America senza notizie

29 Aprile 2024

C’è troppo da leggere, troppo da guardare ed è facile perdersi la madre di tutte le notizie: l’inarrestabile emorragia di quei giornali locali che sono stati in America la fonte principale di news e inchieste. Ogni settimana muoiono due pubblicazioni e mezza – quotidiani, settimanali o mensili, spesso in aree rurali, povere, decentrate. Metà delle contee è ormai orfana di fonti di informazione o ne ha soltanto una, di solito un settimanale, e la morìa non accenna a fermarsi. Milioni di persone non sanno più cosa succede nella loro comunità e nella regione circostante. La sola opzione sono i social, dove la pubblicità va a braccetto con le paranoie del complotto e i fake dell’intelligenza artificiale. È una perdita immensa in termini di cultura, democrazia, vita comunitaria. Una delle ragioni per cui il paese è sempre più polarizzato e il senso civico in netto declino, come mostra la grande partecipazione alle ultime presidenziali e l’afflusso risicato alle recenti elezioni locali, quelle che alla fine decidono il vivere quotidiano – la qualità dell’acqua, dell’aria e delle scuole. 

L’informazione è uno dei temi caldi di questi mesi elettorali e viste le bufale che quattro anni fa hanno scandito la sfida per la presidenza c’è poco da meravigliarsi. Tanto più che per la prima volta i contenuti generati da AI e lo strapotere dei social media minacciano di moltiplicare all’infinito la disinformazione e il caos sotto il sole. Quaranta stati sono già corsi ai ripari legiferando sull’uso di AI in campagna elettorale ma nessuno si fa illusioni: la materia è sfuggente e in evoluzione costante. Quanto ai media tradizionali, uno dei possibili contravveleni, sono avvitati in una crisi epocale da cui non si intravedono vie d’uscita. 

I giornali sono in affanno in tutto il mondo e gli Stati Uniti non fanno eccezione, se non per i numeri che sono spettacolari e la rapidità del cambiamento. I 24 mila giornali di inizio Novecento sono oggi seimila e molti lottano per sopravvivere. Neanche l’anno elettorale, in passato un periodo d’oro per i media, è riuscito a invertire il trend: la pubblicità stenta, come gli abbonamenti e il traffico online e i tagli nelle redazioni hanno raggiunto livelli stellari. 

Nel solo 2023 sono stati eliminati 21 mila 400 posti e la riduzione non ha risparmiato i grandi media – dal Los Angeles Times al Washington Post, da Sports Illustrated al National Geographic a Time. Media digitali come Buzzfeed, Jezebel e Gawker si preparano a chiudere e Vice Media, il colosso digitale che sembrava aver inventato la formula del successo, sta per fare bancarotta. 

“Il giornalismo americano si dirige verso l’estinzione?” si domandava a fine gennaio Paul Farhi sull’Atlantic. “I media sono pronti ad affrontare un evento a livello di estinzione?”, rilanciava qualche settimana dopo Clare Malone sul New Yorker. Ad accompagnare il testo, un’illustrazione che non lascia dubbi: in una notte tempestosa un meteorite infuocato sta per schiantarsi su un pugno di dinosauri-media.

In questo clima da apocalisse, la morìa dei giornali locali può sembrare una questione minore ma è un passaggio culturale decisivo. I fogli locali vantano in America una lunga e gloriosa tradizione, molti scrittori e reporter di fama si sono fatti le ossa nelle periferie del Paese e fino a qualche anno fa l’85 per cento delle notizie riprese dai media nazionali era stato prima pubblicato a livello locale. 

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illustrazione di Ilya Milstein.

Questione di numeri, questione di sensibilità. La stampa locale impiegava il doppio dei giornalisti di tutti gli altri media, la conoscenza del territorio era capillare e includeva comunità marginali ignorate da radio e tv. Dai quotidiani locali sono così partite storie e inchieste formidabili. Nel 2020 è stato il Miami Herald a riportare alla ribalta gli abusi del finanziere Jeffrey Epstein e un anno dopo è stato il Toledo Blade, in Ohio, a denunciare i crimini di guerra contro i civili commessi in Vietnam dell’unità di élite Tiger Force. In base all’ultima ricerca del Medill Institute della Northwestern University, fino al 2015 quasi metà dei premi Pulitzer era assegnato a giornali locali.

Negli ultimi dieci anni, la crisi ha però ridisegnato in maniera brutale quest’assetto: la base locale su cui poggiava la piramide del giornalismo americano si è ristretta ed è diventata meno indipendente. Oltre metà dei media locali oggi appartiene a dieci grandi catene, private o collegate a fondi di investimento. In nome di economie di scala, giornali considerati minori chiudono o sono accorpati, sezioni una volta indipendenti sono prodotte a livello centrale e le redazioni che sopravvivono sono spesso così minuscole da meritare l’appellativo di “ghost newspapers”, giornali fantasma. In questa situazione, un’informazione originale o di qualità per il territorio di riferimento non è più un’alternativa ed è il trionfo dei fogli-fotocopia che da Biloxi a Minneapolis raccontano la stessa storia.

È un cortocircuito nel flusso dell’informazione che solleva interrogativi cruciali sui meccanismi che modellano la narrativa corrente e l’immaginario collettivo. A dominare la scena sono i giganti nazionali ma quale America raccontano le loro pagine? In base a una stima del Pew Research Center, un redattore su cinque vive però a New York, Los Angeles o Washington DC per la semplice ragione che lì si trovano le redazioni centrali del New York Times, Wall Street Journal, USA Today e Washington Post e quelle sono le coordinate della politica, del cinema, della cultura.

Gli Stati Uniti non si esauriscono però nel triangolo dorato della stampa. Sono un territorio sterminato e contengono mondi di senso – comunità, religioni e lingue diverse, paesaggi opposti, identità radicate nel profondo dei luoghi e della storia. Venute meno le fonti locali, fino a che punto redazioni basate nelle grandi metropoli possono restituire il mosaico autentico di queste sensibilità? E fino a che punto può essere questo il compito di un giornale nazionale?

A queste condizioni, l’immagine si frammenta in mille schegge e la complessità del paese si riduce a una carrellata di storie che sembrano tutte uguali, a un pugno di luoghi comuni, una curiosità o una proiezione dei propri desideri. E poiché ogni storia, che arrivi dal New York Times o dal Wall Street Journal, è replicata e ricucita all’infinito dal web e dalla stampa straniera il cortocircuito si mostra in tutta la sua portata globale. Per una conferma, basta tornare indietro di pochi anni. Nel 2016 la vittoria di Trump ha spiazzato i media liberal di tutto il mondo mentre bastava farsi un giro in macchina, scambiare quattro chiacchiere al bar o ascoltare le radio fm per realizzare l’aria che tirava nella pancia dell’America.

Un discorso analogo vale per le reazioni stupefatte alla mancata valanga democratica nel 2020 o l’incredulità davanti alla persistenza di Trump che, malgrado i guai giudiziari e le sanzioni da capogiro, si ripresenta lì dove si era detto che mai più si sarebbe palesato, ovvero alle presidenziali. 

Non è questione di prevedere il futuro ma di avere il polso del paese reale. Se non che la stessa ambizione di raccontare l’America viaggia ormai controtendenza. Il tono dei media è cambiato. I conformismi si sprecano, come conferma la crisi di NPR – National Public Radio, le opinioni prevalgono sui fatti e la priorità è intrattenere. Time ha incoronato Taylor Swift persona dell’anno, prima entertainer nella storia del giornale a essere nominata, e il numero è andato a ruba (il che non ha impedito ulteriori tagli in redazione); la recente incursione di Beyoncé nella musica country ha suscitato un profluvio di articoli degni di miglior causa e le imprese commerciali di Meghan e Harry non smettono di tenere banco. Quanto al New York Times, che continua a macinare abbonamenti, non è più solo una straordinaria fonte di reportage e approfondimenti ma un enorme sito dedicato al lifestyle. Salute, ricette, sentimenti, recensioni di prodotti, giochi – c’è di tutto e della migliore qualità.

È la fine di un’epoca e la storia di Ryan Kelly è l’epitaffio perfetto. Il 12 agosto 2017, quando centinaia di suprematisti bianchi, armati e in tenuta paramilitare, calano su Charlottesville, Virginia, Kelly lavora come fotoreporter per il giornale della città, il Daily Progress. È il giorno della marcia Unite the Right. Gli estremisti di destra manifestano contro la rimozione della statua del generale confederato Robert Lee e la violenza razziale esplode. Quel pomeriggio l’obiettivo di Ryan Kelly cattura l’attimo in cui una macchina piomba su un gruppo di manifestanti antirazzisti e la giovane Heather Heyer è uccisa. 

La foto consegna al mondo e alla Storia il caos di quei momenti. È nitida, cruda, devastante. Nel mare di immagini confuse e selfie che narrano quella giornata è un gioiello. Il lavoro di un fotoreporter esperto che sa quello che vuole e lo sa fare – il lavoro di un professionista che conosce a menadito la città e per ore insegue lo scatto decisivo. La fotografia vince il Pulitzer 2018 e diventa il simbolo del giorno in cui l’estrema destra americana rialza la testa. 

Per Kelly sembra schiudersi una brillante carriera nel mondo del giornalismo. Se non che il 12 agosto è stato il suo ultimo giorno di lavoro a Charlottesville. Dopo quattro anni ha deciso di mollare – troppi pochi soldi, turni intollerabili, troppo lavoro. Oggi lavora in un birrificio, dove si occupa dei social media. È una scelta che contiene lo spirito dei tempi “Nell’ultimo decennio il fotogiornalismo è stato schiacciato ovunque”, spiega in un’intervista. “Nella mia carriera ho conosciuto solo i tempi duri del giornalismo”. Come lui, migliaia di giornalisti e fotografi, negli Stati Uniti come ovunque. È il requiem per il mestiere più bello del mondo e l’eclissi di una speranza. Quante storie non saranno mai raccontate? Quante voci sono destinate a restare inascoltate? E dove stiamo andando, noi con la testa nel sacco?

In copertina, illustrazione di Ilya Milstein.

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