Peanuts. Personaggi per un centenario/3

Piperita Patty | Valentina Manchia

Lei, si sa, è quella strana. La scorbutica Lucy e la bionda Sally hanno pettinature bon ton, lei ha una gran massa di capelli arruffati e una frangia ribelle. Loro indossano abiti a balze e fiocchi, lei non si separa mai da t-shirt verde, pantaloncini e sandali. E anche il suo nome la pone in una posizione marcata, rispetto agli altri personaggi dei Peanuts: è Peppermint Patty, Piperita Patty in italiano, non solo Patty.

Esisteva, a dire il vero, nelle prime strisce di Schultz degli anni ’50, un’altra Patty nel gruppo di amici di Charlie Brown, bambina molto ordinaria (e non a caso dal nome comunissimo), poi uscita dal gruppo dei personaggi principali con l’ingresso dei “veri” Peanuts, come Schroeder, Lucy e gli altri che conosciamo. Ma Piperita Patty ha un soprannome, unica tra tutti, perché è lei che se lo attribuisce, sin da subito – e anche Charlie Brown, per lei e solo per lei, sarà sempre e solo Ciccio (“Chuck”, nell’originale).

Gli annali schulziani fanno risalire la prima comparsa di Piperita Patty, al secolo Patricia Reichardt, al 1966, quando conosce Charlie Brown grazie a un amico comune, Roy, che vive come lei dall’altra parte della città. E la ragazza mostra da subito una tale grinta che è impossibile non notarla. Innanzitutto, è bravissima in tutti gli sport, molto più dei suoi compagni. Eccelle in particolare nel baseball, sport americano e maschile per eccellenza, con una spiccata vocazione da coach, tanto da mettere assieme una sua, pressoché imbattibile, squadra di quartiere. Amica e vicina di banco dell’occhialuta Marcie, sua spalla comica, che la chiama “capo” (“non chiamarmi capo!”, le risponde ogni volta, con quella che è la sua battuta più famosa), va malissimo a scuola: suoi sono gli scambi più surreali con la maestra, muta presenza dall’altra parte dei banchi, che non vediamo mai, e sono indimenticabili le sue lotte corpo a corpo con i test, che risolve sempre a modo suo (“A scelta multipla? Bene, scelgo di non rispondere!”).

Umberto Eco, nel suo indimenticato saggio su quella serissima faccenda che sono i Peanuts, fa di Charlie Brown il protagonista assoluto della “tragedia della non-integrazione” di Schultz, perché è quello che più di tutti fatica a incastrarsi negli schemi sociali. Lucy, Violet e Patty, invece, l’ordinaria Patty, sono perfettamente allineate, “senza incrinature”, tutte prese dalle loro chiacchiere e dalle “sedute ipnotiche davanti al televisore”.

Il saggio di Eco, introduzione alla prima edizione italiana dei Peanuts, è del 1963. Piperita Patty non ha ancora fatto la sua comparsa. Quando appare, gli equilibri del microcosmo Peanuts cambiano ancora: striscia dopo striscia, infatti, Schultz le cuce addosso una quantità di dettagli che sbalzano a tutto tondo la sua fisionomia e le assegnano un carattere, una storia personale e un ruolo di tutto rispetto. Se il timido Charlie fugge continuamente da quel che ci si aspetta da lui, l’intrepida e individualista Piperita Patty sembra nata per bruciare tutte le basi, e far saltare gli schemi dall’interno.

Ecco che, scopriamo, la strana ragazza dell’altro quartiere (ancora un tratto marcato) si addormenta sul banco di scuola perché aspetta sveglia, ogni sera, il padre che torna dal lavoro – ed è proprio lui che le ha regalato i sandali di cui va orgogliosa e che indossa sempre, ostinatamente, in ogni stagione. E quella che all’inizio sembrava solo bizzarria vestimentaria diventa presto rivendicazione attiva: in una striscia del 1972, infatti, Piperita finisce persino dal preside per il suo abbigliamento “non conforme” e lo difende con fermezza, schierandosi contro l’obbligo di un dress code scolastico – con il fido Snoopy come suo avvocato.

È sempre lei, poi, a battersi contro ogni discriminazione di genere, in particolare nello sport (una striscia la vede infilare un lungo elenco di atlete messe in ombra dalle cronache sportive, come la tennista Billie Jean King o la golfista JoAnne Carner) o a impegnarsi per le pari opportunità a scuola. Senza dimenticare che nella sua squadra di baseball, oltre a Marcie, c’è spazio per José Peterson, metà messicano e metà svedese, oltre che per l’afroamericano Franklin.

Quella strana ragazza, insomma, che a detta di Schultz poteva portare avanti un’altra striscia da sola (così riporta Simon Beecroft in The Peanuts Book. A Visual History of the Iconic Comic Strip), in fondo, tra una vignetta e l’altra, protagonista lo è stata davvero. A modo suo.

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Schroeder | Pietro Scarnera

Quando compare per la prima volta nelle strisce dei Peanuts, il 30 maggio 1951, Schroeder è un bambino più piccolo degli altri e non ha ancora manifestato le sue doti da musicista. Ma già nel settembre di quell’anno è Charlie Brown a regalargli un pianoforte giocattolo, su cui subito Schroeder è in grado di eseguire complicatissime partiture. Poi Schroeder viene presto portato alla stessa età degli altri Peanuts e inizia sfoggiare la sua classica maglietta a righe. Anche se in quanto bambino prodigio dovrebbe ricordarci di più Mozart, Schroeder nutre una venerazione per Ludwig Van Beethoven: cresce ascoltando la sua biografia invece delle favole e ogni 16 dicembre celebra il compleanno del compositore, di cui possiede tutta una serie di busti, che a volte colloca sul suo pianoforte. Beethoven diventa così uno dei rarissimi adulti a comparire nelle strisce dei Peanuts, anche se sempre sotto forma di statua.

Schroeder non è solo un musicista - è ricevitore nella squadra di baseball ed è anche un giocatore di hockey - ma si trova nella sua dimensione solo quando è seduto, con la testa china, davanti al suo pianoforte. Parliamo un momento di questo strumento straordinario. Si tratta in realtà di un comunissimo pianoforte giocattolo - Charles Shulz ebbe l’idea di disegnarlo vedendo sua figlia Meredith suonarne uno - che emette un banale plink plink se suonato da altri personaggi. Solo Schroeder è in grado di eseguirvi Beethoven o Chopin, dote tanto più straordinaria se si pensa che i tasti neri dello strumento sono finti, sono solo dipinti, come veniamo a sapere in una delle prime strisce in cui compare lo strumento. “Bisogna indovinare le pause”, dice Schroeder a Charlie Brown spiegando il suo segreto (You gotta get the breaks nell’originale: una frase più adatta a un jazzista, ma vuol dire anche “bisogna avere fortuna”), ma in altre strisce ci fa sapere che si esercita dieci ore al giorno. Ma quando viene messo di fronte a un vero pianoforte, Schroeder va in crisi.

Il pianoforte giocattolo di Schroeder è uno dei luoghi di aggregazione per gli altri personaggi - uno dei principali “set” della striscia, potremmo dire. Nella sua serietà e (almeno apparente) razionalità, Schroeder è perfetto per fare da contraltare ai personaggi più passionali ed emotivi dei Peanuts, a partire da Lucy, che è perdutamente innamorata di lui: “Mai innamorarsi di un musicista”, si ripete inconsolabile. Ma anche i personaggi-animali, Snoopy e l’uccellino Woodstock, sono attirati dalla musica di Schroeder. Snoopy in particolare è un amante di Chopin.

Così il pianoforte giocattolo diventa un oggetto di scena su cui Snoopy può ballare e Lucy appoggiarsi mentre si strugge per il suo amore non corrisposto. Schroeder però può decidere di ritrarlo improvvisamente (KLUNK!) o in casi estremi di lanciarlo o distruggerlo sulla testa di qualcuno. E poi il pianoforte di Schroeder ha una particolarità: le note e i pentagrammi che emette hanno una loro consistenza fisica. Snoopy ad esempio può ballare sulle note o aggrovigliarsi tra le righe del pentagramma.

Credo sia questo uno dei segreti della longevità dei Peanuts. La gag del bambino piccolo che produce partiture elaboratissime avrebbe potuto esaurirsi in due o tre strisce, invece Schulz ha continuato a lavorarci, come dire spostando note e pentagrammi dal livello del testo a quello del disegno e creando così una fonte inesauribile di idee. Fino all’ultima apparizione di Schroeder, il 4 settembre 1999, dove multipli Snoopy finiscono per sostituirsi alle note suonate dal piccolo pianista.

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Snoopy | Vittorio Lingiardi

«Felicità è un cucciolo caldo». Ci sono mille motivi per amare Snoopy e ciascuno ha il suo. Anche perché Snoopy è un vero trasformista, uno e mille. Si contano decine di alter-ego, compresi un astronauta e una danzatrice. È uno scrittore («Era una notte buia e tempestosa»), un lettore (legge Guerra e pace al ritmo di una parola al giorno), un avvocato. È l’Asso Volante che combatte contro il Barone Rosso e il leader del campus Joe Cool, anima della festa. È il pigro bracchetto (in verità un beagle) che fa il suo pisolino sul tetto della cuccia e aspetta la ciotola portata dal suo paziente padrone Charlie Brown. I miei Snoopy preferiti sono il ballerino irrefrenabile («To live is to dance, to dance is to live») e l’amico di Woodstock, l’uccellino giallo. Del quale è una specie di madre adottiva: la vera mamma di Woodstock aveva fatto il nido sulla pancia di Snoopy e l’aveva lasciato lì. Snoopy aveva cercato di liberarsene, ma Woodstock era tornato. In fondo tutta l’opera di Schulz è una storia di genitori mancanti e di diversità. C’è una striscia in cui i bambini fano a palle di neve. Snoopy se ne sta in disparte, ma vorrebbe giocare con loro. «Improvvisamente il cane realizzò che il suo papà non gli aveva mai insegnato come si tirano le palle di neve». 

Snoopy che porta in Vespa Woodstock è la mia immagine su Whatsapp. Indossano il casco e sorridono al viaggio che li attende. Una piccola avventura è una grande avventura. Quando Snoopy racconta una barzelletta a Woodstock ridono così forte che finiscono per cadere dalla cuccia. A volte Woodstock dorme sul naso di Snoopy, e Snoopy conclude laconicamente: «Mai dividere il tuo giaciglio con un uccello irrequieto».

Snoopy (che significa curioso, ficcanaso) nasce il 4 ottobre 1950 e dunque è una Bilancia, come me. Per disegnarlo, e dotarlo di un carattere, Schulz si è ispirato a Spike, il cane di quando era bambino. 

Psicologicamente, Snoopy è un tipico estroverso. Di lui mi piace il narcisismo ingenuo, infantile, onnipotente. Sogna di essere tutto perché vuole inventarsi la vita, crederci. È spontaneo, elegante, sicuro di sé. Ha un mondo interiore ricchissimo. Non riesce a non dire la sua. Così come Charlie Brown è depresso e disilluso, Snoopy è ipomaniacale e pieno di sogni alla Walter Mitty. È evidente che sono entrambi soli e bisognosi d’affetto, ma reagiscono in modi opposti. Schulz diceva che una delle principali caratteristiche di Snoopy è la propensione a rifugiarsi nella fantasia. «Si ritira nel suo mondo fantastico per sopravvivere. Altrimenti, condurrebbe una vita noiosa e miserabile. Non invidio la vita che fanno i cani». Da qui il gusto per i travestimenti e le avventure. Daniel Mendelsohn dice che Snoopy è «così preso da sé stesso da non rendersi conto di non essere un umano». Ma nonostante la megalomania e la propensione a prendersi gioco del suo padrone (di cui non ricorda mai il nome e si riferisce a lui come “il ragazzo dalla testa rotonda”), alla fine è un cucciolo leale e capace di amare. E un battutista geniale: «Sebbene suo marito andasse spesso in viaggio per affari, ella odiava stare sola. – Ho risolto il nostro problema, – disse egli. – Ti ho comprato un san Bernardo. Si chiama Estrema Riluttanza. Adesso, quando vado via, sai che ti lascio con Estrema Riluttanza! – Ella lo colpì con un mestolo».

Un grande fan di Snoopy è Jonathan Franzen, sentitelo: 

 

Come quasi tutti i bambini americani di dieci anni, avevo una relazione intensa e privata con Snoopy, il bracchetto del fumetto. Era un animale non-animale solitario che viveva in mezzo a creature più grandi di una specie differente, e ciò corrispondeva pressappoco a come mi sentivo io in casa […] La mia passione per gli animali di peluche stava diventando poco appropriata alla mia età. Era un altro punto che avevo in comune con Snoopy: anche lui amava i giochi con gli animali. Faceva la tigre, l’avvoltoio, il puma, il pescecane, i mostri marini, il pitone, la mucca, il piranha, il pinguino e il pipistrello-vampiro. Era il perfetto egoista solare, che faceva l’eroe nelle sue ridicole fantasie e si pasceva delle attenzioni altrui. In un fumetto pieno di bambini, il cane era il personaggio che vedevo più simile a un bambino.

C’è una striscia meravigliosa in cui Charlie Brown porta alla maestra un compito a casa, un tema, scritto su un foglio tutto ciancicato. E quando la maestra gli domanda se per caso glielo ha mangiato il cane, lui risponde, orgoglioso e sconfitto, «No, me lo ha scritto». Snoopy immagina anche di poter parlare e i suoi “bleah” e “woof” sono grandi sintesi filosofiche. I suoi pensieri appaiono dentro la nuvola del fumetto, noi li leggiamo ma nessuno li può ascoltare. L’unico che lo capisce è Woodstock, l’altro non umano della società senza adulti disegnata da Schulz. In cambio, Snoopy sa perfettamente decifrare la lingua cinguettante dell’uccellino. 

Schulz detestava il nome Peanuts, che gli fu imposto dall’United Feature Syndicate, e evitava di usarlo. «Se qualcuno mi chiede che cosa faccio, la mia risposta è sempre la stessa: “Disegno quei fumetti con Snoopy, cioè Charlie Brown e il suo cane”». Una risposta che rende al volo l’importanza di Snoopy nel mondo di Schulz. E dunque nel nostro. 

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