La reputazione

28 Gennaio 2012

L’identità di ognuno ha una faccia interiore e una esteriore, la privacy e la pubblicità. I due poli opposti, uno centripeto e l’altro centrifugo, trovano un punto di contatto nell’area di ciò da cui la privacy viene difesa e su cui la pubblicità compie un’opera di costruzione: la reputazione.

È un buon periodo per parlare di reputazione. “It’s not about the money”: la battuta di Wall Street 2 è stata ripresa dalla filosofa Gloria Origgi in un articolo (il Fatto quotidiano) in cui ha mostrato come le poste reali del gioco finanziario siano affidabilità, credibilità, credito e quindi reputazione. Fra gli arbitri di tale gioco grande peso ha un’agenzia che il cui nome, “Moody’s”, per una coincidenza a modo suo illuminante, allude all’essere umorale e lunatico.

 

“Le imprese si governano con la riputazione”: non a imprese commerciali, industriali o finanziarie, allude il proverbio, né alle imprese amorose a cui si potrebbe pensare sapendo che ne è stato autore Pietro Aretino (che in realtà parlava di Giovanni dalle Bande Nere e di imprese guerresche). Si vede come già nel 1526 il termine aveva assunto il significato odierno. In origine, il reputare latino significava “fare i conti per bene” o anche “mettere mettere in conto a qualcuno”. Ma il suo significato neutro di “opinione condivisa nei riguardi di una persona” sembra il più delle volte specializzarsi nel senso di “opinione condivisa e favorevole”. Lo stesso succede ad alcuni suoi parasinonimi, come stima, nome, considerazione o a una parola come fortuna. Sono nomi che stanno per una categoria (buona e cattiva reputazione; buona e cattiva sorte) ma sono anche i termini non marcati della categoria, ovvero i significati di default. La “reputazione” (come la fortuna) è quella buona, altrimenti viene specificato (il contrario avviene con la nomea, che di default è negativa). Lo si vede per esempio da tre versi di Lorenzo de’ Medici, proprio a proposito di privacy e reputazione: “Chi regge imperio e in capo tien corona / sanza reputazion non par che imperi / ne puossi dir sia privata persona”.

 

Il concetto di reputazione, però, non pare godere (o aver goduto) proprio sempre della medesima reputazione. Non sempre, cioè, la reputazione positiva ha a sua volta una reputazione positiva. Nel principio di pubblicità e visibilità, per esempio, è implicito il famigerato “bene o male, basta che se ne parli”, che rende positive espressioni come “chiacchierato” o l’inglese “the talk of the town”. Addirittura è la reputazione negativa ad avere una reputazione positiva nei casi di “adorabile mascalzone”, a cui si ispirano tutti i maledetti, gli antibuonisti e i cultori del politically uncorrect, il cui decalogo si riassume nel comandamento “La Corazzata Potemkin è una cagata pazzesca” (da Sgarbi in poi, ce n’è un intero star system, il mainstream della trasgressione).

 

La cosa più interessante è però il rovescio: non quando la reputazione cattiva ha una reputazione buona, ma quando è la reputazione, anche buona, ad averne una cattiva. Altro che essere chiacchierato! Nelle famiglie aristocratiche si diceva che sui giornali ci si deve andare due volte: alla nascita e alla morte. A Voltaire si attribuisce la battuta con cui, a chi gli parlava di una certa Accademia di provincia “figlia dell’Académie Française”, rispose: “Deve essere una figlia molto virtuosa, perché non ha mai fatto parlare di sé”. L’inappariscenza e l’indistinzione, la vita appartata, quel “Per favore mi lasci nell’ombra” con cui Carlo Emilio Gadda si appellava invano all’intervistatore avevano la loro controparte nell’esistenza, oggi impensabile nel mondo del commercio, delle “società anonime”.

 

Nel primo capitolo dei Promessi Sposi, don Abbondio ricorda di quando in passato aveva difeso la “riputazione” di don Rodrigo: per puro timore, non conoscendolo affatto. Esiste dunque la possibilità di una reputazione teorica, astratta quando non assolutamente immaginaria. È il tipo di reputazione che, negli stessi anni di Pietro Aretino, veniva studiata da Niccolò Machiavelli come strumento di dominio dell’opinione pubblica: “El fine suo non è quello adquisto o quella victoria, ma è darsi reputazione ne’ popoli sua e tenerli sospesi con la multiplicità delle faccende”. Mostrarsi affaccendato, più che fare; “il fare” come sostantivo ed etichetta vuota anziché come verbo e azione effettiva e il “fatto!” come opinione autocelebrativa. Come anche la politica contemporanea dimostra (né possiamo illuderci di avere al proposito voltato pagina definitivamente) la reputazione perde il suo sostrato (quell’identità immateriale ma concreta e comprovabile, verificabile perché falsificabile, fatta di storia personale e memoria collettiva) e assume l’evanescenza dell’immagine.

 

Brand, costruzione puramente comunicativa, ectoplasma di un’entità inconsistente e semio-fantasma, l’immagine (o reputazione immaginaria) cerca di divenire icona e di mettere così al riparo da ogni revisione storica. Nel mondo contemporaneo, chi è stato proclamato brutto, efficiente, spiritoso, scaltro, maldestro, saggio tende a rimanerlo. Sostituire l’articolato e mutevole dispiegarsi della reputazione al pregiudizio marmoreo dell’icona non è facile né gradito, perché è proporre le virtù della Cosa, opaca, ruvida e spigolosa, contro la trasparenza artificiale ma avvolgente del Mito. Nel mondo d’oggi, è come sostenere le virtù della pioggia contro quelle del solleone. O, a proposito di caldo e siccità, come predicare nel deserto.

 


Uscito il 9 gennaio su La Repubblica

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