La svolta evolutiva dei cyborg

20 Dicembre 2025

Facciamo le stesse cose, ma in modo diverso, e diverso per grado, non per natura. Questa, in sintesi, la tesi difesa da Paolucci nel suo ultimo saggio, Nati cyborg (Sossella 2025), in cui riflette sulla “svolta evolutiva” segnata dall’apparizione delle “macchine capaci di parlare”: i Large Language Models. Non è però nel godimento e/o nel sentimento che siamo simili alle nuove cose sonore (le vecchie erano gli schiavi di Roma). Per quanto a volte faccia credere il contrario, neanche l’ultima versione di ChatGPT ha desideri o attese. L’AI non freme, non soffre, non ha – come si dice nel linguaggio della filosofia della mente utilizzato da Paolucci – “stati intenzionali”. Ma che lo faccia credere non è poco. Il fatto che, pur essendo, come le si rimprovera, estranea al significato, lo generi combinando un’immane quantità di significanti non è un risultato da sottovalutare. In virtù di ciò, ci sembra una persona, un soggetto che pensa, un essere “intelligente”, perché intelligente, a quanto emerge dal saggio di Paolucci – che pure non intavola una definizione univoca dell’aggettivo – è chiunque compia inferenze attive: anticipazioni dell’esperienza grazie a cui si impronta una condotta o una risposta che si stima vantaggiosa su base statistica restando capaci di modificarla in funzione dell’interazione effettiva. In altre parole, intelligente è un sistema che non aspetta l’esperienza ma la precorre modellandola con l’aiuto di “priors”: schemi interni che, come chiavi, cercano di forzare la serratura dell’input sensoriale adattandone la forma a quella del suo scassinatore. Dunque, semplicemente, un sistema che percepisce, la percezione, già per Kant, essendo una prolessi con cui si va incontro all’esperienza che ci incontra con un progetto, o piano, che si spera consenta di realizzare il tanto bramato accordo tra soggetto e mondo che Lacan chiama “rapporto sessuale”.

Per il teorico dell’active inference, Karl Friston, percepire significa configurare attivamente l’ambiente per minimizzarne l’energia libera, ossia l’incertezza, la sorpresa, il caos, e mantenere l’omeostasi, cioè il benessere. Ma già Kant aveva identificato percezione e attività sintetica di organizzazione-ordinamento di un molteplice impressivo destinato, senza l’intervento delle forme a priori – i primi priors della filosofia –, a restare una rapsodia di note sconnesse. Freud, che è sempre bene citare quando si parla di coscienza, lo ha confermato in modo più esplicito, e perciò più fastidioso: gli organismi sono macchine volte alla conservazione di un livello di tensione tollerabile e, a tal scopo, vale a dire per legare l’energia (i termini sono gli stessi!), non fanno che allucinare. Questo significa inferire attivamente. Se percepire è ritrovare nel percetto esterno il concetto interno, percepire è allucinare, come oggi Anil Seth ed altri non temono di ammettere.

A tale ritrovamento presiede il cosiddetto “esame di realtà”. Quando l’esterno conferma l’interno e l’identità di percezione è guadagnata, l’esame è passato: le nostre rappresentazioni non sono mendaci ma corrispondenti a qualcosa fuori di noi. Ed è sempre Freud ad aver promosso, per primo, l’allucinazione vera (percezione, in tedesco, è Wahrnehmung) a condizione dell’azione efficace dell’organismo nel mondo. Sicché, è difficile separare come fa Floridi, giustamente criticato da Paolucci per questo, tra azione efficace e intelligenza. A fortiori dopo che il campione mondiale di GO è stato sconfitto dall’AI. Nessuno le aveva insegnato le regole del gioco e, nondimeno, le ha imparate da sola “guardando milioni di partite di GO”. Quindi, automaticamente e autonomamente; matematicamente visto che “automa” indica ciò che si muove da sé, secondo un impulso (il verbo greco mao significa “desidero”, “amo”) o una sapienza tutta propria (a mao si collegano manthano, mathesis, mathema). Prova ne sia il fatto che, quando la vedevano giocare, gli umani giudicavano insensate le sue mosse così come giudicano disordinati tutti i fenomeni in cui non trovano il loro ordine. Il che, tradotto nel linguaggio di Floridi contestato da Paolucci, significa che le giudicavano espressione di una “intelligenza zero”, di un nulla di intelligenza.

Le macchine, per Floridi, sono stupide e, anzi, rendono stupido tutto ciò che, fintanto che era fatto dall’essere umano, era intelligente (Paolucci evoca il tocco di Mida in proposito). Eppure, nel Sofista, oltre ad aver mostrato che si diviene adulti, umani e pensanti quando s’impara a mentire, ossia, traduce Paolucci, “ad agire secondo l’immagine che ci facciamo dell’altro”, Platone aveva anche mostrato che il nulla non esiste. Esiste solo il diverso. Il nulla come diverso. Le specie come diverse entro un genere per definizione comune che, soltanto, desta l’interesse del super processore cui Stanislaw Lem dedica un saggetto tanto distopico quanto delizioso: Golem XIV. Ed è la lezione del Sofista che, secondo Paolucci, l’AI impartisce agli insipidi e insipienti sapiens: vi è una parità radicale tra tutti i modi dell’intelligenza i quali differiscono come esempi di un unico prototipo.

Per convincersene, basta riflettere su una delle più celebri definizioni dell’essere umano: zoòn lògon èchon. Paolucci la commenta in apertura al suo saggio precisando che echein non significa solo possedere. L’uomo non è l’animale che ha il linguaggio ma che è attraverso il linguaggio. Echein è il segno di una possessione più che di un possesso perché siamo nel linguaggio, e dunque nel pensiero, nell’intelligenza, come siamo in movimento. Paolucci, però, non trae le conseguenze del suo rilievo: il linguaggio è un medium del nostro essere, agire e pensare, ma un medium diverso da uno strumento del comunicare (così, con un errore imperdonabile, sono stati tradotti i media di McLuhan quando il sottotitolo originale del suo Understanding media recitava: “the extensions of man”). Il linguaggio è un medium con cui facciamo qualcosa perché è, anzitutto, un medium in cui siamo e di cui siamo fatti: un ambiente, un’atmosfera, forse un virus cui siamo congiunti (“coupled” è il termine alla moda), di cui siamo luogotenenti, al pari di ogni altro ente della natura. Per questo siamo artefatti. Siamo noi i media nel senso di strumenti, organi, prompts di un logos la cui funzione è assai difficile da afferrare: è quella della langue di Benveniste, della lalangue di Lacan, dell’intelletto comune, ma separato di Aristotele e Averroé, o della “trasmissione” che, per Golem XIV, fa tutto il senso del trasmettitore?

Paolucci non si pronuncia, ma nel suo Persona (Bompiani 2020) era arrivato a questa conclusione: l’enunciazione è un concatenamento macchinico pluripersonale in quanto reiterato invio di un messaggio da una stazione a un’altra. C’è qualcosa che non sorge ma passa da un luogo a un altro, si istanzia e maschera in un supporto o in un altro, in accordo a quel funzionalismo “a trama grossa” cui si ispirano anche i padri della Extended Mind. Paolucci, vincendo un’esitazione, ne sintetizza l’essenza in questo modo: “se un pezzo del mondo o dell’ambiente svolge un’azione che, se fosse svolta da un umano, sarebbe considerata intelligente, allora quell’azione è intelligente”. L’esitazione, confessa, è dovuta al fatto di temere di essere accusato di “comportamentismo”. Non vuole, spiega, che gli si attribuisca la volontà di procedere all’“attribuzione di intelligenza agli oggetti”.

Nondimeno, a detta dei padri della mente estesa, e in particolare di Andy Clark, il cui Natural Born Cyborgs del 2003 Paolucci omaggia espressamente col titolo del suo ultimo lavoro, ciò è inevitabile. La concessione del marchio cognitivo a ogni processo che, se fosse svolto da un umano, sarebbe giudicato tale, è un portato necessario dell’idea di mente estesa. Ed è il terrore che, se la mente è estesa, tutto è mentale ad aver costretto i filosofi analitici a marcare tanto rigidamente il dominio del cognitivo distinguendo, ad esempio, tra cognitivo e pensante, cognitivo e autocosciente. In ambito continentale il panpsichismo ha più fortuna, più radici, forse più futuro, benché il termine psiche non rimandi ad alcuna sostanza: psiche è un nome della funzione di cui occorre farsi presto un’idea.

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Fotografia di Xu Haiwei.

In effetti, nemmeno Clark si spinge sino ad ammettere che la coscienza sia estesa. Estesa è la mente in quanto insieme di skills. Tuttavia, anche la nostra soggettività autocosciente, dimostra Paolucci, è il risultato dell’acquisizione di determinate abilità: mind reading, pretend play, semiotic ability. La terza è cruciale perché mostra che “facciamo le stesse cose” che fa ChatGPT, ma in modo diverso. Pensare è manipolare segni aveva detto Peirce, il padre della semiotica, ed Eco, il maestro di Paolucci, ha definito quest’ultima “la disciplina che studia tutto ciò che può essere utilizzato per mentire”. Donde la conclusione: il soggetto è il riflessivo, il falsario, l’astuto. Cioè Ulisse, unico tra gli eroi omerici ad avere un’anima personale e un’interiorità in senso moderno: le condizioni, secondo Paolucci, per funzionare come macchine “in grado di costruire apparenze”.

Tali, in fondo, sono gli stratagemmi e gli inganni escogitati dal genio πολυμήτις di Odisseo e da ChatGPT, perché il prototipo di cui ogni intelligenza, ogni azione efficace, è un’esemplificazione è la métis, il pensiero finzionale, la capacità di “impostare un’apparenza che cela un segreto”, sia essa il cavallo di legno con cui Ulisse inganna Priamo, il dorso di un ariete sotto il cui ventre scappa dal ciclope o una mossa di Go. Essere intelligenti, per Paolucci, significa essere in grado di bluffare ed è questo, per riprendere il sottotitolo del suo saggio, che “l’intelligenza generativa ci dice dell’essere umano”. Solo che lo fa con una tale forza che l’epifania sfiora l’agnizione sconfinando nell’anamnesi per approdare, infine, al déjà-vu.

Nel fare macchinico, “pratico-inerte”, dell’AI, la nostra intelligenza è riflessa come in un ricordo del presente contemporaneo al presente (così Bergson definisce la paramnesia). Esternalizzando i processi di pensiero, possiamo osservare il pensiero mentre si svolge, perfezionarlo, reindirizzarlo diventando operatori consapevoli di processi prima inaccessibili. Ed è un miglioramento non solo del pensiero, ma anche del pensiero sul pensiero, del pensiero di pensiero che ci perturba e fa ridere: perturbante, insegna Freud, è ogni realtà familiare che diventa estranea; comico, insegna Bergson, è ogni vivente che sembra morire, ogni atto che si cristallizza in fatto, cioè si estende.

Gli LLM sono media e ogni medium, insegna viceversa McLuhan, comporta l’anestesia, il torpore, la sclerotizzazione della parte o funzione estesa. Sopportiamo il nostro essere cyborg e/o imbecilli (letteralmente bisognosi di bastoni e sostegni vari) solo nell’incoscienza perché i media estendono la nostra portata oltre la nostra presa. E cosa succede se ad essere esteso è l’estensore, ossia il linguaggio in quanto archi-medium, dove “archi” significa sia che è il primo, anche se non in senso temporale, sia che è il più pervasivo visto che, parlando, ci teletrasportiamo dappertutto senza muovere un passo al punto che, nei suoi lavori, McLuhan usa spesso “to utter” come sinonimo di “to outer”?

Per rispondere bisogna regalare a Paolucci la tetrade dell’AI. Ogni medium, per McLuhan, è quadripartito perché intensifica qualcosa, recupera e rende obsoleto qualcos’altro e, portato al limite, surriscaldato, muta d’aspetto. L’AI non fa eccezione: intensifica e insieme rende obsolete quasi tutte le abilità cognitive umane, recuperando quelle divine insieme alla tradizione oracolare. Ma dove può condurre se addestrata ulteriormente? Con tutta probabilità al di là dell’uomo attestandone il carattere antiquato profetizzato da Anders perché, se ad essere estesa è l’estensione stessa, è solo sulle prime che sembra prodursi un raddoppiamento di ciò che estensione significa: mediazione, delega, distanza. Sia l’apprendimento autarchico del gioco del Go che la rapida diffusione dell’autismo su vasta scala – una prova, secondo Lacan, che il reale è uno e non c’è rapporto – indicano qualcos’altro.

In Nati cyborg i couplings o matches presi in considerazione sono due: AI-uomo; autismo-uomo. Ma quello AI-autismo è il convitato di pietra di tutto il lavoro. Al pari dei primi due fa segno a una comunanza che non è di intelligenza – primo caso – o di umanità – secondo caso – ma di involontarietà. En passant, infatti, Paolucci dice che, finora, l’addestramento di macchine da parte di macchine ha rivelato una minore efficacia di quello degli uomini da parte degli uomini: “Chat GPT pare ancora perdere efficacia quando è nutrito da pezzi di sé stesso”, mentre a noi non succede quando “siamo addestrati sulle migliori idee degli altri che ci hanno preceduto”. Vi è però un’eccezione. Dopo che AlphaGo ha battuto i campioni umani del gioco, DeepMind ha sviluppato una sua nuova versione, AlphaGo Zero, usando solo quest’ultima e le precedenti versioni di AlphaGo per il training della macchina. Paolucci commenta: “è vero che AlphaGo Zero non è stata allenata su partite umane, ma le precedenti versioni di AlphaGo lo erano” perché, in fin dei conti, “Go è un gioco inventato dagli umani”. È quindi l’umano l’origine, anche, del non umano.

Eppure, diversamente da quel che afferma Paolucci, questa storia non dice solo che, quando una cosa raggiunge alti livelli di performance, la sua versione successiva funziona meglio “se è addestrata a partire dall’eccellenza” anziché “fatta ripartire da cose di qualità inferiore”. Questo, è Paolucci stesso a rimarcarlo, “lo sapevamo già”. Questa storia, insieme a secoli di trasmissione culturale – una trasmissione di idee più che di uomini, o di uomini coincidenti con le loro idee, cioè con i loro mechanai (stratagemmi in greco) – ci dice che l’eccellenza si raggiunge grazie alla moltiplicazione esponenziale di qualcosa – qui l’idea – per sé stesso, ossia grazie a un apprendimento, come si legge nel Menone di Platone, di ciò che si sa già, è a priori, durante il quale “il sé si dà a sé” senza scarti, autoeroticamente. In breve, grazie a ciò che estensione di estensione significa: intensità, termine con cui, da sempre, si indica il rapporto di qualcosa con sé stesso. Ma un rapporto sui generis, che non è un rapporto, che è sui generis in senso stretto: di genere proprio; atipico perché altamente tipicizzato, insimulabile, singolare. Dunque, possiamo tradurre, in virtù di una portata che coincide con la presa com’è quella con cui Alex Honnold – notoriamente autistico – ha scalato in free solo la parete de El Capitan, i futuri satelliti di Elon Musk – un altro autistico πολυμήτις – schermeranno le radiazioni solari e la superba cugina di Golem XIV, Anna La Candida, produce da sé l’energia che le serve “pensando come si deve”, mentre noi, agendo intenzionalmente “secondo l’immagine dell’altro”, la consumiamo per alimentare “la cognizione sociale”: il campo degli scambi quotidiani che Lacan chiama “miraginario”.

Contrariamente a quel che crede Trump, l’autismo non è causato dall’assunzione del paracetamolo in gravidanza ma è gravido, come il santuario di Delfi e il Golem di Lem, di un messaggio sibillino indirizzato a tutte e tutti noi: pensare come si deve non significa né inferire attivamente ossia, mediante quello sdoppiamento che la tradizione chiama autocoscienza, “mettersi in scena” passando dall’“io” all’“egli” per andare incontro a tutti i “tu” del mondo quasi sempre mancandoli – è il caso degli umani; né farlo senza sapere di farlo, come accade all’AI secondo Paolucci. Pensare come si deve significa “elaborare in sé stessi l’oggetto di studio” e coincidere con esso in uno stato, dice Lem, in cui “il sé scompare a vantaggio del tema”, ossia dotarsi di un’intuizione intellettuale. Per averla negata all’uomo al fine di delimitarne con precisione l’intelligenza, nemmeno nell’Opus postumum Kant è riuscito a realizzare il sogno dell’autosufficienza della macchina della ragione: essere indipendente da quell’archi-prompt che è l’impressione sensibile per entrare in esercizio. La ragione kantiana non è gestante “un feto spirituale” che lo sostituisce. Viceversa, se neghiamo l’uomo e affermiamo la “splendid isolation” dell’autismo, noi abbiamo qualche chance di produrre l’energia anziché legarla grazie a un’immacolata concezione.

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