Esposito: il fascismo in noi

10 Novembre 2025

Con Il fascismo e noi. Un’interpretazione filosofica Roberto Esposito ha traversato il fascismo nel tentativo, come lui stesso scrive, di misurarne l'abisso calandosi al suo fondo con l'aiuto di molti filosofi che hanno aperto la strada di quelle tenebre, per individuarne “il senso d’insieme, il carattere essenziale”. Il senso d'insieme tracciato da quell'itinerario ci consegna una serie di elementi che appaiono oggi decisivi per comprendere i processi storici ed esistenziali che ci attraversano. Quel “e noi” del titolo non può essere un orpello accattivante, ma un invito ad appropriarci di quel senso d'insieme e a usare quegli elementi.

La sovrapposizione degli opposti

La tesi portante del libro è che il fascismo, prima che un regime, un movimento o una dottrina, sia una “macchina metafisica”, la cui essenza consiste nel “suddividere la realtà in due parti opposte, immettendo l’una all’interno dell’altra, dopo averle modificate entrambe. In questo modo può adoperare indifferentemente ideologie di destra e di sinistra, scambiandone i contenuti in base ai propri fini. […]. Contenuti opposti, decontestualizzati e svuotati del loro senso originario, vengono funzionalizzati alla costruzione di un’egemonia che passa precisamente per la loro conversione reciproca. È un modo di occupare tutte le posizioni in campo, fino a espellere l’avversario dal terreno di gioco”. Storicamente, è evidente, Mussolini fu il prototipo di questa rifunzionalizzazione di concetti opposti fino a tenerli insieme in una grande macchina discorsiva: rivoluzione e conservazione, mito e tecnologia, capitalismo e anticapitalismo. Ma è altrettanto evidente come questo sia il carattere eminente dei sovranismi identitari con cui ci tocca confrontarci oggi. Anch’essi lavorano sovrapponendo prospettive opposte, determinando un campo discorsivo del tutto nuovo, di fronte al quale i suoi oppositori si trovano disorientati.

Pensiamo, giusto come esempio (senza attribuire ad essi una qualche priorità assiologica), a due coppie di concetti comuni ai vari sovranismi globali (dove quello capofila è evidentemente quello trumpiano): Identità e Differenza; Fede e Sospetto. Superfluo dire che Identità – intesa come unificazione in fascio della molteplicità, e sua normazione – è il presupposto di ogni fascismo. Ma dove è sempre stata la Norma a determinare la Differenza in quanto patologica (dai comportamenti sociali alle propensioni sessuali, dalla “normalità” di una razza alle psicopatologie), oggi i sovranismi si presentano come campioni della Differenza contro l’Omologazione (del “turbocapitalismo” globalista, del woke, del gender). I portatori di un’Identità normalizzante – in termini etnici, sessuali, sociali – si presentano come i campioni della difesa della Differenza rispetto a una Norma che omogeneizza tutto: la Norma è il globalismo, quel globalismo che impone il dissolvimento della Tradizione, delle Identità – Dio, Patria e Famiglia, trinomio così indistintamente caro alle madri italiane cristiane. Rivendicare la Differenza, allora, con una esemplare operazione di rovesciamento di senso, finisce per rivendicare il valore dell'Identità, e della Tradizione, la cui difesa tocca agli Individui divenuti massa.

Così accade anche nel caso del binomio Fede/Sospetto, il cui fondamento sta in quella che Rocco Ronchi ha definito, nel suo libro sui sovranismi, “libertà dalla verità”. Se sospettare era un'operazione di igiene del pensiero necessaria e preliminare – mi riferisco alla nota definizione di “maestri del sospetto” che Ricoeur diede dei tre padri della modernità Marx, Nietzsche e Freud –, essa è divenuta cifra di uno spirito del tempo in cui ognuno crede di pensare con la propria testa e si fa giudice di tutto, nessuno crede più a niente e si figura mostri immaginari e complotti di Soggetti onnipotenti, dalle big pharma con i loro vaccini alle migrazioni governate dal piano Kalergi. Non a caso tutto questo è parte integrante dell'ideologia trumpiana, tra un Kennedy complottista e antivaccinista ministro della sanità al mito della sostituzione etnica e della “difesa della razza” attraverso i muri e il controllo dello spazio urbano da parte dei paramilitari ICE. Queste rivendicazioni di un sedicente libero pensiero – un pensiero che è libero unicamente nella misura in cui è agli antipodi delle complessità necessaria per interpretare la realtà – sono complementari al fideismo radicale di cui è imbevuta la narrazione trumpiana: fede nella Bibbia, e fede in Trump stesso come “unto del Signore”. Per intuire la portata di questo accecamento fideistico, consiglio di seguire alcuni account Instagram – come ad esempio “The good liars” – dove vengono intervistati centinaia e centinaia di “fedeli” trumpiani, ciechi a qualsiasi rischiaramento logico-razionale, e accecati dalle loro verità di fede brandite come armi millenaristiche. Ma sono innumerevoli le testimonianze in questo senso: citerò solo quella del deputato Chip Roy: “La verità è che i marxisti, i radicali e gli islamisti promossi dal Partito Democratico questo fine settimana [le manifestazioni No king, ndr] non riescono a gestire la verità. La verità è che esiste un re e quel re è Gesù. E il presidente è stato disposto a dirlo, e Charlie Kirk era disposto a dirlo ed è stato ucciso per questo”.

Il continuo spostamento del confine tra politico e giuridico

La peculiarità dei regimi totalitari individuata da Hannah Arendt era “quella di eccedere l’alternativa tra governo legale e governo illegale, potere arbitrario e potere legittimo”. Essi “sacrificano i diritti dei singoli uomini per fare dell’uomo perfetto, sotto il profilo razziale o sociale, l’incarnazione stessa del diritto. Perciò la concezione totalitaria non richiede il consensus iuris. Perché, obbedendo alle esigenze della razza o della classe, della natura e della storia, non ne ha bisogno – ne è già di per sé portatrice”. Trump non obbedisce alle esigenze di una razza, ma a quelle di una nazione che può essere grande solo in quanto “comunità di destino”, un organismo “saldato dall’esclusione di tutto ciò che non gli appartiene”. Non è forse nella direzione dell’indistinzione tra potere arbitrario e potere legittimo che si muove Trump quando agisce in disprezzo di ogni legge, di ogni principio liberale e costituzionale della divisione dei poteri? E non è nella direzione dell’esclusione dei corpi estranei a un organismo, in un tipico movimento immunitario, che Trump si muove quando dice di “odiare i propri avversari”, che sono “nemici interni”?

“Trump ricorre a una retorica oltraggiosa per cercare di legittimare la sua invasione di campo incostituzionale”, ha detto Peter Shane, professore di diritto costituzionale alla New York University. “Che si tratti della trattenuta immotivata di fondi destinati a istituzioni private che non si piegano al suo volere o delle fantasie sull'uso delle città con sindaci democratici per addestrare l'esercito, Trump sta calpestando le leggi e le tradizioni che da tempo sostengono una solida democrazia americana”.

L'affermazione di Trump al funerale di Kirk – “Odio i miei avversari” – potrebbe essere il manifesto del suo autoritarismo: “abbiamo dei pazzi della sinistra radicale là fuori, e dobbiamo semplicemente picchiarli a sangue”, ha aggiunto. Essi sono un “nemico interno” e “l’America è sotto invasione dall’interno”, ha detto il 30 settembre agli alti ufficiali dell'esercito convocati per il suo discorso, e l’esercito “dovrebbe usare alcune di queste città pericolose come campi di addestramento”. Larry Noble, professore di diritto all'American University, ha commentato: “un presidente con ambizioni dittatoriali che dichiara che gli abitanti delle città guidate dai democratici sono ‘nemici interni’ che devono essere controllati con l’uso dell’esercito è contrario ai principi stessi su cui è stato fondato questo Paese”.

Certo, sono flussi che ancora non hanno (ancora?) sedimentato mega-macchine totalitarie, che non hanno al loro centro la destinalità e la purezza di un ordine biologico razziale da salvaguardare (ma la purezza e la destinalità non sono attributi della nazione-comunità così come viene concepita?), ed è ancora storicamente illegittimo affermare che il sovranismo di Trump e quello degli altri sovranismi di scorta siano qualificabili come fascismi a pieno titolo. Cionondimeno è necessario saper riconoscere le dinamiche in gioco in questi processi epocali. Saper interpretare i segni di un possibile è determinante per affermare un altro possibile.

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La fede, il mito, il corpo del sovrano

Per interpretare l’insieme di questi segni, torniamo al fideismo e all’irrazionalità – ciò che ci consentirà di scendere nelle tenebre pulsionali, necessario per comprendere la portata dei fascismi. La fede nel leader a cui si accennava è un elemento che tiene strettamente insieme il fascismo storico e i fascismi contemporanei. Scrive Esposito: “Hitler e Mussolini, prima di convincere, eccitano le masse. […]. Decisivo è l’elemento sadomasochistico che attraversa le pulsioni di massa e, a ben guardare, anche quelle individuali”. I leader come Hitler, Mussolini e Trump sanno maneggiare e orientare la macchina pulsionale delle masse: ogni fascismo “ha conferito alle emozioni una forza costituente decisiva”, in una sorta di risposta religiosa a una domanda di senso lasciata inevasa. Di qui l’uso del mito come altro elemento centrale del fascismo: e basta l’evidenza per contemplare la furiosa macchina mitopoietica del trumpismo e dei sovranismi vari. Di qui anche la centralità della messinscena centrata sul corpo del sovrano, la sua capacità teatralizzante e perfino grottesca, che autofonda la legittimità dei suoi enunciati: “i fascisti non dettero mai eccessivo rilievo alla parola scritta, ma solo a quella parlata, o meglio gridata, da coloro che sapevano farne uso teatrale”, scrive Esposito. Non vale per Trump allo stesso modo che per Hitler e Mussolini? (e, in sedicesimo, per le faccette e la postura garbatelliana della Meloni, pure).

Emozioni, mito, corpo del sovrano: siamo nel territorio del sacro, quello che Bataille prima e forse meglio di altri seppe individuare come il proprium dei fascismi montanti, allora come ora. Il fascismo si fonda sulla messa al lavoro di quell’eccesso pulsionale a cui si contrappone la la società che Bataille chiamava dell’“economia ristretta”: “contrapposti agli uomini politici democratici, che rappresentano nei diversi paesi la banalità propria alla società omogenea, Mussolini o Hitler appaiono immediatamente come tutt’altro”. “Tutte le loro caratteristiche – violenza, eccesso, trasgressione – li distaccano dal mondo, ripetitivo e seriale, della normalità, proiettandoli nella bipolarità, opposta, dell’eccezione”, chiosa Esposito. Questa eccezione che si situa nel campo del tutt'altro compie, storicamente, un processo di riunificazione dei due versanti del potere sovrano, quello militare e religioso, a fronte di una società secolarizzata: nel fascismo si ha un'articolazione teologico-politica al massimo grado, in cui risuonano valori come dovere, disciplina e ordine (qualità omogenee) e violenza imperativa e carisma (qualità eterogenee). Non sono questi i valori tipici che vediamo all'opera di questi tempi? Il carisma, dunque, che eccita “l’elemento sadomasochistico che attraversa le pulsioni di massa”: è qui, nella densità pulsionale, che i filosofi convocati da Esposito tracciano una costellazione che illumina ancora più a fondo la nostra contemporaneità.

La forza

È Simone Weil a porre al centro della sua riflessione politica (e non solo, evidentemente) la forza, e il suo richiamo. “Questa forza”, scrive, “risalta ovunque, nelle sfilate in uniforme, negli attentati, negli aerei impegnati per la propaganda; e i deboli ne sono attratti come mosche verso la fiamma”. Nel fascismo, che in questo senso è compimento di una storia plurimillenaria, la forza appare il cardine unico dei rapporti tra soggetti. È solo la forza il principio regolatore delle relazioni, sia di quelle interne che di quelle internazionali.

C'è il Dio della forza a guidare il fascismo, che è, come scrive Esposito, “un progetto di dominio universale fondato sulla presunzione di superiorità antropologica sugli altri popoli”. È un destino manifesto che non cessa di risuonare – è a quel destino di superiorità antropologica cui occorre riconettersi se si vuole rendere la nazione-comunità nuovamente grande – la più grande.

Non c'è, nel discorso trumpiano, la naturalizzazione biologica dei rapporti sociali, ma c'è la nazione-comunità, che sembra assumere, qua e là, tratti pericolosamente identitari, un'identità forgiata nella storia ma che si pone come entità fuori dalla storia, entità da difendere da qualsiasi contaminazione. Le incursioni dei paramilitari ICE nello spazio urbano appaiono da questo punto di vista come interventi chirurgici per sterilizzare il corpo sociale dagli agenti parassitari interni.

Masochismo e sadismo

La psicoanalisi, con Freud, Reich, ma anche Marcuse e Fromm, ha interrogato a fondo il piano del desiderio – riarticolando di fatto l’antica questione di Etienne de la Boetie sul perché gli umani scelgano la servitù volontaria. Perché le masse desiderano essere oppresse, e si identificano con i propri oppressori? Alla base del fascismo, scriveva Freud, “c'è il piacere perverso di soggetti desiderosi di farsi assoggettare. Essi sono esposti a una forza ambivalente: da un lato si arricchiscono delle qualità dell’oggetto ideale; dall’altro, allo stesso tempo, lo innalzano al punto di sostituirlo a se stessi”. Le masse che si sottomettono al fascismo sono prima sottomesse alla propria “pulsione gregaria”, che consente una regressione allo stato di soggezione al dominio paterno, e ci si sente amati e protetti dal padre. Ma il cuore del discorso freudiano più adeguato a spiegare la volontà di sottomissione al fascismo è il rapporto tra principio di piacere e pulsione di morte: nel fascismo, la pulsione di morte mette al proprio servizio il principio di piacere. Gli umani sono traversati da una pulsione che aggrega (Eros) e una che disgrega (Thanatos): per non disgregarsi, Thanatos deve essere proiettato all'esterno. Il fascismo implica questa operatività inarrestabile del principio di distruzione. Esso non può fare a meno di un nemico, reale o immaginato. E il capo incarna questa pulsione distruttiva nella sua modalità più radicale.

Erich Fromm, dal canto suo, portava ancora più a fondo l'analisi della connessione strutturale tra masochismo e sadismo per spiegare il fenomeno fascista. Esse sono due pieghe della stessa economia psichica: “Di una differenza fra un carattere sadistico e uno masochistico si può parlare solo nel senso che in un caso sono rimosse piuttosto le tendenze masochistiche e nell’altro le tendenze sadistiche”. Un soggetto sadomasochistico ha necessità di sfogare i propri impulsi sadici e masochistici, e “non potendosi rivolgere contro il più forte, l’odio si rovescia su coloro che sono additati dall’autorità come oggetto di discriminazione e persecuzione. Da questa pulsione si sviluppa il lato sadico del dispositivo sadomaso. […]. Se a chi è in alto si riservano rispetto e ammirazione, a chi è in basso, nella scala sociale o razziale, si rivolgono disprezzo e odio. La persecuzione del debole agisce come elemento di compensazione per la frustrazione generata dalla sottomissione al forte. […]. Le donne, i bambini, gli animali hanno a questo riguardo un ruolo sociopsicologico di estrema importanza. Quando risulti che essi non sono sufficienti, si creano oggetti di sadismo per così dire artificialmente, gettando nell’arena ora gli schiavi o i prigionieri nemici, ora classi o minoranze razziali”. Sadismo e masochismo sono due pieghe di un medesimo movimento: la fuga dalla libertà. È superfluo sottolineare come tutto questo sia una potenza all'opera in un mondo di muri, di esclusione, di razzializzazioni, e dove i sovranismi fondano la base ideologica identitaria sull'ostilità nei confronti di migranti e poveri.

Il fascismo in noi

Nella prefazione all’edizione americana dell’Anti-Edipo di Gilles Deleuze e Felix Guattari, intitolata Introduzione alla vita non fascista, Michel Foucault (Feltrinelli, 2025) scrive di un “fascismo che è in noi tutti, che abita il nostro spirito e la nostra condotta quotidiana, il fascismo che ci fa amare il potere, desiderare questa stessa cosa che ci domina e ci sfrutta”. Forse sono proprio Foucault, Deleuze e Guattari a andare più a fondo di tutti su quel vincolo inestricabile tra pulsione di vita e pulsione di morte. Nel linguaggio deleuziano-guattariano, il fascismo è eminentemente un movimento di territorializzazione: ovvero, codificando i flussi, definisce confini e configura identità. “Lo Stato fascista”, scrivono Deleuze e Guattari, “si è senza dubbio rivelato come il più fantastico tentativo di riterritorializzazione economica e politica”, nel contesto di un'economia capitalistica che invece tende alla deterritorializzazione, ovvero produce flussi globali, incontrollati, schizofrenici. In Millepiani, il fascismo viene letto come una reazione paranoica alla schizofrenia: ma non si tratta di un'opposizione polare, perché i due flussi si intersecano e si alimentano reciprocamente.

Il fascismo, in quanto macchina di morte, si radica nella pulsionalità della macchina desiderante che siamo: perciò la lotta al fascismo va condotta prima di tutto sul piano microfisico, micropolitico, “molecolare”. Deleuze e Guattari ci possono essere di grande aiuto, in questo: è solo creando nuovi concatenamenti che il desiderio può produrre nuovi possibili. Capire come farlo è il secondo passo, dopo aver compreso la natura di ciò che ci sta di fronte.

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Rocco Ronchi | Roberto Esposito nelle tenebre del fascismo
Maurizio Ciampa | Roberto Esposito e la lotta con l’Angelo
Felice Cimatti | Roberto Esposito: reinventare la vita

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