Nulla dies sine linea. Il caso Marchesini

3 Ottobre 2014

C'è qualcosa di inquietante nell'iperattivismo di Matteo Marchesini, classe 1979, che così viene presentato: "Poeta, narratore e saggista, oltre ad alcuni libri per ragazzi, ha pubblicato la raccolta di versi Marcia nuziale, le satire di Bologna in corsivo. Una città fatta a pezzi, i ritratti letterari di Soli e civili e il romanzo Atti mancati, entrato nella dozzina del Premio Strega". Ho omesso gli editori – Scheiwiller, Pendragon, Edizioni dell'Asino, Voland –, piccoli ma di valore, e il fatto che questo percorso sia avvenuto in meno di quattro anni.

 

Ora Marchesini raccoglie le sue critiche nelle 535 pagine (incluso un utile indice dei nomi) di Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia (Quodlibet Studio). Un attraversamento, di diritto e di rovescio, del nostro Novecento letterario, abbracciato nella sua massima estensione (romanzieri, poeti, critici letterari, umoristi, scrittori satirici, saggisti tout court) e utilizzando diverse modalità critiche: recensioni, ritratti, medaglioni, excursus o, come si diceva a scuola, panoramiche, introduzioni e forse qualcosa d'altro ancora, unite da una scrittura che un tempo si diceva 'militante', aggettivo che non ha ancora trovato, secondo l'autore, un sostituto. È evidente che un maggior rigore nella scelta sarebbe stata utile, ma bisogna riconoscere che Marchesini non è mai noioso e il libro, nonostante la mole, si finisce per leggerlo tutto o quasi.

 

La prima cosa che balza all'occhio ė che il maestro, Alfonso Berardinelli, non è stato mangiato in salsa piccante, ma che anzi è un autorevole e silenzioso capotavola del banchetto che Marchesini ha allestito per noi.  Tra i propri modelli l'autore riconosce anche il sodale di Berardinelli, l'appartato Piergiorgio Bellocchio (a cui è dedicato un ottimo ritratto critico) e un maestro senza eredi come Luigi Baldacci. Risalendo nell'albero genealogico troviamo Cesare Cases, il primo in Italia a far uso della Kulturkritik per ritrarre la società letteraria.

 

Marchesini è un epigono di una figura, il critico letterario, che in Italia ha goduto un ampio credito e rispetto, non solo perché i quotidianisti (Borgese, Pancrazi, Cecchi, Pampaloni) avevano il potere di lanciare libri e intere carriere letterarie (si confrontino, ad esempio, le letterine di ringraziamento che gli scrittori italiani di ogni età e orientamento scrissero per mezzo secolo a Emilio Cecchi), ma anche perché in Italia la critica letteraria, da Serra a Gramsci, da Fortini a Garboli, è divenuta critica della società, a differenza di altri paesi europei nei quali la stessa funzione è stata esercitata da intellettuali con altre ascendenze.

 

La cosa valeva fino a qualche anno fa – si pensi a Siciliano e Pedullà, critici non eccelsi, ma abbastanza organici da diventare presidenti della RAI – ora lo spazio della critica letteraria sembra residuale e non mi viene in mente un singolo vero critico – e ce ne sono di bravissimi – che oggi possa determinare la sorte di un libro od offrire uno squarcio sul nostro presente (tranne forse Giglioli). Marchesini probabilmente queste cose le sa, ma in fondo non gliene importa molto e sguazza felice nel petit monde letterario.

 

In ogni caso il nostro Novecento è stato un secolo ricchissimo dal punto di vista letterario e Marchesini è molto bravo a collocare gli scrittori civili (Noventa, Fortini, Chiaromonte, tra gli altri) tra letteratura e storia, a rileggere le carriere di alcuni grandi o semigrandi poeti (Caproni, Sereni, Saba, Roversi), rimettendo in discussione risultati critici acquisiti. Esemplare è la lettura di Amelia Rosselli che rischia di naufragare, tra le buone intenzioni degli esegeti, in un kitsch che non le appartiene. E molto a punto risulta anche la rilettura di grandi romanzieri 'morali' come Brancati, Morselli, Cassola, o 'amorali' come Landolfi. Controcorrente, sulle tracce di Baldacci, la rivalutazione di Moravia.

 

Seguo meno il critico bolognese quando cerca di smontare la nostra hall of fame novecentesca (Gadda, Montale, Calvino), non per lesa maestà, ma perché lo fa con attacchi di sbieco, utilizzando soprattutto le opinioni di altri. È pur vero che Gadda è la bazza dei filologi, che ne incrementano esponenzialmente le note con altre note, ma è altrettanto vero che pezzi di realtà così vasti come nel Pasticciaccio e approfondimenti analitici così sottili come nella Cognizione non è facile trovarli altrove.

 

Si vorrebbe che Marchesini argomentasse di più, spendesse fino in fondo la sua intelligenza critica per dimostrare che magari Calvino è più intellettuale che scrittore e a un certo punto diviene prigioniero delle teorie letterarie, ma questi discorsi sono solo accennati. A volte si ha l'impressione che il critico abbia letto, se non troppo, troppo in fretta: citare Kraus va forse bene per Bellocchio, ma non per Brancati e Flaiano che, per ragioni biografiche, non possono averlo letto.

 

Quando invece si imbatte in un inattuale come Cajumi si coglie il piacere della scoperta che viene restituita a chi legge. Non so dire per l'ultima parte del libro, da Elio Pecora in poi, perché la distanza critica mi pare troppo breve, anche se ho i miei dubbi che Antonio Debenedetti sia uno scrittore davvero interessante. Per finire: Marchesini è un talento e il prosieguo della sua carriera è da seguire con partecipazione, anche oltre Busi.

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