Claudio Bartocci. Una piramide di problemi

12 Marzo 2012

Difficile dire se il Boccioni delle Forme della continuità nello spazio o il Morandi delle celebri Nature morte metafisiche abbiano mai assorbito qualche rudimento della geometria di Gauss o di Riemann, o se fossero al corrente della tormentata avventura di idee che ha portato i matematici e i geometri dell’Ottocento a esplorare spazi non meno arcani di quelli cui ci hanno abituato futurismo e cubismo. A farlo sospettare sono non poche delle figure geometriche scelte da Claudio Bartocci per illustrare il suo Una piramide di problemi. Storie di geometria da Gauss a Hilbert, fra gli ultimi titoli della collana “Scienza e Idee” di Raffaello Cortina Editore. D’altra parte, il libro si apre con una raccomandazione: anziché considerare la matematica come “un polveroso cumulo di risultati da conservare… nel grande baule del passato remoto”, perché non vederla come “attività culturale e pratica di pensiero, in osmosi con altri campi del sapere”? Ci faremo così un’idea di quanto nel “lussureggiante paesaggio della matematica dell’Ottocento” (per riprendere un’efficace espressione dello stesso Bartocci) si siano disegnati persino i tratti più pregnanti della cultura non solo scientifica del XX secolo, anche nel campo delle arti figurative o dell’architettura.

 

                                                                                         

Bartocci lavora su una mole impressionante di dati storici e di concetti (avviso per i lettori specialisti: teoremi e rimandi particolareggiati non mancano; ma sono raccolti per lo più nelle note di chiusura di ciascun capitolo, in modo da rendere più agevole la lettura anche per i non addetti ai lavori). Raccogliere o pretendere unità da un materiale così abbondante e tuttavia denso non è solo difficile, ma impossibile – e, aggiungerei, sarebbe anche infruttuoso: le strade che hanno portato ai problemi odierni in pressoché tutti i campi sono molteplici; la reductio ad unum suonerebbe artificiale, se non artificiosa. Bene ha fatto Bartocci a scrivere storie di geometria al plurale, affiancando all’esposizione delle idee la narrazione delle vicende personali dei matematici che le hanno sviluppate, e mostrando come le seconde siano rilevanti per cogliere l’intreccio di questioni che ha dato origine alle prime. Per esempio, sarebbe difficile capire, prescindendo da inclinazioni e gusti matematici, nonché simpatie filosofiche, l’“elenco di problemi” di uno dei più influenti matematici fra Otto e Novecento, quel David Hilbert che, recuperando e dando sistematicità alle discipline all’epoca esistenti, indicò alle generazioni future l’obiettivo di provare che la matematica per così dire non conosce falle d’ignoranza, pur di disporre di strumenti adeguati. Quella di Hilbert doveva rivelarsi infine un’illusione; eppure, penetrare la sua concezione (Bartocci si dedica soprattutto al terzo problema, di natura squisitamente geometrica: “trovare due tetraedri di uguale base e uguale altezza che non sia possibile scomporre in tetraedri congruenti”) significa fare i conti con lo sviluppo della geometria nell’Ottocento, passando per la teoria dei numeri, l’algebra, l’analisi e la fisica, con notevoli incursioni nella filosofia.

 

In questa prospettiva acquista nuovo senso persino il problema dell’origine delle cosiddette geometrie non euclidee, una delle più grandi svolte del pensiero matematico e filosofico. Le presentazioni standard insistono nel ritrovarne la radice pressoché unica nella questione del quinto postulato (o postulato delle parallele: per un punto che passa fuori da una retta si può tracciare una sola parallela alla retta data), negando e sostituendo il quale con un altro assioma, opportunamente scelto, si ottengono teoremi differenti da quelli della geometria di Euclide; ciò implica pure la “scoperta” di spazi assai più esotici di quello “piatto” cui siamo abituati. Bartocci mostra come la questione del quinto postulato non sia che una delle tante vie che hanno portato alla formulazione di tali geometrie. Accanto all’ossessione per quello stesso assioma (Bolyai) o a una più serena rinuncia a esso nel tentativo di creare una geometria alternativa (Lobačevskij), emergono in tutta la loro importanza il concetto di curvatura (Gauss, che si occupava di curvatura e misura della Terra, cioè di geodesia, non tanto da un punto di vista puramente matematico, ma per sbarcare il lunario) e gli sviluppi dell’algebra e dell’analisi (Riemann). Bartocci li analizza nel dettaglio, spiegando in un colpo solo differenze d’impostazione, sostanziale contemporaneità delle scoperte e relativa indipendenza degli scopritori. Per glossare un matematico eterodosso come Hermann Grassmann (sempre pieno Ottocento), la geometria si scioglie in una pluralità di sistemi geometrici, per ritrovarsi essa stessa come “caso particolare” di una scienza generale delle forme. Sicché la geometria, come avrebbe lasciato intendere Felix Klein ormai nel XX secolo, può anche permettersi il lusso di fare a meno di immagini sensibili, individuando via via le relazioni invarianti che caratterizzano i vari “spazi”, considerati come particolari strutture algebriche su cui operano certe famiglie di trasformazioni geometriche dette gruppi.

 

Per quanto generale e astratta possa apparire questa formulazione, essa rispecchia certe intuizioni di base delle nostre esperienze dello spazio e del tempo: per esempio, la distanza tra due punti in un dato corpo non cambia se lo trasportiamo in modo rigido (cioè senza tagliarlo o comprimerlo); se proiettiamo un’immagine su uno schermo, cambia sì la distanza fra i punti, ma non le loro posizioni reciproche, e così via. Per concludere riprendendo Hilbert, con cui non a caso il libro si apre e si chiude: nel costruire i nostri spazi, non importa troppo che si parli di punti, rette e piani o di tavoli, sedie e boccali di birra (o magari, aggiungerei, di nature morte ed elementi scultorei). Sempre di geometria si tratta: e della sua inesauribile, sorprendente ricchezza.

 

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