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Buoni e giusti / Shopping online

20 Novembre 2017

"La cliente potrà sintonizzarsi su vari negozi. La sua tessera di credito sarà automaticamente ripresa dalla televisione. Le saranno mostrate le merci con tutti i loro colori fedelmente trasmessi. La distanza non sarà più un problema in quanto entro la fine del secolo il cliente riuscirà a mettersi direttamente in contatto televisivo con chi vorrà, indipendentemente dal numero di miglia che lo separeranno da esso". 

Questo stralcio di un articolo del New York Times del 1963, citato da Marshall McLuhan in un capitolo dimenticato e interessantissimo del suo Understanding Media, la dice lunga sul potere di fascinazione che l'idea di fare acquisti a distanza ha potuto riscuotere strada facendo fino all'avvento di Internet e alla realizzazione di cotanto sogno. Salvo scoprire che, una volta realizzato – lo aveva già intuito lo stesso McLuhan – difficilmente il senso profondo di una tale pratica sarebbe rimasto lo stesso: "invece di pensare a fare la spesa per televisione, dovremmo renderci conto che il video-telefono segnerà la fine dell'andare a fare spese e anche la fine del lavoro come lo intendiamo oggi" (ibidem).

Con il privilegio di guardare al fenomeno con il senno di poi, vale la pena, allora, riflettere su cosa sia effettivamente cambiato nel frattempo. 

 

È facile riconoscere alcune note vintage nel brano riportato: lo spudorato sessismo per cui fare la spesa viene considerata attività eminentemente femminile, l'ingenuità con cui si naturalizza la centralità della televisione nel futuro prossimo venturo, la riduzione della portata della faccenda a un problema tecnologico (fedeltà dei colori) e così via. Di questi problemi proprio perché sono evidenti non ci occuperemo. Seguendo l'indicazione di McLuhan, piuttosto, saremo interessati a comprendere alcune trasformazioni epocali e meno ovvie, le trasformazioni che hanno cambiato il senso del nostro modo di fare spese come lo intendevamo fino a ieri

 

Molta letteratura sull'argomento shopping online (ultimo il bel lavoro di Barone contenuto nel libro su Google che ho appena recensito) si è concentrata a elogiare gli esperimenti di materializzazione dei grandi player dell'industria dell'immateriale. Temporary store, pop-up, musei, eventi, festival costituirebbero secondo molti analisti, un modo vincente per rispondere a una mancanza di fisicità che impedirebbe a questi venditori di legittimarsi in pieno in quanto tali. Parole chiave come esperienza, narrazione, identità marcano questo genere di letteratura, figlia del marketing æsthetics degli anni ‘90: ciò che caratterizza davvero il momento del consumo è lo spazio fisico, la marchiatura del corpo del cliente celebrata dalla macchina semiotica del punto vendita, sorta di luogo sacro (cattedrale!) di una nuova (ma, in vero, anche abbastanza antica) religione del consumo. Ho fatto la tesi di dottorato sul tema: dalla marca all'esperienza si intitolava, per l'appunto. Ferma restando la validità di tali riflessioni (e della mia tesi di dottorato!), mi sembra che quando esse si rivolgano al mondo digitale finiscano per non cogliere la vera posta in gioco della trasformazione in atto, cadendo nel medesimo abbaglio dell'articolo con cui abbiamo aperto, che, involontariamente, finiva per proiettare nel futuro, naturalizzandolo, il mondo piccolo borghese degli anni ‘60, fatto di massaie e liste della spesa, per fortuna, invece, archiviato al giorno d'oggi.

 

I miliardi di transazioni che quotidianamente avvengono in rete, senza l'ausilio di alcuna cerimonia fisica dimostrano che questa materializzazione può essere degradata a mera eccezione, diventa accessoria, non rappresenti più l'anima del commercio. 

Negli anni ‘50, l'economista e psicologo americano Herbert A. Simon, padre della moderna teoria delle decisioni, aveva lanciato l'idea che, nei comportamenti delle persone di fronte a problemi complessi (di information overload diremmo oggi), si potessero identificare due forme di razionalità in competizione. Da una parte, ci sarebbe un'attitudine a massimizzare i vantaggi derivanti da una scelta oculata e razionale e, dall'altra, un'opposta propensione al risparmio cognitivo (indicata col neologismo satisfice, da lui ideato a partire dalla fusione dei termini inglesi satisfy – soddisfazione – e suffice – sufficienza), di chi si accontenta di una soddisfazione accettabile al prezzo di uno sforzo ridotto per ottenerla. Il successo della teoria di Simon (gli valse il Nobel!) fu legato proprio al fatto di aver messo in evidenza che fare la scelta migliore, non di rado, comporti dei costi (cognitivi, economici) maggiori dei vantaggi procurati. 

Ci vuol poco a riconoscere, in questa dialettica, due attitudini psicologiche, maximizers e satisficers, l'una ossessionata dal massimo vantaggio a prescindere da ogni valutazione sullo sforzo necessario a raggiungerlo, l'altra, invece, incline ad accontentarsi della scelta più ragionevole, in funzione della propria possibilità di dedicarvi energie. 

 

Una rilettura semiotica di questa tipologia non può che sottolineare quanto di siffatti tipi umani, intesi come forme pure, non possa darsi traccia: ognuno di noi è, infatti, maximizer o, al contrario, satisficer a seconda dei casi, delle storie in cui è imbrigliato, dei propri obiettivi, della propria identità. Ogni compratore si comporterà, così, come maximizer, nei confronti di alcuni prodotti, ai quali dedicherà ogni energia pur di poterli ottenere ed esibirli come simulacro identitario. Lo stesso compratore, si comporterà come satisficer, nei confronti di altri prodotti, ai quali non attribuirà alcuna valenza identitaria, eventualmente procedendo al loro acquisto, seguendo la rotta del risparmio cognitivo: l'uno vale l'altro. 

Nello scenario del commercio tradizionale, la limitatezza delle opzioni di scelta ha storicamente scoraggiato comportamenti da maximizer. Non si poteva, di certo, fare troppo gli schizzinosi, in un contesto governato dalle disponibilità dei pochi punti vendita fisicamente raggiungibili in città. Un divertente passaggio di Heartburn di Nora Ephron metteva scherzosamente in relazione la sua scelta di lasciare Washington con il desiderio di mettere in atto comportamenti d'acquisto fuori dagli schemi: come vivere in una città al cui mercato non si possa trovare l'acetosella? Per una maximizer (alto mantenimento!) del suo calibro, decisamente meglio New York.  

 

Ciò che è cambiato con Internet e con lo shopping online è proprio la possibilità di espandere all'infinito la ricerca del prodotto migliore, ovvero quello che meglio si attaglia ai propri desideri, al proprio simulacro, al proprio avatar da esporre sui social. Il solo stagliarsi di un tale orizzonte elettronico ci ha trasformati tutti in maximizer a basso costo, cercatori del prodotto perfetto, hipster costantemente impegnati a trasformare ogni occasione di consumo in simulacro identitario. Dai generi alimentari alla tecnologia, dalla moda al fai da te, fino a piante, fiori, spezie, l'acquisto di un qualsiasi bene di consumo diventa "risultato della ricerca", viene passato al vaglio di una critica severa e impegnativa, di regola operata ancora grazie alla mediazione della rete (blog, forum, canali tematici, commenti in calce alle pagine dei prodotti in vendita sui siti di e-commerce, instagram, snapchat, tripadvisor e chi più ne ha più ne metta). Ci troviamo a passare, magari per lavoro, da una città che non conosciamo?

 

 

Con giorni di anticipo, cominciamo a scandagliare la rete, alla ricerca del ristorante perfetto, della trattoria in cui il piatto locale venga servito al top. Vogliamo il massimo e, pertanto, ci impegniamo a studiare, ricercare, comparare. Aiutati, come si diceva, dalla rete che non fa altro che sfornare liste di best of: il migliore cannolo di Palermo, la bagna cauda come Dio comanda, la migliore fiorentina di Firenze. Si capisce quanto questo gioco al rialzo, portato avanti dai forzati della massimizzazione, corra il rischio di risultare bizzarro agli occhi di chi si voglia fermare a riflettere sul suo valore essenzialmente retorico. In preda a un impeto di sano realismo, possiamo sempre prendere atto dell'insensatezza di fare cose come andare alla ricerca della migliore fiorentina di Firenze. A dispetto delle mille classifiche proposte da sedicenti giornali culinari, la migliore fiorentina, a Firenze, lo ricorda il mio amico chef Jean-Michel Carasso, semplicemente non esiste: la sua preparazione è tanto semplice quanto patrimonio condiviso dei cucinieri locali; la sanno, insomma, cucinare tutti molto bene. Ciò che davvero conta è che, però, in questa ricerca spasmodica (e a tratti – come si è detto – perfino ridicola) il commercio ne riesce radicalmente, e forse anche felicemente, trasformato, costituendosi come processo ibrido a cavallo fra reale e virtuale. Dovremo tornarci.

 

Un altro aspetto fondamentale che la virtualizzazione dello shopping porta con sé è quello di far emergere dall'indeterminato e dall'insensatezza perfino la più banale delle commodity. Al giorno d'oggi, nessun acquisto può davvero essere ritenuto insignificante. Prendiamo lo zucchero. Siamo tutti nati in un mondo che pensava lo zucchero come un bene indistinto. Dobbiamo, adesso, fare i conti con le mille qualità di dolcificanti inventati dalla rete: zucchero di palma da cocco, Mascobado, nettare d'agave non avrebbero avuto ragion d'essere prima del web 2.0 e delle chiacchiere in rete di esperti di cucina e blogger culinari. Lo stesso dicasi per il sale: rosa, nero, grigio, dell'Himalaya o del Mar Morto, anch'essi non avrebbero avuto senso prima della rete. Lo stesso (ancora!) dicasi per qualsiasi altro prodotto possa venirvi in mente. 

 

Di fronte a sommovimenti di tale portata, si capisce l'inadeguatezza di qualsiasi negozio fisico che scelga di combattere lo shopping online sul suo stesso terreno, ovvero pensandosi come alternativa sostenibile a esso. Non si può, nel 2017, pensare di tenere un negozio fisico di qualsiasi bene di consumo soltanto offline, senza fare i conti con la concorrenza della rete: qualsiasi prodotto in vendita in qualsiasi negozio fisico si può, di regola, facilmente trovare a un prezzo ridotto e con tempi di consegna velocissimi ed altrettanto economici. Ecco perché la maggior parte dei nostri acquisti si sposteranno inevitabilmente in rete, permettendoci di risparmiare e, lo si è visto, di esercitare l'antica arte borghese della critica: tanto più acquisteremo online, tanto più adotteremo scelte meditate, precedute da prolungate e approfondite ricerche, volte a riconoscere, posizionare, motivare, dire e ridire l'ennesimo acquisto. A completare il quadro, contribuisce anche la sharing economy, che, forse ancora più radicalmente, pensa le transazioni dentro un quadro di relazioni informali, regolato dall'amministrazione della fiducia e orientato alla costituzione di comunità di consumatori responsabili dei loro consumi.

 

Lungi dall'essere alienanti, le nuove forme di shopping mediate dalla rete producono, così, nuove forme di socialità, incessanti discussioni su blog e gruppi di facebook, con tanto di inverosimili dimostrazioni della bontà dei più balzani prodotti attraverso apparati fotografici e video-recensioni. Da qualche tempo, ho messo like a Le sciaquette, gruppo di facebook, dedicato alla pulizia della casa che può contare su un numero di iscritti impressionante (161.000 circa). Come per Hegel (si parva licet) la silhouette di Napoleone a cavallo, sono più che convinto che esso rappresenti lo zeitgeist dei nostri tempi. Il settore merceologico che, più di ogni altro, ha rappresentato la massificazione della società industriale, panacea di ogni pubblicitario degno di questo nome abdica al brusio della rete, che tutto compara e tutto discute. Non c'è detersivo, sapone, utensile per la pulizia che non sia passato al vaglio del gruppo e selezionato in base alla sua capacità di pulire questa o quell'altra superficie. Procter&Gamble farebbe bene a prendere appunti e tributare la dovuta ammirazione a un gruppo di tal fatta, che testimonia, non foss'altro che per il suo valore simbolico, l'avvenuto traghettamento nella grande conversazione dell'ultimo avamposto di resistenza della società di massa e del suo coté di comunicazione unidirezionale. 

 

A partire dalla presa d'atto di questa trasformazione epocale del modo di fare shopping e delle nostre vite di venditori e compratori nell'arena sociale, si capisce quanto il ruolo del negozio fisico sia irrimediabilmente cambiato. Se è inoppugnabile che lo shopping online stia progressivamente prendendo il sopravvento su ogni ambito del retail (prossima frontiera: i freschi) e che, quindi, dal punto di vista di un'antistorica battaglia per la difesa del commercio tradizionale contro i giganti della vendita online la battaglia è ormai persa, il punto vendita può ritrovare un nuovo ruolo. Gli esperimenti più interessanti di evoluzione del settore sono rappresentati dagli sforzi di costituire vendita online e offline come un continuum. Esempi: trovo la giacca online, la provo in negozio, la compro online allo stesso prezzo del negozio o anche a meno. Trovo un oggetto online, lo compro sempre online e me lo faccio recapitare in negozio, approfittando del momento della consegna per farci un giro e comprare altri oggetti che non avevo previsto di comprare e così via. Ciò che conta è che non si pretenda che l'acquirente faccia a meno di questo nuovo piacere della comparazione, della conversazione intorno al suo acquisto, in nome di un rimpianto paternalismo del negoziante. In fondo, la grande conversazione della rete può essere facilmente riconosciuta proprio nel grande movimento di liberazione del cliente dalla mediazione interessata del negoziante, già iniziato, nei grandi boulevard ottocenteschi, con le vetrine e i grandi magazzini (cfr. Codeluppi). 

 

Ci sono poi alcuni malintesi che possono essere sfatati. Gli esperimenti di "consegna a domicilio" delle merci acquistate online dal sito del supermercato di turno (quando, ancora una volta, non da Amazon stessa), suonano di tecnoentusiasmo immotivato. In fondo, la consegna a domicilio non ha niente di innovativo, esiste da quando esiste il commercio e continua a produrre, anche quando esercitata attraverso l'ultima diavoleria di turno, il medesimo sottoproletariato di fattorini, che pur ricevendo le commissioni dalla rete, finiscono per essere sottopagati e sfruttati come i loro colleghi dell'era ante-Internet. Sicuramente c'è uno spazio molto grande per questo mercato, che, però, sottovaluta, a mio parere, un ultimo aspetto del problema. 

 

Se è vero che "andare" a far compere ha perso ogni carattere di necessità, essendo lo shopping online perfettamente in grado di sostituire ogni acquisto in un luogo fisico, è la passeggiata, il piacere naturale e non necessario di andare in giro senza un obiettivo preciso che non si quello di svagarsi a rappresentare un'occasione di riscatto. Lo spazio della passeggiata, sia essa lungo le vie del centro commerciale (in cui si va anche solo per bighellonare o per prendere una boccata d'aria, con la scusa di "fare la spesa" dopo il lavoro), il centro storico pedonalizzato o ancora l'aeroporto, mettono in secondo piano le velleità identitarie in funzione di un bene superiore, quello di riappropriarsi della propria fisicità, insieme agli altri. Sembrerebbe questo il segreto della felicità a detta dello psicologo Barry Schwartz, autore del fortunato volume The paradox of choice (2004): uscire dal ricatto della massimizzazione e rivolgersi al mondo con lo spirito puro di chi non dimentica le cose semplici della vita, il piacere di andare a piedi nudi nel parco, nonostante le mille alternative che la rete mette a disposizione.

Mi piace chiudere con una lista dei miei ultimi dieci acquisti online. Cose stranissime che mai avrei potuto comprare nei negozi vicini che non tralascio, comunque, di frequentare, ogniqualvolta posso prendermi un po' di tempo libero da trascorrere insieme alle persone più care:

 

1) Impermeabile Stutterheim, comprato, dopo lunghi tentennamenti, sul sito del brand (lo avevo provato da Antonia a Milano, durante i giorni di presentazione del libro su Peppa Pig).

2) Semi di aneto. Utili per fare la marinata dei cetriolini come si usa nel Lower East Side. (Ebay)

3) Semi di cetriolini "Boston", perfetti per il mio progetto di cui all'acquisto 2. (Ebay)

4) 10 Tonki al prezzo di 5. Si tratta di cornicette di cartone stampate con le fotografie selezionate dal proprio account di Instagram. Li ho comprati sul loro sito, in sconto per i cinque anni della start-up. 

5) Stringhe di pelle bianche per le mie scarpe da marinaretto. (Ebay) Prima era facile andare alla merceria e dotarsene. Adesso, purtroppo, le mercerie si sono estinte.

6) Calendario di Tintin per l'anno che verrà (Tintin.com).

7) Sandali Camper da un milione di dollari, provati in negozio e comprati a mezzo milione di dollari online.

8) Una piantina di gelsomino Granduca di Toscana, il più profumato di tutti (maximizer!). (Difficile da trovare a un prezzo accettabile, alla fine l'ho preso sullo store online della fioreria Fleurs.

9) Future sex di Emily Witt, comprato grazie alla bella recensione di Anita Romanello (Ibs.it). Mi è piaciuto, grazie. 

10) Il corniolo fiorito di Nora Ephron (Ebay, arrivato dalla Germania). 

 

Se vi va, lasciate nei commenti la vostra lista. 

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