Oggetti d'infanzia | Misirizzi

7 Novembre 2012

L’infanzia, si sa, è un tempo magico, e raccontare l’infanzia vuol dire anche raccontarne gli oggetti che più l’hanno abitata. Non solo i giocattoli, ma gli oggetti più comuni e quelli più speciali, e magari anche quelli strani di cui ci vergognavamo un po’: tutti sono diventati parte di noi, ci hanno accompagnato nell’età adulta, dimenticati in un angolo della memoria.

 

A quel tempo di meraviglia, di scoperte e paure che è l’infanzia si può a volte tornare grazie a un oggetto qualsiasi, che però, sta qui la magia, era il nostro, e ci spiega chi eravamo, cosa desideravamo e cosa detestavamo, anche. E che forse ci diceva, allora, cose che avremmo poi capito solo molto più tardi, quando di quell’oggetto era rimasto solo un ricordo sfocato.

 

Per questo ricordare un oggetto d’infanzia vuol dire non solo tornare ad affacciarsi su quell’epoca di prodigi e spaventi, ma pensare a cosa siamo diventati, noi, tutti, ormai adulti, a chiederci com’era il mondo che immaginavamo e com’è ora, così grande e terribile.

 

Oggetti d’infanzia è il nuovo progetto di doppiozero che invita tutti i lettori a raccontare la propria infanzia attraverso un oggetto. Storie, descrizioni, ricordi, che ci fanno rivivere non solo un pezzo della nostra vita ma ci aiutano a capire la storia e le vicende della nostra società.

 

I migliori tra i racconti pervenuti saranno pubblicati su doppiozero. Al massimo 4000 battute, o, come si sarebbe detto un tempo, 60 righe.

 

Per partecipare scrivete a oggettidinfanzia@doppiozero.com

 


                                               


 

Il pavimento in graniglia arancio e nocciola era gelido e da sotto l’uscio filtrava uno spiffero invernale. Ciononostante me ne stavo seduta infreddolita di fronte a questo strano bambolotto di plastica rigida, dal colore rosso brillante e dai grandi occhi spalancati che era stato da poco regalato a mio fratello di pochi mesi. Non era un bambolotto da coccolare, abbracciare, svestire, vestire, pettinare, era semplicemente formato da due globi di plastica di diverse dimensioni, sovrapposti a formare un corpo e una testa tondeggiati e levigati. L’unica attrattiva alla vista era la lucentezza purpurea dell’abito e del cappuccio e i suoi occhi sognanti, in contrasto con tutto ciò che lo circondava in quel momento; il freddo e la mestizia di una malinconica cucina americana. Ma erano soprattutto il suo movimento e il dolce suono che generava a creare la magia del gioco. Se lo si spingeva in avanti, indietro o di lato, esso si inclinava un poco per poi tornare al punto di partenza con un movimento oscillante, producendo ogni volta uno scampanellio che si andava via via spegnendo. Dlin, dlin, dilin! Dlin, dlin! Dlin!

 

Affascinata dal suono lo spingevo per ascoltare questo tintinnio che mi trasportava in un mondo lontano fatto di slitte e calessi, di corse sulla neve, di bambini ridenti avvolti in rossi mantelli, di guance rosate e occhi spalancati sul mondo. E così lo spingevo più e più volte per viaggiare lontano, ed esso ogni volta si inclinava sempre più temerariamente e suonava producendo sempre lo stesso invariabile motivo; non c’era mai una variazione di intensità, solo una variazione di tempo, quasi impercettibile. Nulla sembrava potesse turbarlo, il suo sorriso restava sempre identico, i suoi occhi sempre lucenti, il suono sempre melodioso. Non c’era spinta che potesse farlo cadere, tornava sempre al punto di partenza. Non c’era colpo che lo spostasse, era sempre radicato nello stesso punto, a meno di dargli letteralmente un “colpo basso”, in quella zona dell’emiciclo della sfera inferiore che ne celava il pesante cuore, o come direbbe Battiato, il suo centro di gravità permanente. E io giocavo, affascinata dalla sua sorridente imperturbabilità, dal mistero della sua capacità di ritornare sempre al proprio punto mediano, di sapersi piegare e sempre rialzare, di essere sempre in equilibrio sul suo baricentro, di generare un suono invariabilmente armonioso.

 

Solo ora, rievocando questo semplice gioco della mia infanzia, scopro i segreti, le ombre o le pieghe di questa fascinazione, che contrastava con un mondo che mi appariva confuso, caotico, imprevedibile, che non risparmiava colpi. Solo ora scopro come un gioco così modesto ed essenziale, un misirizzi, potesse essere un maestro di vita. Peccato che un giorno mio fratello l’abbia fatto cadere dall’alto, provocandogli una rientranza su un fianco che alterò la levigatezza della sua superficie lasciandolo muto. Nonostante ciò, il bambolotto non perse le sue qualità essenziali: la sua capacità di sapersi rialzare, il suo sorriso e il suo sguardo aperto al mondo.

 

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