Carino e gentrificato

13 Febbraio 2023

In ogni città di una certa dimensione ci sono aree degradate. Popolate da lavoratori a basso reddito e bassa scolarità, spesso appartenenti a minoranze socialmente emarginate. Queste aree sono spesso architettonicamente fatiscenti: i loro abitanti, impegnati a mettere insieme il pranzo con la cena, non hanno di regola la capacità economica di apportarvi la necessaria manutenzione e, d’altra parte, quando pure la possedessero, i loro interventi si rivelerebbero esteticamente respingenti, lontani dai canoni di bellezza generalmente accettati.

Queste aree sono anche pericolose, popolate da devianti e senza tetto che per tirare avanti non disdegnano di spacciare droga o di praticare la prostituzione o ancora di molestare passanti in cerca di qualche spicciolo. Non stupisce come questi quartieri proprio per la loro problematicità assurgano spesso a spauracchio cittadino, luoghi di corruzione, per definizione irredimibili, da cui scappare il prima possibile per la propria incolumità e salvezza.

Del resto, perfino Dio, trovandosi ad avere a che fare con luoghi di questo genere, getta la spugna, optando, infine, per la soluzione finale: distruggere Gomorra per salvare il collettivo. Ma Dio non è il solo a propendere per le vie brevi, se è vero che la storia degli slums in Occidente, almeno dalla seconda guerra mondiale in poi, è costellata da progetti di “risanamento” che, con le migliori intenzioni, dalle aree più avanzate della città programmano la demolizione di interi quartieri, non preoccupandosi di espellere coloro che avessero avuto la sfortuna di viverci a trasferirsi altrove, posto che ogni altrove, nella visione di questi progettisti, non possa che apparire migliore del posto in cui vivono.

Distruggere per salvare e purificare, l’antropologa Mary Douglas avrebbe avuto qualcosa da dire nel merito di un tale meccanismo. Dai famigerati interventi di rinnovamento urbano prospettati a New York da Robert Moses alla fine degli anni quaranta, fino all’abbattimento delle vele di Scampia, la storia delle nostre città è costellata da interventi orientati a questa paradossale sindrome dell’“io ti salverò” rivolta a quei stessi luoghi che a suon di ruspa si vorrebbero radere al suolo. 

Di un tale modo di procedere, già dagli anni 50, si comincia a elaborare una critica. Fra le altre, emerge la voce di una giornalista, destinata a diventare, pur non essendo urbanista o forse proprio per il fatto di non esserlo, uno dei pensatori più influenti del Novecento. Si tratta di Jane Jacobs, residente in un quartiere interessato dai progetti di risanamento prospettati da Robert Moses, il Greenwich Village, che a quei tempi, a molti poteva apparire come uno slum da radere al suolo. Ed è a partire da questo quartiere che Jacobs elabora una vera e propria teoria della città che oppone polemicamente a quella disegnata dagli urbanisti come Robert Moses, ispirati al modernismo funzionalista di Le Corbusier. Visti dalla prospettiva sbilenca del Greenwich Village, i palazzoni tutti uguali promossi dall’architettura d’avanguardia del tempo dovevano apparire di una noia mortale. Essi, replicati su griglie geometriche sterminate, finivano col trasformare le strade in prospettive i cui limiti esorbitavano l’effettiva capacità dei passanti di orientarvisi, dando vita a fitti reticoli di viali impossibili da distinguere l’uno dall’altro. 

In queste nuove zone risanate, i giardini e i parchi urbani abbondavano. Ogni palazzone aveva la sua area verde, in modo che, sulla carta del progetto, essi apparissero dotati di tutti i comfort. Solo che, ironia della sorte, questi stessi palazzoni, una volta consegnati alla cittadinanza, finivano in breve tempo con il riprodurre le medesime dinamiche di degrado come risposta alle quali erano stati costruiti. Nel suo libro più importante, Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, spiega passo passo come ciò potesse accadere, indicando nella filosofia urbana che animava questi interventi il vero problema. In modo che prendere in considerazione le critiche mosse da Jane Jacobs significasse porre un problema di massimi sistemi, tornando a chiedersi, non senza la giusta dose di radicalità, cosa fosse una città. 

E cosa è una città? Jacobs ha gioco facile a smascherare la pelosità dell’approccio modernista: come potevano sperare di migliorare la sicurezza urbana i nuovi quartieri dormitorio progettati secondo i precetti dello zoning (la politica urbanistica che associa in maniera biunivoca ogni area a una qualche funzione preminente) in cui non si vedeva, per le strade, volare una mosca? Quanta forza pubblica sarebbe mai stata necessaria per rendere sicuri questi giganteschi quartieri caratterizzati dall’essere bui e deserti? E quanta, di quella disponibile, si sarebbe, a conti fatti, di là delle dichiarazioni di facciata, finiti per impiegare, visti i costi economici (per non parlare di quelli simbolici) del presidio poliziesco? Che dire, poi, dei parchi urbani, tanto carini nei plastici dei lotti progettati dagli architetti, ma una volta realizzati, anch’essi destinati a rimanere pericolosamente bui e deserti? Ci vuol poco a Jane Jacobs per mettere in luce i limiti di una tale visione allo stesso tempo indicando la sua alternativa.

Che somiglia al miracolo del Greenwich Village. 

Intanto al Village, la pianta è irregolare, fatta di strade piccole e intricate, ricolme di landmark, in modo che ognuno di questi angoli diventi riconoscibile, caratteristico per chi ci passa e familiare per chi ci vive. D’altra parte, gli edifici del quartiere sono diversi l’uno dall’altro, ognuno ha un suo passato, ricorda una sua storia che mal si concilia con l’uniformità promossa dal design modernista. Si tratta di edifici di massimo sei piani piuttosto malconci, che richiamano alla mente la vecchia città, pregi e difetti, abitati da vecchi newyorkesi a basso reddito ma anche da nuovi arrivati soprattutto artisti, omosessuali, attivisti. Che pur essendo squattrinati possono permettersi di viverci e di mettere su bottega grazie al basso costo degli affitti.

Queste persone percorrono a piedi le strade del Village fra localini e teatri, ristoranti e jazz bar, in tal modo rendendolo un posto sicuro. Perché, osserva Jane Jacobs, la sicurezza può essere comprata sul mercato a caro prezzo (ovvero piazzando un poliziotto a ogni angolo di strada) oppure distribuita fra le tante persone che frequentano un determinato posto. Se si sceglie questa seconda opzione il medesimo costo della sicurezza si abbatte drasticamente, grazie al fatto che si mettono in moto due logiche concomitanti ma opposte. Da una parte, intervengono i residenti che, grazie alla particolare configurazione urbanistica appena descritta, stanno in una particolare relazione sociale. Essi non sono una “comunità” nel senso intenso del termine, non condividono più di tanto una visione del mondo o un orientamento politico ma si fidano l’uno dell’altro. In modo tale che, pur non essendo interessati ad approfondire la loro relazione, essi possano dire di condividere abbastanza da sentirsi più che tranquilli a lasciarsi reciprocamente le chiavi di casa durante i periodi di assenza.

Grazie a questa rete informale, i figli di questi residenti possono muoversi fra le stradine del quartiere senza paura: ci sarà sempre il barbiere o il macellaio a buttare l’occhio in strada, sorvegliandola discretamente, affinché non succeda nulla di preoccupante. Dall’altra parte, ci sono le strade piene di passanti casuali, a tutti gli effetti estranei. Una tale presenza bilancia il presidio dei residenti, aumentando ancora il livello di sicurezza: chi si sognerebbe di commettere un qualche crimine di fronte a una platea di sconosciuti di cui non si può prevedere la reazione? Riempire le strade di passanti – è la versione di Jacobs contro la tristezza dei blocks socialisteggianti – un modo incredibilmente più economico di promuovere la sicurezza delle grandi metropoli americane. 

Rimane il problema di come fare a riempirle. Capire come farlo, lo si è ricordato, chiede di interrogarsi sui massimi sistemi: che cosa è una città? Jane Jacobs offre la propria definizione: una città è un luogo molto speciale il cui senso profondo si spiega facendo appello alla sua imprevedibilità. Che, a sua volta, dipende dal fatto che i suoi spazi vengano battuti da persone diverse, eppure obbligate a convivere e quindi a incontrarsi e a scontrarsi lungo le sue traiettorie. Il suo fascino dipende dal fatto che passando attraverso i suoi spazi possa sempre accadere qualcosa di inaspettato che spezzi il torpore dell’habitude, secondo la regola d’oro che se so già cosa mi capiterà lungo la mia passeggiata non esco nemmeno di casa. Si capisce che tale imprevedibilità, specifico urbano, sia anche una questione di progettazione, perché si tratta di una proprietà volatile che richiede di essere preservata, difesa innanzitutto dalla sua stessa propensione al decadimento.

Cosa succede quando un luogo diventa interessante, perché complesso e imprevedibile? Immediatamente, attira le attenzioni di un mondo che per definizione è interessato a lucrare su quella stessa vitalità. Jane Jacobs fa l’esempio delle banche, che, una volta intercettato il ruolo di attrattore di un dato luogo complesso, al fine di sfruttarlo commercialmente, di regola acquistano locali per svariati metri quadri in quello stesso luogo, occupandoli con i propri uffici. Una tale mossa ha come effetto non voluto quello di abbassare la complessità del luogo, se è vero che la banca del nostro esempio potrà occupare cinque o sei vetrine di seguito di una strada, che prima erano occupate da cinque o sei attività diverse: la strada grazie a un tale intervento diventa più uniforme, omogenea, più prevedibile. Un tale meccanismo, moltiplicato per i tanti attori danarosi che ambiscono a un posto al sole in città, finisce con lo spegnere la sua stessa vitalità. 

Un ragionamento non dissimile può essere portato avanti a proposito degli insediamenti abitativi: se il fascino di una città attrae un cospicuo numero di soggetti con un potere d’acquisto omogeneo, gusti e visioni del mondo troppo simili, ciò finisce per spegnere la vitalità di quella zona, che viene dalla forzata convivenza di persone con poteri d’acquisto, obiettivi e stili di vita diversi. Se, allora, è fondamentale assumere un atteggiamento urbanistico rispettoso della storia e della tradizione di un determinato luogo, cercando di preservarlo il più possibile grazie anche a delle ristrutturazioni che ne rilancino nel tempo il valore d’uso, d’altra parte, bisogna fare molta attenzione a che le buone intenzioni di chi sceglie di vivere in un quartiere “alla moda”, adottando un atteggiamento gentile di riguardo nei confronti della sua specificità, non finiscano per costituire una minaccia alla sopravvivenza di quella stessa specificità. Ristrutturare, infatti, non è una pratica neutra, nella misura in cui influisce sul valore dell’immobile, alzando l’asticella della sua accessibilità.

Vivere in un immobile ristrutturato costa di più di quanto non costasse viverci prima degli interventi, ciò implica che i cittadini che non possono permettersi di alzare il prezzo della sua pigione saranno costretti a traslocare. Con il paradosso che più si ristruttura e si “anima” la vita di un quartiere, rendendolo un punto di riferimento urbano, più si contribuisce alla sua omologazione, fino al punto in cui esso non finisca per apparire come una fotografia sbiadita – “decorosa” – di quello che era e rappresentava. È quello che è successo al Village.

Basta recarvisi adesso: carino e gentrificato, pieno di landmarks del colossale ruolo culturale che un tempo svolse per la città e che da tempo non svolge più. È così che la vita delle grandi metropoli americane e adesso sempre più delle grandi metropoli globali assomiglia a quella di piccoli fuochi (la metafora è della stessa Jane Jacobs): è fisiologico che essi diffondano nell’ambiente la loro luce fino a consumarsi, in modo che si possa aggiungere alla definizione di cosa sia una città un ulteriore corollario: la città è viva se, quando un fuoco si spegne, un qualche altro fuoco, da qualche altra parte, possa accendersi. 

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Ma, d’altra parte, mantenendo una visione di sistema della città è possibile agire affinché un tale fuoco possa durare più a lungo. Ciò è possibile se la gestione delle aree urbane punti a creare le condizioni affinché la complessità di cui si diceva possa essere mantenuta contro la sua naturale propensione al decadimento. Il fascino di ogni quartiere, lo abbiamo visto, dipende dalla sua imprevedibilità, dalla sua capacità di promettere l’inaspettato, di proporsi come luogo in cui qualcosa di imprevisto possa accadere, in funzione della varietà di traiettorie e di attraversamenti. Ed è allora, ancora allontanando lo sguardo, in uno sforzo di visione sistemica ancora più generale, bisognerebbe pensare che alcune politiche urbanistiche possano essere più funzionali di altre per mantenere vivo questo fuoco.

Per esempio, queste politiche potrebbero puntare a mantenere diversificato il plateau di usi a cui i quartieri cittadini vengono destinati. È il contrario del cosiddetto zoning – pratica urbanistica che associa a ogni quartiere una qualche funzione dominante promuovendone quindi un uso predeterminato – a suo tempo praticato da Moses e ancora oggi molto sollecitato dalle forze politiche progressiste, convinte in questo modo di tutelare le fasce più vulnerabili. Si capisce che fissandone un qualche uso predeterminato si prospetta per quel luogo una frequentazione altrettanto omogenea di cittadini che hanno a cuore quel determinato uso.

Ribaltando il punto di vista, l’amministrazione pubblica potrebbe, allora, pensare di assumere come compito precipuo quello di vegliare sul fatto che nessuna funzione urbana (uso abitativo, shopping, industriale) possa prendere il sopravvento, schiacciando le altre. Per questo, potrebbe, per esempio, vegliare a che il tasso di ristrutturazioni in un quartiere sia funzionale al mantenimento di occasioni di insediamento a basso costo, magari non esteticamente attraenti ma in grado di assolvere alla fondamentale esigenza delle città di essere posti vivi, battute da cittadini con gusti e obiettivi diversi, e, d’altra parte, permettendo anche che attività non propriamente remunerative ma in qualche modo interessanti – una bottega di filatelia o un spaccio alimentare, il negozietto di un fioraio, un qualche balzano circolo ricreativo – possano mantenere la loro presenza, contribuendo a mantenere alta l’offerta di stimoli di una determinata zona.

Lo stesso dicasi per le reti sociali che permettono al quartiere di riconoscersi come tale: esse dovrebbero potersi sviluppare a un ritmo sostenibile, tale da permettere la loro sopravvivenza come sistema relazionale e di comunicazione. Ogni qual volta in un quartiere si prospetta un ricambio di abitanti troppo veloce, queste stesse reti implodono con il risultato di costruire insicurezza e solitudine. Tutto questo veniva pensato e messo nero su bianco nel 1961, in un mondo profondamente diverso da quello attuale. 

Guardare a queste problematiche da una prospettiva contemporanea potrebbe, per prima cosa, indurre a prendere atto di come i rapporti di forza si siano, nel frattempo, ribaltati. Le metropoli occidentali sono in piena trasformazione. Ovunque si diffondono progetti di “rigenerazione urbana” volti a ridare smalto a intere aree, per lo più popolate da cittadini della classe lavoratrice e della piccola borghesia. Di nuovo c’è che le città, inseguendo il mito della riconversione post-industriale, sembrano, al giorno d’oggi, volere tutte assomigliare al Village tanto decantato da Jane Jacobs, con le sue stradine in cui girare a piedi, piene di artisti e di locali alla moda, negozietti hipster e ristoranti vegani. Chiusure al traffico, pedonalizzazioni, fiere, festival culturali e gastronomici en plein air, hanno ovunque preso piede, rispondendo a una richiesta complessiva di socialità e di “bellezza”, annunciata come risposta al degrado e alla sporcizia di quegli stessi spazi, prima della loro rigenerazione (una parola che somiglia tanto a “risanamento”).

Molte persone, ovunque un tale fenomeno sia in una fase di sviluppo considerevole, si ritrovano in una condizione di perplessità di fronte a quello che sta succedendo, cogliendone il carattere ambivalente. Come non apprezzare, in fondo, le strade frequentate da passanti, il riammodernamento di edifici e palazzi, la costruzione di nuovi parchi urbani con tanto di animazione per bambini e corsi di Tai Chi? E allora perché questi interventi non convincono del tutto? 

La domanda cambia forma: in che termini esattamente la città contemporanea, una città che prenda esempio dal Village, può essere mai criticata? Molta critical theory riflette sulle dinamiche neoliberiste attraverso cui il suo impianto viene portato avanti. È appena uscito, nella traduzione di Elisa Dalgo, da Treccani La gentrificazione è inevitabile e altre bugie dell’urbanista e militante canadese Leslie Kern. Questo interessante volume riesce nel tentativo di inquadrare la natura essenzialmente speculativa di questi progetti, prova ne sia che, diversamente da quanto spontaneamente avvenuto al Village, la rigenerazione urbana viene promossa direttamente da amministrazioni pubbliche e grandi capitali privati. In modo che la trasformazione dei centri storici e delle downtown occidentali in setting pittoreschi a misura di passeggiata faccia tutt’uno con la volontà di “mettere a frutto”, in una logica di speculazione selvaggia, questi stessi luoghi. Un tale exploitment, come al solito, va a scapito della cittadinanza socialmente ed economicamente fragile, quella stessa che storicamente abitava le zone oggetto di rigenerazione, ora considerata un fardello da questo tipo di progetti. Minoranze, homeless, precari vengono considerati anti-estetici e quindi, forzati, con le buone (aumento delle pigioni) o con le cattive (vessazione della polizia) a trasferirsi altrove. Inoltre, molto spesso, le case di queste persone non vengono rimesse in circolo da nuovi abitatori: si preferisce affittarle, con rendimenti molto maggiori, ai turisti, grazie a piattaforme come Airbnb. Forze economiche esorbitanti spingono questi processi in modo che quartieri come il West Village risultino inaccessibili a qualsiasi cittadino non milionario, pur continuando a funzionare, nella loro facciata, come un villaggio suggestivo. Di fronte a tutto ciò, Kern, concittadina di Jane Jacobs (citata, però, nel volume una sola volta, giusto per essere criticata) chiede – in linea con un punto di vista intersezionalista – che all’interno della marea che sta montando contro i nuovi processi di gentrificazione e turisticizzazione delle nostre città vengano incluse le dinamiche razziali e di genere ma – è questo a mio parere il suo limite – imposta la questione in termini apocalittici, accampando un presunto diritto dei “primi abitatori” di un quartiere a non essere indotti a lasciarlo, oltre che un’immobilità urbana tale per cui questi stessi abitatori possano reclamare la persistenza dei propri locali preferiti, arrivando fino a rimpiangere i bei vecchi tempi di Moses e della sua zonizzazione (p. 224), in un approccio che si potrebbe definire “comunitarista”, interessato a preservare gli assetti comunitari storici di un dato territorio investito da processi di gentrificazione “a prescindere”, anche quando essi non dovessero risultare in linea con le regole di convivenza e con un immaginario contemporaneo condivisi. 

Ho voluto riprendere la riflessione di Jane Jacobs – spesso obliata o, peggio ancora, banalizzata – intorno ai medesimi problemi, per mostrare come all’interno di una visione come la sua, anche i processi di gentrificazione contemporanea possano trovare una critica, che si caratterizzi, attenzione, però, per il fatto di essere non comunitarista. I nostri centri storici in balia dei turisti, infatti, solo apparentemente somigliano al Village dei bei tempi andati: riconfigurati come luoghi di una funzione urbana esclusiva (di ordine ricreativo) essi ne rappresentano piuttosto il tradimento. Del resto, di fronte alla forza trasformatrice delle azioni speculative indicate da Kern è facile buttare il bambino con l’acqua sporca, rifiutare ogni novità, la movida, le pedonalizzazioni, i festival da strada, i vegani e gli hipster, bollarli come portato colonizzatore della bianchezza maschile e in quanto tale colpevoli a prescindere, magari in nome di un passato rimpianto come più autentico, in cui i muri erano cadenti e sotto casa, come luogo del cuore, si poteva trovare solo il McDonald’s (viene rimpianto anch’esso a pagina 140). 

Al contrario, non sono pochi coloro che pensano come alcune delle istanze rappresentate dagli imputati “gentrificatori” – poter andare in giro per la città in bici senza la paura di essere investiti dalle auto, fare una passeggiata in un parco urbano insieme ad altri cittadini che sentono la stessa esigenza, potersi ritrovare in una qualche caffetteria dove non ti propinino per forza junk food (beninteso: a un prezzo umano) – possano essere considerate aspirazioni legittime for the many, da reclamare riappropriandosi di un senso del collettivo più ampio, più inclusivo, oltre le strette maglie degli steccati comunitari. In fondo è proprio per superare tali steccati che le metropoli da sempre si elevano. 

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