Ritratto di Franco Arminio

24 Ottobre 2011

È difficile fare un ritratto di Franco Arminio. Servirebbe che stesse fermo almeno un attimo, che si limitasse a fare una cosa, o due, non di più. Ma per fermarlo bisognerebbe legarlo. Anche a scattargli un’istantanea verrebbe solo una scia: di un atto o di un gesto, più che un’incerta silhouette della figura; la traccia di una sfaccettatura più che di una faccia. Ma proprio questo potrebbe essere un tratto che lo caratterizza. Invece della descrizione di come è, a definirlo meglio è allora l’insieme di ciò che fa, con i suoi effetti: cosa che negli ultimi decenni agli scrittori capita sempre meno, e con sempre minore incisività. Normale, con i mutamenti della società e delle forme di comunicazione, spiegano gli esegeti più autorevoli. Ciò non toglie che a molti, incluso il sottoscritto, questo non piaccia. Senza nostalgia; per l’oggi e per il domani. Armino, mi pare, è uno che la pensa così: e si comporta di conseguenza.

 

Comportarsi con coerenza, qui, significa agire nei campi di competenza in modo che l’effetto dell’azione non si fermi ad essi. E se già non ci sono, quei campi, inventarli. Per esempio, per Arminio, il campo di partenza era scrivere, obbedire all’impulso che lo portava a scrivere, sempre e di tutto; ma la geografia al suo interno non lo soddisfaceva, e allora ha inventato insieme un metodo e un territorio. Il territorio di quel metodo: la paesologia. E l’ha applicata al proprio di territorio, ai suoi paesi, e a Bisaccia in primis.

 

Quando ho letto qualcosa di suo per la prima volta, nel 2000, in preparazione di un numero di “Nuova prosa” dedicato ai Luoghi, questo campo non era ancora ben definito e i suoi testi, che sarebbero poi confluiti in Viaggio nel cratere (Sironi, 2003), per non sbagliare li ho inseriti nella sezione Narrazioni. Tanto lì ci sta tutto. Lo conoscevano in pochi, allora, ma già ne aveva compreso il valore Gianni Celati, che lo aveva precocemente incluso in Narratori delle riserve (Feltrinelli, 1992).

 

Sembra che il territorio della paesologia sia ristretto, ma quando è nuovo il metodo, c’è tutto un mondo da scoprire all’interno del mondo stesso che si conosce: e questo finisce per dire molto anche sul resto, del mondo. Una piccola rivoluzione epistemologica, se si vuole. Microscopica? Forse. Ma rivoluzione. Non a caso, in poco tempo, molti hanno preso a seguirlo, bene o male, su questa via: è uno squarcio. Un’altra visione. Altra aria.

 

Il modo d’approccio cambia l’oggetto; parlare dei paesi non è nuovo: lo è parlarne mettendosi dentro in tutto e per tutto e lasciandosi di conseguenza permeare fin nel profondo, accettandone di rimando tutte le sollecitazioni per ricavare proprio da lì l’istanza interpretativa. Nel cratere. Da poeta. Ma anche da antropologo: che persegue un’antropologia delle viscere, però. E che allora non può evitare di schierarsi, di farsi anche gesto politico, che si articola sul fuori e vi trova senso (uno dei sensi). Un gesto doppio, ma con nessuna componete subordinata all’altra: dentro il campo della scrittura e come azione politica, senza un prima e un poi, senza un sopra e un sotto per finalità e valore.

 

La circoscrizione del territorio in questo è fondamentale, la sua definizione ristretta, che costringe alla concretezza, al confronto effettivo con i luoghi e le persone. Senza generalizzazioni (il che non significa senza passibilità di astrazione). Il luogo è quello che mi appartiene e a cui appartengo. È il mio nella misura in cui io sono suo. Ma al di fuori di qualsivoglia pretesa di possesso: senza che niente sia mio e viceversa che io sia di qualcosa.

 

L’ipocondria, che viene dalle viscere e vi torna, è la forza di questo rapporto ma anche ciò che gli sfugge da ogni lato e sotto varie forme impedendo che sia esclusivo e irrigidito. Volteggia, ruota, gioca e rischia, come in un circo: e Circo dell’ipocondria titola infatti un altro dei suoi libri più importanti (Le lettere, 2006, con il dvd La terra dei paesi: uno dei suoi numerosi documentari, un’altra delle forme che prende la sua attività)

 

Arminio viaggia nel cratere, e per questo non si tiene mai dentro di sé, non ci sta proprio, e esplode nelle forme più varie (tutte, meno quella del romanzo, che oggi sembra diventato un obbligo: un altro dei suoi meriti, e non dei minori), a volte rutilanti appunto come in un circo, altre cupe come nell’ipocondria da manuale. Che peraltro è ciclotimica, come si sa. E pure ossessiva, nel suo caso (ma amabile, secondo la mia esperienza).

 

Arminio è uno dei pochissimi che l’ossessione ce l’hanno davvero; senza alcun bisogno di esibirla quindi. L’ossessione della scrittura dico: già anni fa mi diceva (e ci credo alla lettera) che aveva venti o trenta sacchi neri della spazzatura pieni di suoi scritti. Preferisco non immaginare adesso. Poi però il difficile è scegliere. C’è da dire che nel frattempo l’attenzione per la sua opera e la sua figura si è moltiplicata, come i suoi film e libri, e quindi il lavoro di ripulitura e di scelta dovrebbe aver favorito un rallentamento dell’attività, che anche dal punto di vista sociale (incontri, interventi sul territorio, promozione di azioni collettive...) non ha avuto pause. Ma non ci credo poi tanto. Non fatico a pensarlo, come nelle oleografie romantiche (quelle sulle quali solo l’invidia induce a sorridere), che si alza ancora di notte o al mattino prestissimo, o si ferma per strada, si sedersi da qualche parte, spegne il motore o la telecamera, e scrive e scrive: poesie, ricordi, descrizioni, brevi storie, articoli, appelli, denunce, dialoghi, confessioni. E niente di superfluo o di decorativo; tutto, a modo suo, necessario (per questo non mi viene da sorridere, nemmeno di tenerezza).

 

E non importa quanto i suoi testi possano essere discontinui (e a volte lo sono: come non può evitare chi è onnivoro e compulsivo): in ogni cosa che scrive o fa, lui passa, - c’è. C’è tutto, con la sua carne e quella della sua e nostra terra (Terracarne, appena uscito da Mondadori è il suo ultimo titolo). E c’è per noi. Ci riguarda come riguarda lui. E noi sentiamo questa afferenza: questo affetto e questa folata. Questo vento, forte come quello dell’Irpinia d’Oriente.

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