La vittima, tra debito e credito

11 Marzo 2014

Lasciandoci guidare dalle nuove bussole che orientano il pensiero, l’epoca del «sospetto» - come si diceva a partire dagli anni ’70 – sembra finalmente superata e, con essa, tutte le protrazioni più radicali di una volontà interpretativa che aspira a mettere in dubbio, a respingere, l’evidenza incontestabile dei fatti. Bene.

 

Ne potrebbe derivare un vantaggio notevole per ottenere finalmente un accesso diretto alla cosiddetta realtà. A patto, però, che venissero individuati, nello stesso tempo, la provenienza e la puntuale riproposizione di alcuni tra i nodi concettuali sui quali l’esercizio del sospetto si è andato esercitando nel corso del tempo, con intensità pari allo spessore dimostrato da gran parte di queste costellazioni di problemi (più che di temi).

 

Problemi che, a volte, non hanno potuto fare a meno di esibire la paradossalità che li impregna già a partire dalla loro formulazione originaria. Uno tra questi – dal rilievo addirittura fondatore della civiltà occidentale secondo René Girard – riguarda lo statuto della vittima, sui cui esiti contemporanei si interroga Daniele Giglioli in un libro appena pubblicato da  nottetempo con il titolo di Critica della vittima. Un esperimento con l’etica. Va detto subito che si tratta un libro indispensabile per incrinare alcuni dei luoghi comuni maggiormente radicati nell’etica collettiva.

 

 

Non a caso l’incipit che apre il lavoro di Giglioli è radicale, perentorio, proprio come deve esserlo ogni riflessione rivolta a dipanare un’aggrovigliata matassa di contraddizioni:
  

«La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. […] Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce. Nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa, desiderio di avere e desiderio di essere».

 

Soffermiamoci sull’ultimo passaggio del ragionamento di Giglioli, poiché  ricapitola efficacemente la tesi intorno alla quale ruota l’intero libro. Nella vittima si intrecciano e si sovrappongono due pulsioni opposte: «mancanza e rivendicazione», «desiderio di avere e desiderio di essere». Ci troviamo di fronte a un paradosso stridente. Un paradosso che, accanto alle sofferenze inflitte alle vittime reali, spesso chiuse nel silenzio paralizzante successivo all’evento traumatico, rende possibile, secondo Giglioli, un processo di auto-legittimazione immaginaria della vittima, grazie a una lubrificata macchina mitologica – per riprendere una definizione di Furio Jesi mutuata da Giglioli – preposta alla celebrazione idealizzata della sofferenza.

 

In questo contesto (che comprende, nella ricostruzione offerta da Giglioli, spunti prelevati dall’antropologia culturale e dalla cronaca politica, dalla filosofia e dalla letteratura) non si è più vittima, ma si sceglie di diventarlo. È un calcolo preciso. Quale guadagno potrà, infatti, dimostrarsi maggiore di quello che proviene dall’esibizione di un patimento subito ingiustamente? Nessuno, perché risulta assolutamente impossibile quantificare un risarcimento di fronte agli effetti dell’ingiustizia. Sapendolo in anticipo, la vittima non chiederà mai di saldare i conti. Tenterà, viceversa, di rinviarli all’infinito, perché rivendicando il carattere incancellabile dell’offesa ricevuta, il suo potere aumenta sempre di più, fino ad assumere l’aspetto della pura volontà di potenza: dell’aspirazione a un potere indefinito, che sacrifica ogni guadagno concreto nella nichilistica contemplazione della propria hybris smisurata.

 

La critica della vittima operata da Giglioli coincide con lo smascheramento di questa hybris, di questa divorante volontà di potenza accuratamente dissimulata dalla vittima proprio mentre trae da essa il suo alimento naturale ma, insieme, anche l’artificialità del suo vigore. C’è, infatti, osserva Giglioli, «qualcosa  di spettrale, fantasmatico» in un processo del genere: «i diritti inalienabili non esistono in natura, sono prestazioni della polis, come aveva capito prima di tutti Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo: nulla di più astratto dei diritti umani, che non a caso emergono come problema solo nel momento in cui vengono negati i diritti politici, perché sono questi a fondare quelli, e non il contrario». In altri termini, vuole dire Giglioli, la macchina mitologica grazie alla quale la vittima acquista il proprio potere si articola attraverso un dispositivo costruito artificialmente dalla collettività per un vantaggio comune. Per il vantaggio, profondamente redditizio, assicurato dall’interiorizzazione delle categorie economiche del debito e del credito.

 

La vittima, affermando tramite le ingiustizie patite un credito inesauribile, instaura, anzi impone  – con il risentimento che connota la «morale degli schiavi», direbbe Nietzsche – un’estensione illimitata del debito, tipica di un «individualismo proprietario» - lo definisce Giglioli - guidato solo dalla legge dell’utile. Entro questa inaspettata saltadura tra economia e morale (sui cui esiti si sono soffermati, con ammirevole intensità teoretica, sia Elettra Stimilli in Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Quolibet 2011, sia Roberto Esposito in Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi 2013, entrambi richiamati da Giglioli) la vittima mette a punto la sua prepotente forza di attrazione simbolica.

 

Giglioli sa bene che non è sufficiente la critica a destituire tale potere. Deve scendere in campo un’altra macchina mitologica, producendo altre immagini, altri simboli. Quali? Giglioli giustamente evita di indicarli. Potrebbero essere, infatti, molteplici. Basta solo –  aggiungerei – che siano economicamente improduttivi. Anzi, finalizzati al puro dispendio.

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