Sei vecchio!

18 Maggio 2023

Sei vecchio, il titolo del libro di Vincenzo Marino appena uscito per Nottetempo (pp. 150, €15), suona come una sfida al lettore, sbandierandogli in faccia come, al cospetto di un qualunque adolescente frequentatore dei “mondi digitali della Generazione Z”, egli non possa che sentirsi surclassato. 

Sfogliate le prime pagine, la tentazione di accogliere una tale provocazione con un sorrisino di circostanza è forte. Cosa potrà mai esserci di tanto sensazionale nella nuova moda di TikTok tale da mettere in crisi l’amor proprio di quegli stessi lettori presunti 30/40/50enni, educati prima dalla televisione (generazione Bim bum bam) e quindi, pionieri delle comunità digitali, dai blog fino a Facebook e Twitter? A rafforzare una tale sensazione di scetticismo, spunta, già dall’introduzione, il solito Lyon, influencer che chiunque abbia figli piccoli – ovvero proprio i “vecchi” a cui il libro si rivolge – non può non aver già in qualche modo incrociato. E allora: oltre al compatimento che ispira dover assistere al triste spettacolo di un personaggio come Lyon, che non si stanca di giocare ai videogame a beneficio di interlocutori molto più piccoli di lui, malamente atteggiandosi egli stesso a moccioso, cosa potrà mai esserci di interessante nella nuova moda di TikTok? 

Vincenzo Marino, come un novello Virgilio, non esita a prendere per mano il suo incredulo lettore per spiegarglielo, accompagnandolo in un viaggio agli inferi della nuova comunicazione digitale. Del resto “vecchio” è anche lui e se non ci fosse stato il lockdown mai gli sarebbe passato per la testa di avventurarsi in un tale inferno, di cui – lo si capirà ben presto – Lyon non rappresenta che l’abitatore dei gironi più superficiali. 

Ed è infatti, superata l’introduzione, che Lyon può passare il testimone al Maestro.

Che risponde al nome di Gennaro. Egli è uno dei più noti streamer italiani e per qualche spicciolo (quattro euro) lo si può torturare: basta connettersi al suo canale in cui va in diretta senza soluzione di continuità. Gennaro, pure di notte, si lascia, infatti, osservare, mentre dorme nel suo letto fiocamente illuminato da lucette azzurrine. Soltanto che il medesimo letto è collegato ad Alexa, il dispositivo intelligente di Amazon, la cui gestione viene messa a disposizione degli utenti connessi, a pagamento. “Alexa accendi pioggia” è il comando che può essere, fra gli altri, azionato da uno di essi. Basterà ciò a mettere in funzione una doccetta posizionata sul soffitto per offrire lo spettacolo trash del ruvido risveglio nella burrasca del Maestro, con tanto di bestemmie, auspicabilmente formulate in maniera tanto bizzarra da potersi innalzare dal flusso indistinto della diretta e diventare clip virali. Sono centinaia in tutto il mondo i creator specializzati a mettere online sleeping streams che lasciano agli utenti la possibilità di molestare il proprio sonno. E questo, in effetti, noi “vecchi” lettori del libro non lo avremmo immaginato. 

Ma siamo solo (letteralmente: il fattaccio è raccontato a pagina 22) all’inizio del viaggio. 

Conosciamo Gennaro. Egli, partito come gamer, presto si accorge di poter ambire a un racconto meno settoriale, capitalizzando sulla sua vita da nerd: è così che sceglie di improntare online lunghissime chiacchierate con gli utenti. In esse, Gennaro, a differenza di molti suoi competitor, suona autentico, rivela la sua vita intima, mettendosi davvero in gioco, nonostante il fatto che il suo racconto venga condito da improbabili (e davvero ridicole) scenette, destinate, una volta estrapolate dalle dirette, a fare il pieno di visualizzazioni. Strada facendo cresce la sua popolarità e il suo approccio diventa sempre più professionale, la sua stanza sempre più simile a un set mentre, come in quel film con Jim Carrey, il confine fra realtà e finzione si assottiglia sempre di più. Al punto da mettere a repentaglio la sua salute mentale. Gennaro arriverà a sostenere 900 ore di diretta non-stop, seguita da almeno 40.000 utenti unici. In una di queste dirette fiume scoppia a piangere, spegne enfaticamente la telecamera e sembra sia per sempre. 

Viene da chiedersi quale possa essere il segreto dell’effimero “successo” dei tanti Gennaro in giro per la rete. Il nostro Virgilio la mette così: essi sono “rabdomanti del content”, cannibalizzano la propria vita quotidiana, alla ricerca spasmodica di quel quid che possa far scattare – grazie al particolare meccanismo di aggregazione dei trending topics dei nuovi social come TikTok – interesse verso di loro per, una volta individuato, replicarlo fino allo sfinimento. Che puntualmente arriva lasciando gli interessati con un palmo di naso, interdetti di fronte alla velocità della loro parabola, tanto misteriosa nella sua attivazione quanto repentina nella caduta. Ed è allora che l’illusione di “avere svoltato” grazie alla rete (“tutti vogliono al giorno d’oggi fare gli influencer”) si scontra con la dura realtà di chi sperimenta a proprie spese quanto ogni tentativo di capitalizzare sulla propria fortuna finisca per rompere il patto comunicativo che sta alla base di queste interazioni, fondato sull’autenticità.

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L’esempio di Donato De Caprio può, adesso, far al caso nostro. Si tratta di un salumiere napoletano divenuto celebre per il fatto di riprendersi al lavoro mentre prepara fantastici panini. La sua popolarità per quanto bizzarramente sopraggiunta, viene altrettanto bizzarramente meno non appena egli sceglie di aprire un’attività di ristorazione tutta sua. È a questo punto che sul suo account cominciano ad apparire le proteste dei suoi follower, che lo accusano di non essere più lo stesso, di aver perso il suo fascino, facendo ripiombare rapidamente nell’anonimato l’apparentemente miracolato salumiere. 

Ma la costruzione di un tale vorticoso quanto vacuo star system è solo uno degli ambiti di cambiamento di un ecosistema mediale che, di giorno in giorno, diventa sempre più articolato. E il cui potere si può riconoscere anche per la capacità di riformulazione del sistema dei generi. Le candid camera di una volta, per esempio, vanno fortissimo. Il loro successo, assicurato dalla facilità con cui possono essere messe in campo dai singoli con bassissimi costi di produzione, può essere inquadrato in quello più generale delle reactions, ovvero quei video che si caratterizzano per il fatto di mettere in scena reazioni a eventi di ogni genere: anche la pioggerellina indotta sul povero Gennaro attraverso Alexa, di cui si diceva poco sopra, può essere a essere iscritta a una tale tipologia. Sempre in tema di reazioni, i social pullulano di video che riarticolano pezzi di cultura audiovisiva in forme sempre nuove e cangianti, ora commentandoli in voce off alla stessa stregua delle storiche trasmissioni televisive della Gialappa’s band degli anni 90, ora interpretandone parodie, o ancora veri e propri rifacimenti, alla maniera dei talent show televisivi. Di più, come non chiamare in causa in una tale rassegna il mondo dell’intrattenimento per l’infanzia? Ancora una volta personaggi come i Me contro te, noti a noi “vecchi” lettori del libro, sono solo la punta dell’iceberg. A rendere l’idea arriva la ricostruzione della marcia trionfale di “Huggy Wuggy” dal mondo settoriale (si fa per dire) dei videogiochi fino all’egemonia, suggellata dal fatto che a un certo punto della parabola finiscono con l’occuparsi di questo personaggio perfino i giornali mainstream. Si tratta di un pupazzone blu con un’enorme bocca rossa e denti aguzzi che, come si diceva, interpreta il ruolo del cattivo di turno in un videogioco molto popolare fra i bambini piccoli. Marino ha gioco facile a rilevare la sostanziale inadeguatezza dei media tradizionali a inquadrare correttamente la fortuna di questo genere di fenomeni, per lo più raccontati con un atteggiamento a metà fra paternalismo e terrorismo da strapazzo. 

Continuando la carrellata di generi, ci sono ancora molti stream votati all’incoraggiamento emotivo: i millennial sono interessatissimi a mettersi alla ricerca di un qualche “mindset”, atteggiamento mentale, che possa garantirgli, in un orizzonte di vita segnato da estrema competitività, di non soccombere, anzi se possibile di vincere, senza preoccuparsi di lasciare indietro i propri avversari. È così che i discorsi da trainer motivazionale che ogni tanto spuntavano nei film americani anni 80 (e che a noi “vecchi” già allora sembravano ridicoli) vengono adesso presi sul serio, alla ricerca della chiave, del potere magico, per diventare milionari. Intorno a questa frenesia per il successo, nuove forme di mascolinità tossica circolano e fanno proseliti, in barba alle posizioni progressiste preminenti nelle terre emerse dell’editoria. Questi video si inseriscono in una tendenza più generale che finisce per ridare nuova linfa perfino agli oroscopi: si cerca un orientamento, si chiede alla rete di essere addestrati a vivere, arte sempre più difficile da praticare in una società ossessionata dalla paura di cadere. Vale la pena notare come in questi casi siamo un passo oltre rispetto alla fissa sociologica che le interazioni in rete possano costituirsi come specchio sociale, surrettiziamente prospettando agli utenti “modelli di comportamento” più o meno accettabili: a essere qui rincorsa è, infatti, una vera e propria didattica esistenziale che faccia dei famigerati modelli di comportamento oggetto di esplicita trattazione. 

A segnare la linea di demarcazione fra vecchio e nuovo mondo digitale così delineato è, allora, proprio TikTok. Ma non per le ragioni di cui i “vecchi” sproloquiano, assumendo una posizione apocalittica di fronte alla sua differenza, quanto piuttosto per il fatto di presentarsi come il simbolo di una costellazione di nuovi utilizzi della rete che si costituiscono su molteplici piattaforme come Twitch, Snapchat, Discord e altre ancora. Queste piattaforme rimescolano le carte della cultura, obbligando i social come li abbiamo conosciuti finora – Facebook e Instagram in primis – a cambiare conseguentemente. Basti aprire Instagram che, da repository di fotografie si è tramutato in un coacervo di influencer, per avere contezza di un tale cambio di passo. Praticamente ogni argomento del pubblico dibattito trova una sua forma originale di racconto su TikTok, dalla guerra in Ucraina (Biden ha organizzato una task force per la gestione della propaganda su questa piattaforma) fino all’immaginario criminale dei trapper. È proprio grazie alla sua centralità che intorno alla produzione di contenuti a esso destinati nascono vere e proprie factory, per lo più create da ragazzi, ricercatissime dal mondo dell’intrattenimento globale, della pubblicità e del marketing. Queste “esoteriche” (l’autore prova ad avvicinarne una ma non ci riesce) attività prendono spesso forma di appartamenti condivisi dove gruppi di creator vivono insieme la loro vita connessa, rivendendo al migliore offerente il frutto della loro creatività. In questo modo rispondendo con nuove storie e nuovi racconti alla proliferante “smania del content”, indotta dalle grandi piattaforme mediali. E poco importa che questo content incroci i destini massimi dell’umanità o al contrario possa soltanto ritrarre un salumiere che farcisce il suo panino: le due cose, seguendo un andazzo già inaugurato dalle televisioni commerciali (ampiamente citate nel volume), vanno insieme, facendo sistema. Il che, una volta prossimi al capolinea dell’affascinante viaggio allestito da Marino, mi permette di ribadire un proposito che altri prima di me hanno sostenuto a riguardo dello studio dei media. Per studiarli bene, non si può fare a meno di prendere la “pillola del giorno prima”, frequentandoli oltre l’ossessione per la novità, che abbiamo visto attanagliare i giovani frequentatori di Tiktok. Solo così facendo, potranno emergere gli assetti strutturali, quelli sì più stabili, attraverso cui i medesimi sistemi mediali vivono a prescindere dall'ultima moda. Vincenzo Marino, “lo zio” delle nuove generazioni della rete, mi appare come un analista dotato di un tale intendimento, che riesce nell’intento di rivelare gli aspetti sistematici delle proprie esplorazioni, senza far perdere fascino al proprio racconto, in un mix originale di leggerezza e caparbietà. 

È per questo che dal titolo del suo volume mi piace far risuonare una felice ambiguità semantica, a prima vista, non evidente: “sei vecchio” può essere, come sicuramente voleva essere, una simpatica provocazione al lettore; senza che ciò impedisca la possibilità che un tale aggettivo possa essere direttamente rivendicato dall’autore su di sé (“sono vecchio”: lo zio). 

Non c’è nessuna ragione linguistica, però, per escludere una terza interpretazione: “sei vecchio” può anche calzare a pennello all’oggetto di indagine, l’emergente mondo digitale di TikTok, inquadrato in una più ampia visione dei media nel sistema della cultura. 

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