I panorami di Tullio Pericoli
Diversi sono i modi di fruizione dell’opera d’arte a seconda dei luoghi in cui vengono esposte le opere (dagli spazi aperti, come i parchi, a quelli chiusi come i musei, le collezioni e le gallerie private) e della mediazione esercitata dai giornali, dalle riviste, dai cataloghi, dalle monografie, dai saggi critici alle riproduzioni filmate come i documentari, i reportage. Spesso, come nei vernissages, la visione frettolosa induce l’occhio del visitatore a giudicare negativamente ciò che, invece, ha un valore positivo: percepisce la coerenza stilistica dei lavori come una mera ripetizione e non coglie le variazioni e le differenze.
Anche se non riscontra la disponibilità dei visitatori, la visione di un’opera d’arte richiede sempre tempo, molto di più di quello che di solito le viene dedicato. Il fine della fruizione di un’opera d’arte è quello del godimento estetico che implica necessariamente la disponibilità a guardare con attenzione i dettagli, i particolari dell’immagine e ancor più il rilevamento dei singoli elementi pittorici e tecnici che hanno concorso alla sua realizzazione.
La necessità di farsi un occhio non è, quindi, una prerogativa esclusiva di chi dipinge, una competenza professionale del pittore, ma riguarda anche il frequentatore di mostre, colui che ambisce ad un apprezzamento estetico del dipinto che va a vedere nei musei o nelle mostre. Lo sguardo educato del visitatore non deve essere confuso con lo sguardo armato del critico d’arte: il primo deve essere preparato ad esperire le qualità estetiche e artistiche dell’opera, diversamente dal secondo che non si limita a questo ma è teso a dare anche un giudizio di valore di quelle qualità.
Da qualche giorno si è inaugurata nella Galleria Consadori di via Brera 2, a Milano, la mostra “Terremobili” del famoso pittore Tullio Pericoli, dove sono esposti dall'8 al 28 giugno gli ultimi suoi lavori. A giudizio di chi scrive questo evento costituisce un’imperdibile opportunità per chi è interessato all’argomento di cui sopra. Per le ragioni che illustrerò in seguito, in ragione della peculiare qualità pittorica dei dipinti esposti e del tema generale a cui fanno riferimento, consiglio di andare a vedere questa mostra non soltanto a coloro che già conoscono il lavoro del pittore marchigiano, ma ancor più a chi riconosce che il suo occhio necessiti di eseguire mirati esercizi di attenzione. In modo molto più urgente il consiglio dovrebbero seguirlo anche tutti coloro che hanno sempre pensato che per vedere non occorra tempo e tendono abitualmente ad aver visto prima ancora di aver guardato.
Con il titolo “Terremobili” Pericoli ha esposto dei lavori che offrono allo sguardo del visitatore un’occasione esemplare per osservare la trattazione di un tema, il paesaggio, proponendo motivi figurali sempre diversi da dipinto a dipinto senza cedere alla tentazione di ripetere i procedimenti tecnici che hanno prodotto effetti pittorici riusciti.

In ogni quadro troviamo distillati gli elementi pittorici essenziali alla raffigurazione dell’immagine e, nello stesso tempo, perfettamente funzionali al risalto delle qualità formali dell’opera. Questi valori emergono chiari non appena ci si dispone a una visione attenta e ravvicinata della superficie dipinta. Posiamo lo sguardo su uno di questi dipinti, per il tempo che occorre, con l’obiettivo di apprezzare la qualità pittorica con cui sono stati trattati alcuni dettagli: notiamo le bizzarre forme che presentano i cespugli; rileviamo la varietà della densità cromatica delle zolle appollaiate sulle cime di imprevisti dirupi; facciamo scivolare lo sguardo sulle pennellate che modellano i fianchi degli impervi calanchi che minano le fondamenta delle case che, per rinsaldare il loro precario equilibrio, si affastellano una a ridosso dell’altra. Per giungere ad un pieno godimento estetico delle qualità pittoriche di questi dipinti occorre dotarsi di un occhio attento e paziente, disposto a brucare ogni filo d’erba dipinto al loro interno, a scandagliare le imprevedibili forme delle chiome degli alberi di ogni filare, la sorprendente singolarità di ogni segno grafico-pittorico, di ogni graffio di pennino, di ogni solco scavato con la coda del pennello. L’atto, il gesto della mano che li ha impressi, è sempre l’esito della cooperazione e modulazione di diversi fattori cinestesici e proiettivi, dalla pressione esercitata dalla mano, alla velocità del movimento; dalla frequenza dei tratti alla loro continuità o frammentazione. In ogni singolo segno impresso rimane registrata tutta l’invidiabile sensibilità della mano del pittore, la sua delicata e sapiente capacità di entrare in perfetta sintonia con le possibilità materiche dei pigmenti e di quelle del supporto. La sua straordinaria abilità tecnica è così congeniale alla punta dello strumento impugnato che sembra sia questa a guidare la mano nell’esecuzione dei movimenti più consoni al raggiungimento degli effetti desiderati. Osservando da molto vicino un segno del pennino, una singola pennellata, un solco inciso sul fondo della tela, e perfino una semplice e minuta raschiatura, una apparente sbavatura, a giudicare la loro irriducibile essenzialità e necessità all’effetto d’insieme, quantunque ciascuno di essi ostenti una propria singolare peculiarità nella forma, nell’andamento, nella posizione che occupano, nella grandezza che assumono … non risulta chiaro se nella loro esecuzione sia la mano o lo strumento il vero protagonista. La personalissima qualità graficopittorica che questi segni testimoniano in ciascun dipinto è così elevata che induce a pensarli come l’esito di una virtuosistica esibizione; come un saggio della punta dello strumento sul palco della superficie pittorica. La sensazione più immediata che restituiscono è che lo strumento abbia esercitato una sua intrinseca volontà e abbia preso la mano per mano e l’abbia guidata, le abbia suggerito i punti in cui deve variare la direzione del movimento, dove arrestarlo e dove ripeterlo, dove accelerarlo e dove rallentarlo, dove far prendere il volo allo strumento, dove farlo planare o atterrare sulla superficie della tela, quando modulare la pressione in riferimento ai differenti gradi di morbidezza o durezza che il fondo pittorico presenta in ogni suo punto. Questa descrizione non ha la pretesa di svelare il segreto della loro simbiosi, frutto di una lunga convivenza dello strumento con la mano, di un profondo sodalizio che nel tempo ha permesso al primo di incarnarsi nel secondo, divenendo parte sia dell’anatomia sia della memoria della mano del pittore. In più occasioni Pericoli ha scritto e raccontato che la matita non è uno strumento inerte e indifferente, un mezzo da usare, ma che, invece, l’ha sempre percepita come un naturale prolungamento del dito: come un dito aggiuntivo che si muove all’unisono con le altre dita. Soltanto un sodalizio così serrato tra la mano e lo strumento può portare alla realizzazione di opere pienamente riuscite e in completa sintonia con lo stato d’animo del pittore. I segni che esse contengono, infatti, innervano nella traccia fisica un engramma psichico, un tracciato emozionale carico di evocazioni e risonanze che dalla natura accedono alla mano del pittore per trasmettere energia vitale al suo ductus pittorico.
In ogni tratto di pennello o di pennino il pittore imprime inconsapevolmente anche un suo ri-tratto: egli non si specchia in quel gesto, ma è il gesto ad incarnare la sua immagine interiore, la sua personalissima visione poetica della natura che raffigura. Ciò che sta dentro è anche fuori in ogni atto poietico, in ogni gesto pittorico: tra l’uno e l’altro non sussiste, né si potrebbe dare come sussistente, alcuna discontinuità.
Per queste ragioni i movimenti della mano che hanno dato forma a quei tratti e a quelle pennellate sono la trasfigurazione pittorica delle ferite inferte alla superficie delle “terremobili” dai movimenti tellurici; sono equivalenti a una trascrizione sismografica delle forze sotterranee, delle pulsioni dell’inconscio della materia. Le immagini della natura che raffigurano questi paesaggi, direbbe il filosofo poeta Gaston Bachelard, sono la forma visibile del sotterraneo ribollire dell’immaginazione materiale: esse “appartengono ad un tempo al cosmo e alla natura umana … dal momento che questa immaginazione oltrepassa in qualche modo la contemplazione delle forme e dei colori per pensare a delle ricchezze e a delle potenze nel cuore stesso delle cose, nel cuore stesso del mondo.”
Tutti i dipinti esposti sono dei paesaggi, raffigurano un unico tema, o soggetto. Questa peculiarità è di per sé una delle ragioni per cui la mostra deve essere vista. Gli occhi di un visitatore superficiale tenderebbero a vedere ogni quadro come una variazione dello stesso paesaggio, una specie di “esercizio di stile” alla Queneau, in versione pittorica.
Fatta salva la irriducibile specificità delle due forme espressive, la logica dell’analogia ci porta ad accostare questi lavori alle celebri composizioni musicali per strumenti a tastiera che il grande musicista Johann Sebastian Bach scrisse tra il 1741 e il 1745, conosciute come Le Variazioni Goldberg. Prima di diventare modelli assoluti dell'arte musicale questi brani all’inizio furono accolti con un certo scetticismo per via della loro ripetitività sostenuta da un’unica armonia di base. Ora, assecondando il pensiero analogico, possiamo assimilare il concetto musicale di armonia di base con quello che in ambito pittorico Cézanne indicava come il motif, ovvero il tema di base, che per il pittore francese corrispondeva alla raffigurazione della montagna Sainte Victoire e che nel caso di Pericoli corrisponde al paesaggio orientativamente marchigiano. Allo stesso modo in cui i critici musicali riconoscono che le Variazioni Goldberg offrono il migliore esempio di una musica concepita per la ricreazione di uno spirito competente ed esigente, potremmo dire le stesse cose anche dei paesaggi di Pericoli. Così come l’orecchio attento e sensibile nel percepire la successione delle note di una singola variazione di Bach ascolterà un brano unico e inconfondibile, anche l’occhio attento e sensibile nella visione dei segni e delle forme che compongono un singolo dipinto contemplerà la configurazione di un paesaggio unico e irripetibile.
Anche se i dipinti di Pericoli hanno quasi sempre un formato quadrato, una forma quindi regolare, la cui geometria induce a concepirli come dei moduli, delle tessere, riteniamo che ricondurre il loro significato a questa accezione sia del tutto riduttivo oltre che foriero di fraintendimenti. Le ragioni che hanno spinto il pittore a sceglier questo tipo di formato sono molto diverse e affondano le loro radici in profonde evocazioni mitopoetiche che proviamo a descrivere.

L’immagine dipinta è intenzionalmente smarginata, termina esattamente sui quattro margini del supporto. I dipinti vengono esposti senza cornice per rinforzare il concetto che sono da intendere come dei ritagli, dei frammenti di un’immagine molto più estesa. Ciascun dipinto, quindi, deve essere visto come la parte di un tutto, come una sineddoche che, in quanto tale, nei limiti della sua finitudine invoca il senso di appartenenza e di continuità con un tutto senza parti, unitario e infinito, con l’immagine che trascende ogni limite e formato: il paesaggio di tutti i paesaggi, ovvero il paesaggio assoluto, la cui ontologia è ineffabile quanto indefinibile come la natura che raffigura.
“Frammenti” era, appunto, il titolo della mostra antologica di Tullio Pericoli al Palazzo Reale di Milano (13 Ottobre 2021 al 09 Gennaio 2022), all’interno della quale il pittore sperimentò una particolare installazione: accostò su una singola parete numerosi dipinti di formato quadrato, disposti in modo da comporre un unico e vasto paesaggio, una versione personale di un genere che nella storia della pittura fu definito “panorama”, un termine che non ha nulla a che vedere con gli attuali cliché pittorici e fotografici di tramonti del sole sul mare, o di stereotipate e banali viste di vallate o di catene montagnose. Il significato originario del termine panorama indica una visione a 360° che il pittore Robert Barker alla fine del XVIII secolo otteneva accostando una serie di vedute, allineate sulla stessa linea dell’orizzonte, che riproducevano la visuale globale, di un angolo giro di un luogo o di una città osservata da un unico punto di vista. Tuttavia, le pareti della stanza essendo ortogonali tra loro, delimitano uno spazio che non si presta alla realizzazione di un vero panorama. I dipinti di Pericoli forse non andrebbero esposti in un luogo chiuso e definito da una geometria cubica, forse andrebbero collocati negli stessi luoghi dove hanno avuto origine, ovvero sulla natura, dove da ogni lato del quadro l’immagine dipinta possa continuare nella natura contigua, estendendosi idealmente all’infinito.
Riscontriamo in questa concezione dell’immagine della natura una chiara risonanza con l’immagine inseguita anche dai pittori cinesi della tradizione, vissuti durante le dinastie Tang e Song e che hanno dettato i principi fondamentali della pittura classica, per i quali “la grande immagine non ha forma”; giacché non può essere de-limitata da un contorno, né contenuta in un formato, o rinchiusa all’interno di una cornice. I limiti fisici dei quattro lati del supporto, quindi, non delimitano anche l’immagine dipinta; questa li travalica e li trascende, si estende ben oltre ciò che materialmente la sostiene. Torna qui potente, con tutta la sua forza evocativa, l’immagine del desiderio infantile che il pittore ha più volte raccontato e alla quale rimane sempre legato: immaginava di dipingere con un grande pennello non sulla tela ma direttamente sul crinale di una collina, eseguendo con un solo gesto, una grande pennellata nella quale siano già prefigurati e giustapposti tra loro tutti i colori, le forme, i solchi, gli alberi, i declivi, le zolle, di un unico grande paesaggio, che appare immediatamente al compimento della pennellata. Si tratta di un’immagine che sta tra la rêverie poetica e il sogno infantile di dipingere l'immagine di un paesaggio che si estende indefinitamente sulla stessa natura e che continua a spingere il pittore a non smettere di provare a dipingerla.
Dipenderà forse dal fatto che ho sempre visto nella sua pittura un modo di dipingere molto orientale, affine allo stile dei pittori della tradizione cinese e giapponese, ogni volta che vado a trovare Pericoli nel suo studio per vedere i suoi ultimi lavori, osservandolo lavorare non posso fare a meno di vedere nei suoi occhi una volontà creativa analoga a quella che sosteneva il pittore giapponese Hokusai, quel “pazzo del disegno e della pittura” che chiedeva tempo al tempo per continuare a lavorare fino a raggiungere la perfezione della pittura. In esergo delle “Trentasei vedute del monte Fuji” scrisse: “Sin dall’età di sei anni ho amato copiare la forma delle cose, … ma fino a quel che ho raffigurato a settant’anni non c’è nulla degno di considerazione. A settantatré ho un po’ intuito l’essenza della struttura di animali e di uccelli, insetti e pesci, della vita di erbe e piante, … a novanta ne avrò approfondito ancor più il senso recondito e a cent’anni avrò forse veramente raggiunto la dimensione del divino e del meraviglioso. Quando ne avrò centodieci, anche solo un punto o una linea saranno dotati di vita propria.”
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Tullio Pericoli, Terremobili, Galleria Consadori di via Brera 2, Milano, fino al 28 giugno 2025
In copertina, Curve collinari 2024, Tullio Pericoli.
