5 per mille

Tomaso Binga euforico

24 Giugno 2025

Non l’ho fatta io, ma sono io”. Entusiasticamente, o meglio, euforicamente, dichiara Tomaso(Bianca) Binga(Pucciarelli), riferendosi alla grande personale ospitata nelle diciotto sale dell’ultimo piano del Museo MADRE di Napoli. Seppur si presenti come un’ampia retrospettiva, di fatto vuole superare i limiti che un simile impianto potrebbe porre. Dacché, i due lunghi anni di ricerca di archivio, tanti sono stati quelli necessari per la curatrice Eva Fabbris, insieme a Daria Kahn, per dare un certo ordine alla vasta produzione artistica di Tomaso Binga nel corso dei suoi cinquant’anni di carriera, sono, principalmente, un punto di partenza. Primariamente, per la corretta e giusta ri-collocazione storico-artistica della lunga attività di Tomaso Binga, quanto mai urgente se si pensa che, in alcuni manuali già di questo millennio, per quanto accurati, era la grande assente, come Maria Lai o Anna Paparetti, solo per citare alcuni nomi di artiste di quegli anni, dimenticate dalla storia dell’arte e recentemente sfilate dall’oblio. 

j
Euforia Tomaso Binga, Museo Madre, ph Amedeo Benestante.

Un’ampia ricerca di archivio, altresì necessaria, per sottolineare come, per alcune istanze e risoluzioni artistico-linguistiche, sia quanto mai attuale nel corrente panorama culturale. “Una volontà, quindi, di presentizzazione”, precisa la curatrice. Panorama in cui il dibattito su temi quali l’identità e, relativamente, il linguaggio, insieme alla riflessione sull’oggettivizzazione della donna, indiscutibilmente occupano, da alcuni anni, grande spazio di confronto/scontro nella discussione pubblica. Una carriera artistica, quella di Tomaso Binga, che, sin dagli esordi (relativamente tardivi, se si pensa che i primi lavori risalgono agli anni Settanta, quando aveva circa quarant’anni), ha subito fissato le principali rotte della sua ricerca. Perché il suo “ingresso in società”, nonostante operasse già dai primi anni Sessanta, può essere fissato al 1971, anno a cui risalgono la sua prima mostra pubblica L’oggetto reattivo nello Studio Oggetto di Caserta, con i primi esperimenti di scrittura desemantizzata e l’assunzione del nome maschile del suo alter ego artistico, poi suggellato il 15 giugno 1977. Allorquando Bianca Pucciarelli in Menna (di origine salernitana, classe 1931, a Roma già sul finire degli anni Cinquanta, insieme al marito Filiberto Menna, sposato nel ’59), contrae matrimonio con Tomaso Binga, durante la performance Oggi Spose nella galleria Campo D. Azione performativa, certo, ma di un innegabile peso politico, perfettamente in linea con le rivendicazioni femministe di autodeterminazione dei propri corpi, largamente dibattute in quel periodo. Ma non solo. Da quel momento, infatti, solamente il nome Tomaso Binga (che contiene il personale omaggio all’artista futurista Marinetti da lei fortemente ammirato, come attestano anche i primissimi lavori, quali disegni e piccole ceramiche in mostra, di innegabile derivazione futurista) comparirà come firma nei suoi lavori. Certamente un po’ per provocazione, come tanta parte della sua produzione, ma di sicuro per denunciare lo stato delle cose. 

j
Tomaso Binga,Vorrei essere un vigile urbano, 1995, Fotografia della performance, Courtesy Archivio Tomaso Binga, Roma.

Nel mondo dell’arte (e, ahinoi, non solo) di quegli anni, solamente gli artisti di sesso maschile ottenevano una giusta considerazione. È solita, infatti, raccontare che, durante una delle sue prime mostre, un collezionista decise di acquistare delle sue opere soltanto quando seppe che i lavori erano stati realizzati da Tomaso Binga, da un artista uomo, e non da Bianca Pucciarelli “perché era diffusa la convinzione che le donne facessero arte solo per mettersi in bella mostra”. E proprio dal linguaggio, e dalla forte connotazione patriarcale insito in esso, ha preso avvio la quasi totale produzione artistica di Binga. Anche il titolo, nella sua carica gioiosa, racchiude, anzi, incarna, i due fondamentali aspetti di Bianca: la sua costante inclinazione all’allegria e il suo certosino lavoro con le parole, utilizzate alla stessa stregua di qualsiasi altro materiale. Da sempre, nei primi anni scolastici, la parola presa come esempio, perché contenente tutte le vocali, è aiuole. Binga, invece, con un guizzo di profondo acume, individua Euforia. Non solo titolo della mostra, ma anche del libro monografico recentemente pubblicato da Lenz Press che, come l’esposizione, mira a dare un evidente ordine all’intera attività artistica di Binga. E per esprimere questa grande energia “è stato pensato– sottolinea la curatrice – un display che emanasse una forte vitalità”. Ideato dal collettivo di Milano Rio Grande, l’allestimento vede una coppia di fili, rosso e rosa, entrambi a significare passione e forza, attraversare lo spazio. Fili che ora si fanno sedia, ora mensola, abbraccio, labirinto, cornice, porta, battendo una sorta di cadenzato ritmo che si apre e si chiude, come una giocosa vorticosa danza. In questa circolarità, data dalla libertà di percorso, scevro altresì da un andamento cronologico, poiché il visitatore può scegliere se iniziarlo da destra o da sinistra, c’è un punto di incontro. Che è quello della sala centrale, la più grande, dove le due piccole fotografie, con lo Sposo e la Sposa di Oggi Spose, sono il punto di ritrovo e di irradiazione, dove tutto si ricongiunge per espandersi immediatamente, scattare, balzare di nuovo. Dittico non a caso posto insieme a Grafici di Storie d’amore (1973) e Ritratti analogici (1972-1975). Un’ironica valutazione grafica dell’andamento di una relazione sentimentale, registrando gli alti e i bassi, i primi; ritratti di persone amiche dell’artista di cui calligraficamente traccia le iniziali dei nomi, e che accompagna con ritagli di riviste di elementi corporei, i secondi. 

j
Tomaso BingaBianca Menna e Tomaso Binga. Oggi spose, 1977fotografia, stampa su carta alla gelatina ai sali d'argentodittico, cm 19 x 13 (ognuna, senza cornice) Courtesy Tomaso Binga - Archivio Tomaso Binga e Galleria Tiziana Di Caro.
k
Tomaso Binga, Grafici di storie d'amore, 1973, Courtesy Archivio T Binga Roma.

Come detto, l’ingresso è segnato dalle due gigantografie che indicano un inizio di percorso espositivo dove, all’istante, sono chiari gli intenti. Oltre a porre il visitatore di fronte alla scelta della direzione, lo mette davanti alla decisione se “attraversare” o meno il corpo dell’artista. La doppia gigantografia del viso, estrapolato da Io sono Io. Io sono me (1977), è stampata sulle strisce di PVC trasparente a guisa delle tende delle porte di ingresso: due volti, due porte, due ingressi, due direzioni, per addentrarsi nell’universo di Tomaso Binga. Un’opera, Io sono Io. Io sono me, che fornisce diversi indizi dell’intera esposizione. Lo scatto, nato come un dittico a figura intera dell’artista, è stato realizzato da Verita Monselles. Fotografa, nata a Buenos Aires ma stabilitasi a Firenze negli anni Settanta, che, attraverso la fotografia, ha analizzato e denunciato le rappresentazioni stereotipate del femminile. Con lei Binga strinse un solido e proficuo sodalizio anche artistico: a questa grande fotografa, si devono tutti gli scatti degli “alfabeti” e, comunque, di tutte quelle foto in cui appare il corpo di Tomaso Binga (tra cui anche Ecce Homo che suscitò parecchio scandalo). Così, attraverso le centoventi opere selezionate, è tracciato il profilo di un’artista che ha adottato i linguaggi più diversi: dalla poesia visiva, alle performance, dai collage, alle installazioni, alle fotografie; nonché i materiali meno convenzionali: dal polistirolo alla carta da parati, alla dattilografia, alle vaschette portafiale per farmaci, agli sportelli delle buche delle lettere, alla carta da lettere. E proprio a quest’ultimo materiale è consegnato uno tra i lavori più belli e poetici, Ti scrivo solo di domenica (1977-1978): solo di domenica perché è “l’unica giornata femminile della settimana”. 

k
Tomaso Binga, Alfabeto Pop / Ape (Bee), 1977collage su cartoncino prestampato, cm 40 x 27Collezione privata, Courtesy Archivio Tomaso Binga e Galleria Erica Ravenna, Roma

Cinquantadue lettere, scritte durante un’azione performativa domenicale, inviate a una cara amica di cui si ignora l’identità: può essere l’artista stessa ma anche ogni donna, in una visione panica dell’universo femminile. Con la stessa sintesi, che le può far sembrare una versione italiana degli haiku giapponesi, ogni lettera descrive un momento, una riflessione, un’esortazione, una rassicurazione (mia cara amica/la mia porta è/sempre aperta | 19^ domenica) e, tutte insieme, diventano una storia, un racconto, un intimo diario, non scevro da note politiche. Lettere accompagnate/concluse con l’azione performativa tenutasi a Torino nel febbraio 1978. Una forma, quella diaristica, molto cara a Binga, attestata dall’imponente installazione Diario Romano 1895-1995, 1995-2000. Un lavoro in cui si intrecciano casualità e vita quotidiana, l’onirico con la realtà, la memoria col desiderio di non lasciarla svanire. Da un antiquario Binga trova un diario anonimo, datato 1895, appartenuto a una donna, di origine siciliana, trasferita a Roma, sposata con un uomo napoletano, con quattro figli, tre maschi e una femmina. E Binga mette in stretta connessione queste pagine con quelle del suo diario e, così, affiancando le pagine di entrambi i diari, fotocopiate e approntate sulle pareti, crea una relazione tra sé e la donna vissuta prima di lei, in una temporalità dilatata. In questo modo, tali fotocopie così disposte, diventano una sorta di carta da parati. 

k
Euforia Tomaso Binga, Museo Madre, ph Amedeo Benestante.

Come non richiamare Carta da parato (1976), riproposta in mostra? Le pareti della Casa Malagone, completamente rivestite da una carta floreale, sulla quale Binga è intervenuta ricoprendola con la sua caratteristica e originale scrittura desemantizzata. Attraverso quest’intervento personalizza un oggetto solitamente avvertito come invisibile, innescando quell’analogia da sempre assegnata alle donne: l’impercettibilità della donna soprattutto dentro le mura domestiche, a cui è stata comunemente relegata. Aspetto puntualmente evidenziato e sottolineato nella correlata performance in cui Binga, indossando un abito confezionato con la stessa carta, perde del tutto corporeità, mimetizzandosi interamente con lo sfondo. Una scrittura desemantizzata, muta, silenziosa, che, in questi giorni, è il filo conduttore di un’altra personale, sempre a Napoli, nella Galleria Tiziana Di Caro, che da anni è impegnata nella giusta valorizzazione e considerazione dell’artista salernitana. Visitabile fino al 19 settembre 2025, è, infatti, la quarta mostra che la Galleria dedica a Binga, e mutua il titolo proprio da quel dittico che al MADRE segna l’inizio del percorso espositivo, ovvero: Io sono Io. Io sono Me. Concentrandosi, come detto, sulla scrittura che, per Tomaso, “deve agire a prescindere dai significati che essa esprime, o dai suoni che ogni parola emette”, i lavori esposti, in qualche modo, perfettamente integrano e completano quelli del MADRE, proponendo declinazioni singolari. Come Lettere al mittente (1974): sette elementi in legno che ripropongono gli sportelli delle buche delle lettere, da cui fuoriescono altrettante strisce di carta, su cui si stendono i segni di una scrittura sempre più evanescente, strisce che tendono a ritornare verso lo sportello, al mittente, appunto, in una voluta circolarità. Oppure Parole in dissolvenza (1973), nuovamente dei segni tracciati su otto vaschette portafiale, che progressivamente diminuiscono di entità, fino al totale dissolvimento (una modalità che, a chi scrive, ha fortemente i lavori di un’altra grande artista: Ketty La Rocca). 

k
k
Tomaso BingaIo sono io. Io sono me, 1977 fotografia in bianco e nero, inchiostro su carta fotograficaditticocm 40 x 30 (ogni elemento, senza cornice)Collezione privata, MilanoCourtesy Archivio Tomaso Binga e Frittelli Arte Contemporanea.

Oltre ad alcuni lavori appartenenti alle serie dei “Polistiroli” (tra cui quello immensamente poetico Mare, 1974), dei Ritratti Analogici, delle Scritture Arrampicate, degli Scripta Picta, degli Alphasymbol e dei Grafici d’Amore, spiccano Paesaggi e Dattilocodice. Morbide linee che attraversano il foglio, ora di carta argentata ora di carta martellata, il cui movimento sinuoso è accompagnato da leggere e impercettibili segni grafici, i primi. Mentre, nei secondi, con un’impostazione che ricordano la leggerezza delle composizioni orientali, i grafemi dattiloscritti sembrano assumere il ruolo di elementi atmosferici (nuvole, cielo, pioggia) per completare e accompagnare le immagini poste in basso. Grafemi che nascono da un errore, che ha dato vita a qualcosa di nuovo: sperimentando le possibilità della macchina da scrivere, erroneamente batte su un segno, un secondo segno, generando, così, un grafema inedito. Ritornando al MADRE, tra i lavori esposti, senza dubbio, per la loro valenza oltre che artistica, anche politica e culturale, spiccano gli Alfabeti nonché i cosiddetti Polistiroli

k
Tomaso Binga, Stringatoio, 1974, vernice bianca e pennarello su legno cm 59 × 24, Courtesy Archivio Tomaso Binga, Roma.

Nelle riflessioni sull’oggettivazione della donna e sull’uso della parola, con la preziosa collaborazione di Verita Monselles, Binga ha estremizzato tali concetti, trasformando il proprio corpo in lettere dell’alfabeto, inserito nei noti abbecedari scolastici, intervenendo altresì sulle parole solitamente inserite insieme a un disegno per rendere evidente l’associazione lettera/parola. Di lunga tradizione didattica, nel corso dei secoli, sono stati anche uno strumento morale e religioso. Lettere che hanno accompagnato fogli ricoperti dalla sua nota scrittura desemantizzata (la quale non ha alcun legame con la pratica verbo visiva degli anni 70). Corpo-lettere che hanno dato forma alla Scrittura vivente (1975), alla Scrittura arrampicata (1976), all’Alfabetiere murale (1976), all’Alfabeto pop (1976), alle Lettere in cornice (1977), all’Alfabeto officinale (1982). Sempre attenta alle novità, ha subito colto l’originalità degli imballaggi in polistirolo. Utilizzandoli, ne inverte il significato: materiale povero di scarto che, invece, viene nobilitato attraverso l’intervento artistico; umili contenitori utilizzati per il trasporto di merci, trasportano ora oggetti preziosi: un ritratto, una lettera, un corpo, il mare.

j
Tomaso Binga, Alfabeto pop, F di Fiori, 1976–1977collage su cartoncino prestampato, cm 39.5 × 26.5, Courtesy Archivio Tomaso Binga, Roma.

Altro aspetto molto interessante della mostra è la presenza dei video o degli audio, attraverso i quali si possono nuovamente ammirare le grandi capacità performative di Binga nonché la sua interpretazione delle sue straordinarie poesie. Una mostra che in filigrana descrive tutta la portata innovativa e di grande rottura culturale degli anni Settanta, ampliando quei filoni artistici molto attivi a Roma da Lamberto Pignotti, a Giosetta Fioroni a Carla Accardi, per citare solo alcuni artisti che attestano la vivacità artistica di anni che hanno fortemente messo in discussione i meccanismi culturali dell’epoca, mostrando che il re era nudo. E che, per questo, mantengono tuttora una grande freschezza e attualità.

Tomaso Binga | EUFORIA, a cura di Eva Fabbris con Daria Kahn
Napoli, MADRE fino al 22 luglio 2025.

In copertina, Ritratto di Tomaso Binga, mostra Playgraphies, Galleria La Cuba d'Oro, Roma, 2001, Courtesy Tomaso Binga, Archivio Tomaso Binga.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO
TAGGED: Tomaso Binga