Leonardo Di Costanzo, un cinema di domande

11 Settembre 2025

Anche se è arrivato al quarto lungometraggio, la figura di Leonardo Di Costanzo non è riconducibile a nessuna categoria tra i registi che vanno per la maggiore nel cinema italiano. Non appartiene alla categoria degli innamorati di se stessi, né a quella che non tiene conto del pubblico o di chi invece in ogni fotogramma pensa di reinventare il cinema convinto di “capolavorare” per citare un’espressione di d’Annunzio. Forse perché buona parte della sua formazione è avvenuta come documentarista in Francia, nell’esperienza collettiva degli atelier Varan, che lo ha portato poi a girare documentari molto belli come A scuola (2003), diario di un anno scolastico in una classe napoletana, perfetto microcosmo di una società sbilenca.
A un certo punto ha abbandonato il genere documentaristico interrompendo, a causa della scomparsa del ragazzo, Cadenza d’inganno, un lavoro in cui seguiva un adolescente di una famiglia disagiata dell’area napoletana, finché questi, molti anni dopo, gli chiese se poteva filmare il suo matrimonio. Da qui la necessità di raccontare dall’interno le persone rendendole personaggi, ma senza cercare di tradire il grumo di verità da cui nasce ogni vero personaggio. Così nel 2012, a 54 anni debuttò con L’intervallo, delicatissima storia di due adolescenti che trascorrono una giornata in un palazzo abbandonato. Girato in dialetto, con attori non professionisti e collaboratori dialettici come Luca Bigazzi (fotografia) o empatici come Carlotta Cristiani (montaggio), poi rimasti fedeli negli anni, fu un autorevole biglietto da visita per Di Costanzo, fin da allora prodotto da Carlo Cresto Dina. La principale caratteristica del suo cinema è non adagiarsi nelle formule, ma azzerare ogni volta il processo creativo per ripartire da capo, con conseguenti dubbi, tormenti, nottate insonni. 

Barbara Ronchi e Leonardo Di Costanzo

Alcune caratteristiche della sua filmografia però, opera dopo opera, si ripetono come ad esempio l’unità di luogo, una spia che la frequentazione del mondo del teatro ha completato la sua formazione. In L’intrusa (2017), il luogo scelto è un centro per l’infanzia dove si rifugia una ragazza madre di famiglia camorrista, facendo così esplodere le contraddizioni all’interno della comunità di educatori. Così in Ariaferma (2021) è un carcere in via di dismissione la cornice dove si svolge il confronto tra due grandi attori come Toni Servillo e Silvio Orlando, guardia e ladro divisi dalla vita ma della medesima origine sociale, perfino dello stesso quartiere cittadino. Nei primi due film, ambientati a Napoli, oltre a utilizzare una prevalenza di attori non professionisti, la denuncia sociale è indiretta ed è una possibile risposta alternativa quando si affronta il il problema della criminalità come risultato del disagio sociale in tempi in cui furoreggiava il modello Gomorra (libro/film/serie).Di Costanzo ha sempre lavorato per sottrazione, sia nel costruire la storia con i suoi sceneggiatori, Bruno Oliviero e Velia Santella, sia nel girare con movimenti di macchina spesso ridotti all’osso e pochi totali che servono a dare respiro alla vicenda. Sono film in cui la recitazione è virtuosa ma mai virtuosistica, frutto di prove con gli attori organizzate mesi prima di cominciare a girare (la lezione del teatro). Il suo sguardo si sofferma sui dettagli, sui particolari rivelatori, ma che non vengono mai sottolineati; sta a chi guarda saperli cogliere.

Arriviamo così a Elisa (2025), appena presentato alla Biennale cinematografica di Venezia, dove la scommessa è stata girare in un’altra lingua (il francese), anche se il film uscirà doppiato nelle sale italiane, ma soprattutto c’è la volontà di affrontare un tema più universale: da dove scaturisce la pulsione che porta a uccidere, quale è l’origine del male e quale il rapporto tra la condanna e la sua espiazione. Chi ha ucciso può davvero risalire ai motivi che lo hanno portato a compiere quel gesto? Il film nasce dagli incontri del regista col mondo del carcere quando portava in giro Ariaferma e dalla lettura poi di Io volevo ucciderla. Per una criminologia dell’incontro (Raffaello Cortina) di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, in cui i due criminologi incontrano una donna che ha ucciso un familiare e la mettono a confronto col suo gesto. Una storia vera da cui il regista e i suoi sceneggiatori sono partiti, rendendo narrativa tutta la ricerca che appartiene alle scienze sociali, per ricostruire la vicenda di una giovane donna che ha ucciso la sorella e ha tentato di uccidere la madre. Un episodio realmente accaduto in Brianza qualche anno fa, ma che il regista trasporta in un paese di lingua francese – l’ambientazione montana suggerisce la Svizzera romanda – dove un criminologo (l’ottimo Roschdy Zem) interroga l’assassina (Barbara Ronchi, brava al di là di ogni aggettivo) sulle motivazioni che l’hanno spinta ad uccidere, ora che ha quasi finito di scontare la pena. Le loro sono sedute regolari che il criminologo registra per poi riascoltarle. 

Questo rapporto ‘in differita’ priva volutamente il film di una scena madre in cui si sciolgono i nodi – lo spettatore attraverso una serie di flashback ripercorre i momenti che hanno portato al delitto – perché il regista preferisce portare la nostra attenzione su quel che avviene dopo. È importante sapere che Elisa uccide per un’asimmetrica distribuzione degli affetti famigliari (come avviene peraltro in ogni famiglia: “Famiglie, io vi odio”, esclamava André Gide, per denunciare l’ipocrisia che regola la vita di ogni consesso famigliare), ma a Di Costanzo preme di più comprendere se il carcere, in questo caso un carcere “modello”, davvero può essere un luogo dove si svolge un percorso riabilitativo della persona, oppure chi è stato preda dei suoi demoni è condannato a tenerseli per sempre e l’istituzione può solo restituire alla società un vinto, come la magistrale interpretazione di Barbara Ronchi sembra suggerire. L’équipe di Ceretti lavora da anni sul concetto di giustizia riparativa, ma non tutto si può riparare come rileva il personaggio di Valeria Golino, una madre il cui figlio è stato ucciso da una banda di coetanei che lei non riesce a perdonare preferendo convivere consapevolmente con le proprie furie. 

Il cinema di Di Costanzo è fatto di domande, e film dopo film, le domande si interrogano sempre di più su quale sia la natura dell’uomo come, per restare al cinema, i migliori film di Rossellini o, per fare un esempio più recente, del grande Kieslowski.

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