine dell’anima che emerge dalla complessa riflessione della filosofia occidentale e, infine, si sofferma sullo «sguardo gettato sul mistero dello spirito dall’intuizione letteraria». Per concludere penetra nel «laboratorio delle neuroscienze per incontrare quell’uomo neuronale che alcuni vorrebbero spogliato dell’anima» e ridotto ai 100 miliardi di neuroni del cervello. Un uomo divenuto soltanto «una stupenda macchina cerebrale». Sembra così compiuta la discesa dei gradini che dall’orgoglio convinto di essere il vertice della creazione, ci ha portati a pensarci democraticamente solo animali tra gli altri, per scendere ancora (con un po’ di preoccupazione) a scoprire di non essere altro che complesse e meravigliose macchine…

Un momento. Forse possiamo non scendere, o almeno rallentare la discesa! Benché a qualcuno possa sembrare paradossale è proprio l’avanzare delle conoscenze scientifiche a spingerci ad essere cauti e a non trarre conclusioni affrettate, perché siamo ancora lontani dal conoscere la realtà delle cose, che è molto più complessa di come la vediamo. Nel mondo della fisica newtoniana, quella degli oggetti grandi e massicci come siamo anche noi, chi crede a ciò che non vede può sembrare un visionario; nel mondo della fisica quantistica (quello della realtà nella sua essenza) sarebbe ingenuo chi credesse soltanto al visibile, a quello che i nostri sensi riescono a percepire ed è solo un aspetto della realtà. La materia (quindi il mondo e anche noi) essenzialmente è fatta di onde, di flussi d’informazione, di relazioni, di interazioni, di nuvole di possibilità. Questa è la vera realtà che poi si esprime nelle forme conoscibili dai nostri sensi. Ha ragione, forse, Vito Mancuso quando afferma che il dualismo spirito/materia è superato ma che la realtà potrebbe essere duale, ossia manifestarsi in due forme, spirito e materia? Perché no? L’esempio dei fotoni che hanno una duplice natura e si manifestano talvolta come onde, talvolta come particelle ci può fornire un buon esempio di una natura duale. Forse anche la nostra lo è? Possiamo conservare la speranza di avere un’anima, una parte non fisica, qualcosa di solo nostro che una macchina non potrà mai avere? 

Ne è assolutamente convinto Federico Faggin, un fisico italiano naturalizzato americano che ha inventato il microchip dei computer e la tecnologia touch screen che oggi usiamo tutti. Per le sue invenzioni è riconosciuto a livello internazionale come un’autorità nel campo dei computer. Si dice che la Silicon Valley, dove ha lavorato per diversi decenni, non sarebbe quella che è senza di lui. Di recente Faggin ha pubblicato un nuovo libro, Irriducibile. La coscienza, la vita, il computer e la nostra natura (Mondadori), in cui racconta perché nessun computer, per quanto intelligente, potrà mai essere simile all’uomo. La differenza sta, detta brutalmente in due parole, nel fatto che il primo non potrà mai avere una coscienza, perché sarà sempre una macchina che riceve da chi lo costruisce gli elementi di cui è composta; per dargli una coscienza bisognerebbe clonare la nostra e trasferirla nel computer. Ma la coscienza, che è la capacità di essere consapevoli di esistere e, nello stesso tempo, consapevoli di sapere di esistere, è un fenomeno quantistico, sostiene Faggin, non clonabile perché conoscibile soltanto dall’interno del sistema, non deterministico e non prevedibile.

Una macchina invece è un sistema che risponde alla fisica classica, newtoniana. Può sapere molte cose, forse infinite cose, e un computer quantistico potrà elaborare dati in modo incomparabilmente superiore al nostro, ma a differenza di noi umani non saprà mai di sapere. Un giorno le macchine riusciranno a risolvere tutti i problemi, afferma citando Einstein, ma mai nessuna di esse potrà porne uno. Coscienza e anima sono parole che esprimono una realtà molto simile, fino a potere essere usate come sinonimi, come sceglie di fare il filosofo Richard Swinburne: «La coscienza…non può essere proprietà di un semplice corpo, di un oggetto materiale. Deve essere proprietà di qualcosa di diverso connesso con il corpo; e a quel qualcos’altro darò il nome tradizionale di anima» (R. Swinburne, Esiste Dio?). È vero però che l’uso della parola ‘anima’ tende a suscitare un certo sconcerto, come si vede nella bella intervista condotta da Giorgio Zanchini a Federico Faggin nella trasmissione Un mondo di libri; Zanchini sembra, appunto, sconcertato e osserva che l’idea di coscienza che Faggin presenta «ci riporta a un’idea che sembra simile a quella della vecchia anima». Al che questi risponde, un poco ridacchiando: «Sì, è simile. Perché dovrebbe essere falsa perché è una vecchia idea?» 

Alla fine, chi lo sa, magari sarà proprio la scienza a salvarci l’anima!

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