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Carlo Fei, né più né meno

2 Agosto 2025

Ci sono artisti che non rincorrono né la produzione né l’esposizione, hanno un’idea precisa che perseguono per tutta la vita. Quella di Carlo Fei, fiorentino classe 1955, è quella di uno sguardo “oggettivo” nel senso più pregnante del termine, cioè non solo non soggettivo ma che al tempo stesso restituisce l’oggetto come un tutto e così facendo lo pone di fronte a chi guarda come un interlocutore, come un altro sé. La dialettica che ne scaturisce è assolutamente sconcertante, conturbante, perturbante, ma anche definitiva e definitoria: si ha l’impressione di essere arrivati al capolinea di un’idea, alla sua realizzazione e alla nostra, se così posso dire.

Sembra bastare poco, un fondo nero, isolare e ingrandire l’immagine dell’oggetto, mettere bene tutto a fuoco, ma non è così semplice, è una sintesi dentro la quale si scoprono le implicazioni più profonde, tanto da scomodare – a richiesta – l’alchimia e l’esoterismo più radicato, così come il rimando agli archetipi e ai simboli più antichi, senza tempo.

Dov’è in effetti il tempo fotografico in queste immagini di Fei? È tutto incistato nello scatto, nella sua insituabilità, come condensato ancor più che sospeso. Il fondo nero diventa magico, ancestrale, una “luce nera”, e l’ombra diventa vivificatrice. Piccole cose: una batteria, un amuleto, un insetto da collezione, un vaso, un colpo di luce nel paesaggio, tutte cose “fatte di niente”, come le definisce l’artista, ma che rimandano all’energia, alla vita, e la restituiscono.

1. Né più né meno (Batterie), 1998.

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Né più né meno (Batterie), 1998.

EG: Hai voluto cominciare con una “batteria”, che curiosamente, anche un po’ ironicamente, è intitolata Né più né meno, naturalmente facendo riferimento ai due segni che identificano i poli positivo e negativo. Come è nata questa serie?

CF: Questa prima serie, diciamo, è una sorta di linea fra il prima e il dopo delle mie fotografie. Perché non è che inizio nel 1998, in realtà inizio negli anni ’70, quando trovo il libro di Ugo Mulas pubblicato da Einaudi, leggo il testo e veramente mi fa entrare in sintonia di più con la fotografia. Da lì parte il mio tentativo di lavoro fino ad arrivare alla prima serie, questa delle batterie. La serie nasce in modo un po’ strano perché volevo mettere su fotografia qualcosa che non fosse un punto di vista ma, come dire?, la “rotondità” di un vedere. Allora ne parlavo con un amico che aveva e ha ancora una galleria, si chiama Simone Frittelli, e gli dissi: “Sai, mi piacerebbe fare delle foto di batterie, perché racchiudono un po’ quello che vorrei far vedere, perché la batteria ha un più e un meno, è un insieme che ti sta intorno, è tutto questo, un po’ come può essere la Terra vista dallo spazio, cioè qualcosa che vedi tutto insieme, un tutt'uno”. E così Frittelli una mattina arriva in studio, che avevo come fotografo professionista, e mi lascia una batteria. Io rimango un po’ sorpreso ma, insomma, è iniziata la faccenda.

Sono andato da un elettrauto a cercarne altre, perché era anche il momento in cui queste batterie si trasformavano, stavano diventando un'altra cosa. Per fortuna ne trovo uno che ha tutte le batterie più strane di questo mondo, rosse, bianche, verdi, di tutti i colori, e quindi faccio una serie di 18 fotografie. Le ingrandisco, perché, diciamo, il succo era quello: non rimanere nella fotografia piccola, che era quella che fino ad allora, fino alla metà degli anni ‘80 era la fotografia che veniva veicolata, formato 24 x 36 cm, difficile che si stampassero foto più grandi; forse qualche americano, qualche artista, ma non erano diffuse. Erano tutte 24 x 36 e a me non davano soddisfazione, quindi le ho ingrandite tantissimo, anche perché l'idea era quella di ingrandire qualcosa che diventasse un'altra cosa, all’occhio, perché non capivi più la batteria, che diventava una cosa un po’ astratta, con queste linee, questi colori.

Ecco, questo è l'inizio della serie, che poi chiamo Né più né meno perché giocavo sull'idea dei due poli della batteria che sono uno il più e uno il meno, ed è un po’ relativo anche al linguaggio, perché non doveva essere neanche linguaggio, perché “né più né meno” si dice sempre quando uno tende a formalizzare qualcosa, allora si dice: “Come ho detto, né più né meno quello che ho detto”. Allora, diciamo, era fuori anche dal linguaggio, perché non mi interessava rendere con la fotografia un linguaggio, quindi per rimarcare ironicamente anche questo fatto venne fuori il titolo Né più né meno.

EG: C’è poi nella batteria il grande tema dell'energia.

CF: Certo, fondamentale. Cioè il vedere sommato al fatto che quello che si vede non è quello che è, è apparenza, perché noi non siamo fatti di carne, siamo fatti di elettroni, di atomi, di energia, di microenergie che si collegano l’un l’altra a formare un corpo umano, una casa, un oggetto, la Terra stessa; quindi tanti atomi tutti insieme formano questa cosa che noi chiamiamo materia ma che in realtà non si sa bene cosa sia, a che cosa è collegata poi nell'insieme di tutto quello che noi vediamo con il telescopio. Per questo dicevo della Terra vista dal cielo, perché era fondamentale anche questo aspetto, il vedere da distanza qualcosa che da vicino è un'altra cosa ancora, quindi l'apparenza, queste questioni. Volevo che si capisse che quello che si vede non è quello che è.

2. Fatti di niente (Talismani), 1999.

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Fatti di niente (Talismani), 1999.

EG: Giustamente poi passavi alla serie che hai intitolato Fatti di niente, un altro titolo allusivo e a più sensi. In ogni caso, mi pare che, se con le batterie un certo discorso di contenuto rimaneva velato, con gli amuleti-talismani, che sono degli oggetti già simbolici, si capisce che c'è un altro tipo di energia in ballo e quindi che stai pensando anche a questi argomenti.

CF: Diciamo che l'energia è sempre quella, perché tu vedi un cornetto e ti affidi a Dio, agli dei, per avere qualcosa che altrimenti pensi che non potresti avere. Quindi l’energia che ti collega con il cielo, apparentemente anche questa, in realtà ti collega con l’energia universale. Certo, la batteria è un accumulatore, ma è lo stesso con l’amuleto che mette in contatto il cielo con la terra. La serie si poteva chiamare anche Né in cielo né in terra, volendo, però ho preferito Fatti di niente perché sono oggetti fatti veramente di plasticaccia, non è che sono d’oro massiccio o altro per cui avrebbero un valore anche materiale, l'unico valore che hanno è portare fortuna. Ma cos'è portare fortuna? C'è qualcuno che può spiegarci cos'è portare la fortuna? Sì, si può spiegare filosoficamente in mille modi, ma non realmente, non c'è questa realtà del portare fortuna, è un'idea che ci portiamo dietro evidentemente da quando esiste l'uomo, cioè qualcosa che interviene a cambiare le cose e che noi non sappiamo cosa sia.

EG: Possiamo dire le stesse cose per la fotografia? Cioè anche la fotografia è un accumulatore, un distributore di energia, la intendi in questo modo? Il contenuto rappresentato si ripercuote anche sul medium che stai usando?

CF: Be’, dipende da come la si intende. Cioè, se la intendi come linguaggio, diciamo che ha un suo ambito preciso. Se viene usata... Sai che c'è questo modo brutto di dire “l'artista usa la fotografia”. Per me chi usa la fotografia è un fotografo. Se vuoi, non è più un linguaggio quando diventa arte. Ha a che fare col medium, sicuramente, però anche no, volendo, perché se tu fai dell'arte, la fai con quello che ti pare, può essere un oggetto inutile buttato via...

EG: Però la parola “medium” ha naturalmente ha anche la valenza medianica.

CF: Fatti di niente, no?, gli amuleti. Medium, cioè quella cosa che ti porta da un'altra parte.

EG: Quindi anche la fotografia in questo senso.

CF: Anche la fotografia, sì.

3 Fatti di niente (Numeri), 2001.

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Fatti di niente (Numeri), 2001.

EG: Sempre con lo stesso titolo hai realizzato poi una serie curiosa per altri versi, anche nel senso che qui ci smarriamo un po’. Sono i “numeri”. È vero che sono al neon, e quindi luce, energia, ma perché i numeri?

CF: Non solo perché sono luce, perché sono anche lightbox. L’uso del lightbox mi ha permesso di abbassarli a qualcos'altro. Cioè, prima ho fatto fare i neon dei numeri e poi li ho accesi e li ho fotografati e li ho montati su lightbox. Quando si accende il lightbox è come se si accendesse il numero e invece è una fotografia retroilluminata. Tu ti dici: “Ma c'è un numero dentro?” No, c'è una fotografia. Quindi c'è uno spostamento fra le due cose. Allora, non sono fatti di niente gli oggetti, perché chiaramente il neon non è fatto di niente, ma la fotografia sì, è fatta di niente.

Poi anche i numeri stessi non hanno sostanza, diventano sostanza quando sono sette mele, ma se tu li metti astrattamente in una stanza su una parete, così, 7, cosa significa? Puoi avere dei rimandi sempre letterari, filosofici, eccetera, ma lì su una parete, se tu entri in una stanza... Come avevo fatto al Forte Belvedere, a Firenze: avevo chiuso le stanze con dei pannelli neri per cui attraversavi dei corridoi completamente al buio, entravi in una stanza dove avevi un attimo per riprenderti e vedevi questo numero e dicevi: “Boh, che è ‘sta roba?” e poi ti interrogavi. Per cui fatti di niente anche quelli, perché non portano niente, non hanno nessun valore. Hanno un valore per la matematica, ma anche la matematica di che cosa è fatta?

EG: Due richieste che ti faccio prima di passare alla serie seguente. La prima è sul fondo nero. Hai sempre usato il fondo nero, ha un significato particolare per te?

CF: Sai, si potrebbero dire tante cose però l'ho messo semplicemente per isolare l’oggetto, per vederlo bene. Ingrandendolo, lasciandolo da solo nello spazio, quello che si vede non è sul nero, come dici tu, non è un nero che è attaccato all'oggetto. Se tu guardi bene, vedi che questi oggetti in realtà sono sopra un vetro, infatti hanno delle piccole ombre che si scorgono sul vetro, mentre sul nero non ci dovrebbero essere ombre. In realtà sono fotografate su un vetro e sotto, a un metro circa, c'è un panno nero. Anche per questo rimangono abbastanza “spaziali”, le cose sembrano volteggiare, un po’ galleggiare, perché sono sospese in aria. Il vetro dà la trasparenza giusta per dare questo effetto. Ho lasciato le ombre, non le ho ritoccate, per far capire che anche qui l'apparenza inganna. Tutte le foto sono sempre sull’idea che l'apparenza inganna.

EG: A me interessava perché c'è tutta una serie di artisti o fotografi, da Richard Avedon a Oliviero Toscani, che invece hanno isolato l’oggetto sul fondo bianco, ottenendo un risultato molto particolare, efficace in un altro modo. Il nero è per molti versi l’opposto.

CF: Sì, esattamente l'opposto, perché non volevo che avessero un contorno. Se lo metti sul bianco hai un contorno, sa tanto di foto di still life, di moda, tutta una serie di cose che hanno a che fare con il linguaggio, che a me non interessava. Se vuoi è un po’ come in certi film di fantascienza con l'astronave che sta nel nero dello spazio, che attraversa questo spazio silenzioso, etereo, dove non c'è nulla, solo il vuoto.

EG: L'altra osservazione che volevo che riprendessi, se ti va, è che di fronte a queste opere in particolare ho sempre avuto l'impressione di un capovolgimento del rapporto tra soggetto che guarda e oggetto che è guardato, perché l’oggetto diventa grande come te e quindi sei a tu per tu, come se fossero due soggetti che si fronteggiano.

CF: Sì, certo che c'è questa cosa, perché l'altezza delle foto è la mia altezza, quindi è chiaro che...

EG: Ah, vuoi dire anche che sono te stesso?

CF: Be’, sì, capito? L'autoritratto. Mi porto dietro questa cosa. Molte volte le ho mostrate a pavimento, e allora sei veramente uno a uno. C'è questa cosa, è fondamentale, di avere un rapporto con l'oggetto che sia uno a uno, perché lui ti guarda. Non ti guarda davvero, certo, ma è un po’ l'idea di Duchamp che un'opera d'arte la fa chi guarda. L'opera siamo noi.

4. Black Light (Val di luce), 2007.

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 Black Light (Val di luce), 2007.

EG: Poi riprenderemo il discorso dell'installazione , ma ora passiamo a Val di luce.

CF: Val di luce è un progetto finto! Io non faccio progetti, nemmeno nella vita, mai fatti in vita mia, sono sempre andato diritto, quello che sentivo lo facevo. E infatti mi sono trovato molte volte a dovere faticare, perché chiaramente non hai pensato le cose. Comunque, Val di luce nasce un po’ sul tema del paesaggio italiano, perché sembra che se tu non fai il paesaggio in Italia, è come se tu non facessi nulla! Allora mi sono detto: “Vabbè, vediamo di fare un paesaggio che rientri nelle mie specifiche”. Quindi ho deciso di fare queste luci, che poi è il sole, farle diventare come degli spot che arrivano sul paesaggio, ne inquadrano un pezzetto.

Sono foto ritoccatissime queste, come se avessi dipinto sulla foto, come facevano i pittori di una volta che copiavano dalla fotografia o vi intervenivano sopra. Io ho sommato queste due cose, perché prima ho fatto la foto a colori, poi l'ho tradotta in bianco e nero, poi sul bianco e nero con Photoshop ho portato il nero per annullare quelle parti della fotografia che non mi interessavano, per ridurre tutto a un piccolo pezzetto di paesaggio che mi interessava far vedere. Infatti ho messo il titolo Black light, perché con luce nera intendevo questo nero aggiunto di ritocco.

In fisica poi con luce nera si intende quella di Wood. L’ho usata in una mostra a Milano per far capire che c'era questa faccenda. Quando sei lì, il bianco diventa quasi neve, è strano.

EG: È anche un'espressione che rimanda all’alchimia...

CF: Sì, poi c’è tutta quella parte sotterranea, c'è sempre in tutte le foto. È più di intuito che di ricerca vera, perché, sì, ho letto tanto, però non voglio stare in quella dimensione, mi appartiene poco.

EG: Però le metafore dell'alchimia sono molto vicine a quelle della fotografia: si ha a che fare con i materiali chimici, con la luce, con la trasformazione...

CF: Sì, l’opera al nero, la calcificazione, sono tutte lì, è un aspetto sotterraneo di queste foto.

EG: È anche una concezione di parallelismo tra fotografia e alchimia a cui molti fotografi fanno riferimento.

CF: Sì, direi tra opera d'arte e alchimia, a questo punto. L’opera al nero per me è l'opera d'arte, questo è il mio parallelo. Ogni fotografia, ogni serie in realtà, per me è un'opera, quindi è come se avessi tradotto il piombo in oro.

5. Fatti di niente (Insetti), 2011.

insetti

EG: Bene. Quinta immagine: Insetti. È una ripresa del tuo modo anteriore a Val di luce. Di nuovo un unico oggetto, uno per volta, fondo nero, ingrandimento e così via.

CF: Avevo cercato degli insetti e ho trovato una raccolta fantastica da un collezionista che me l'ha messa a disposizione. Ho scelto quelli che mi piacevano di più, ho tolto l’ago che li tiene fermi sui classificatori e li ho fotografati.

EG: Dunque perché gli insetti?

CF: Perché quegli insetti sono polvere, se tu li tocchi si sbriciolano, capito? Sono fatti di niente.

Un aneddoto curioso mi è capitato da un collezionista la cui moglie era preoccupatissima di mettersi in casa un insetto, una roba del genere, era veramente disgustata, impaurita, ma il marito ha avuto la meglio. Insomma, alla fine si porta l’opera in casa. Dopo una settimana mi invitano a cena e la moglie mi dice: “Ma lo sai, Carlo, che sembra umano? Più che lo vedo e più mi sembra un umano”. Io non ci avevo pensato, ma pensando che era il mio corrispettivo, ho capito perché. Alla fine era quello che volevo.

6. Museo archeologico, Napoli, 2018.

EG: Ultima immagine. La mostra in cui l’hai esposta era molto articolata, c’era tutto un percorso. Naturalmente hai sempre avuto attenzione al modo di presentare le opere, ci mancherebbe, ma in diverse occasioni le hai presentate anche in modi inconsueti.

CF: Sempre in realtà. Ci sono due tipologie: una con le opere e basta, gestendo lo spazio in un certo modo e mettendo le opere in un certo modo, poi c'è quella con l’inserimento anche di oggetti e altro dalle opere. Qui c’era la solita alternanza tra il più o il meno, dunque il pane e il vino, e altri oggetti. La loro presenza ha determinato l’aggiunta di altre opere, che sono queste appunto in bianco e nero. C’era quella grande con la barca egizia della morte e i quattro vasi canopi, che gli egizi usavano per metterci gli organi del defunto. Anche questi sono su fondo nero. Siamo sempre nell'idea della Black light.

EG: Sì, e anche questa testa di animale esce, emerge dal fondo in una maniera molto impressionante.

CF: Sì, si sculturizza, diciamo.

EG: Diventa viva, ti guarda.

In copertina, Museo archeologico, Napoli, 2018.

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