Diario americano / Il nostro inverno nucleare

21 Settembre 2020

Da settimane in New Mexico è una pioggia di uccelli migratori. Li raccolgono a migliaia lungo i sentieri, nei parcheggi, sulla soglia di casa. Rondini, merli, passeri, bluebirds – morti di fame e sfinimento. È una delle storie più amare e più politiche di questi giorni. Una tragedia naturale figlia dell’emergenza climatica che sta devastando gli Stati Uniti su un doppio fronte – il fuoco sulla West Coast e gli uragani a Sud. Il futuro dell’America si gioca qui, prima ancora che negli equilibri della Corte suprema stravolti dalla scomparsa di Ruth Bader Ginsburg. È la differenza fra la vita e la morte. L’acqua e la sete. Il raccolto e la carestia. 

La strage dei migratori racconta quest’alternativa. È stata la furia degli incendi a scacciarli dalle eterne rotte che dall’Alaska e dal Canada li conducono, lungo la costa, a svernare in centro e sud America. Costretti a sorvolare troppo a lungo territori poveri d’acqua e cibo, a metà strada sono stati stroncati dalla fatica e dall’inedia. A centinaia si sono schiantati al suolo in un ultimo spettacolare tuffo a testa nell’immensità del deserto di Chihuahua, uno dei luoghi più temuti dai migranti che tentano di passare negli Stati Uniti, uno dei più pericolosi. 

 

Moria di uccelli in New Mexico

 

È un tassello della catastrofe in atto – i morti a decine, i cieli incandescenti di Portland e San Francisco, le piogge di cenere, i fumi che ormai ammorbano anche la East Coast, la terra, gli alberi, le case e gli animali in fiamme. Non ci avrei fatto caso, se non avessi letto da poco Apeirogon (Random House, 463 pp.). Nel suo ultimo magnifico romanzo, dedicato al conflitto israelo-palestinese, Colum McCann tesse molti fili. Uno è il racconto della spettacolare migrazione che ogni anno porta centinaia di milioni di uccelli nel cielo d’Israele. Non è il genere di argomento che di solito mi appassiona, ma la scrittura di McCann mi inchioda alla pagina. Ne esco con un nuovo rispetto per i migratori – non avevo mai sospettato fossero macchine così intelligenti, potenti, sofisticate.

Le storie scavano misteriose vie nei nostri cuori. E così per giorni seguo sulle cronache locali lo strano caso del New Mexico. Una breve ricerca su internet mi rivela che le piogge di animali non sono rare come pensavo. Piovono pesci, piovono cavallette, piovono vermi. Piovono rane – come nell’ultima indimenticabile scena di Magnolia o nelle piaghe d’Egitto. Ogni pioggia è accompagnata da un misto di terrore e stupore. È l’ordine naturale che finisce gambe all’aria.

Nel caso dei migratori, più che una pioggia è spesso un malinconico sgocciolio. Molti si posano a terra e si aggirano storditi prima di lasciarsi morire. Quando le ragioni della moria si chiariscono, non riesco a scacciare la sensazione di una resa dei conti sempre più finale e per una volta la politica rispecchia la mia angoscia. 

 

Gli incendi hanno l’effetto di rilanciare l’emergenza climatica al centro della campagna elettorale. E con il clima si ripete quel che da mesi accade con la pandemia. Davanti all’evidenza, il Presidente nega. Minimizza, banalizza, parla d’altro. Metà del Paese applaude, l’altra metà si dispera.

In California, dove il fuoco sta divorando spazi immensi e le perdite sono incalcolabili, quando si evoca il climate change sorride con aria di sufficienza. “Farà più fresco”, assicura. “Vorrei che la scienza fosse d’accordo”, ribatte l’altro. “Non credo che la scienza sappia, in realtà”, è la risposta. Uno scambio che sembra uscire di peso da una sit-com, se non fosse che è vero. 

 

Non c’è da meravigliarsi se Scientific American ha appena dichiarato il suo supporto a Biden. È la prima volta in 175 anni di storia che la rivista, a cui ha collaborato anche Einstein, prende posizione nella sfida presidenziale. E la ragione è lapidaria. “Donald Trump ha gravemente danneggiato gli Stati Uniti e il suo popolo – perché respinge l’evidenza e la scienza". La chiave è nella parola respingere. Trump non nega la scienza, come spesso si dice: quando non gli fa comodo la rimanda al mittente, vedi la pandemia o il climate change. Più che altro, disprezza il suo metodo. Tutti quei trial, i numeri, le ipotesi – gli sembrano colossali perdite di tempo. La mancanza di certezze assolute stride con la sua visione del mondo e così la complessità di ogni conclusione scientifica o i suoi risvolti controintuitivi – ad esempio il fatto che per tenere sotto controllo gli incendi non basta chiamare i pompieri. È una magnifica ironia che il suo futuro politico sia legato (anche) a un vaccino – il risultato della corsa scientifica più impressionante della Storia. 

 

Il discorso della complessità non sfugge invece a quella metà di americani che indicano nel climate change una priorità assoluta. È un tema che sta a cuore soprattutto agli elettori fra i 18 e i 29 anni – la fascia più sfuggente e più corteggiata dalla politica. A seguire, l’ingiustizia razziale, la sanità, le armi da fuoco e l’immigrazione. I sondaggi mostrano che i giovani votano in prevalenza progressista. Ovviamente quando e se votano, perché portarli alle urne è un’impresa e il loro voto è spesso ostacolato da un nugolo di disposizioni.

Liquidarli con un’alzata di spalle, come spesso fa un certo establishment repubblicano, è un errore. L’americano medio ha 38 anni contro i 43 del cittadino europeo e i 47 dell’italiano. E i giovani, così spesso tacciati di scarsezza politica, hanno entusiasmo da vendere e una capacità di mobilitazione straordinaria. Sono stati loro a galvanizzare la campagna di Bernie Sanders. Black Lives Matter, che di equilibri ne sta scardinando parecchi, è composto in maggioranza da giovani sotto i 35 anni. 

Non è un mistero che l’intera area progressista sconti una certa delusione dopo la nomination di Biden e da tempo mi domando se i giovani andranno al voto numerosi come alle elezioni di midterm. Il no a Trump sarà una spinta sufficiente? Sarà una spinta sufficiente per chiunque, tanto più in tempo di pandemia? 

 

Il ritorno del clima sotto i riflettori ha il paradossale effetto di rassicurarmi. Biden stavolta attacca Trump senza mezze misure e snocciola la lunga (complessa) lista dei rimedi in cantiere – dall’energia pulita all’inquinamento da combustibili fossili. La sua task force ambientale ha da poco arruolato la stella progressista Alexandria Ocasio Cortez e Varshini Prakash del Sunrise movement. Il cambio di passo si sente e non è mai stato così necessario. 

L’emergenza climatica sta ridisegnando la faccia dell’America, la prospettiva di un’enorme migrazione climatica è sempre più imminente e gli incendi sulla West Coast sono un’ipoteca spaventosa sul futuro. 

Qui non è più questione di spegnere le fiamme o rastrellare il sottobosco, è tempo di emergenza. Nell’Antropocene il fuoco è diventato l’equivalente fisico della guerra nucleare, scrive su The Nation lo storico marxista Mike Davis (La città di quarzoIndagando sul futuro a Los Angeles, 2008). 

 

“Dopo gli incendi del Victoria Black Saturday all’inizio del 2009, gli scienziati australiani hanno calcolato che l’energia rilasciata equivaleva all’esplosione di 1500 bombe come quella di Hiroshima. Un’energia ancora più grande è stata prodotta dalle nuvole di fumo che per settimane si sono librate sul Nord della California. La tossica nebbia arancione che ha avvolto la Bay area per settimane è la nostra versione regionale dell’inverno nucleare”. 

La nostra immaginazione, conclude, non riesce a contenere la velocità o la portata della catastrofe. Se vi sembra esagerato, tenete conto che Mike Davis è quello che già quindici anni fa, dopo l’influenza aviaria, in The Monster Enters anticipava il rischio di una pandemia causata dal salto di specie dei virus. Come dire, l’uomo padroneggia il dono della profezia. 

 

Mentre scrivo, penso ai rondoni che ogni inverno tornano al Muro del Pianto a Gerusalemme. Fanno il nido fra gli antichi blocchi di pietra. Al tramonto alcuni s’infilano al volo nei minuscoli interstizi, “una meraviglia di velocità e agilità”, scrive Colum McCann. Altri prima aggiustano la mira, librandosi in aria, un’ala puntata verso terra e l’altra al cielo. Li chiamano i voli del vespro. 

Mi domando se il prossimo anno saranno lì o se, come in New Mexico, il loro volo si infrangerà a metà strada. Mancano 40 giorni alle elezioni americane e un nuovo anno ebraico è arrivato. Nelle stesse ore Ruth Bader Ginsburg, eroina di un’America migliore, ci ha lasciati e la campagna elettorale è già cambiata. Benvenuti nel 5781. “Termini l’anno con le sue maledizioni e inizi un anno di benedizioni”, mi scrive un amico da Roma. Non riesco a immaginare un augurio migliore in questo inverno nucleare. 

 

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