Alighiero e Boetti, raddoppiare dimezzando

25 Novembre 2024

Così, in una cartolina manoscritta, accompagnata da un bozzetto, della fine degli anni Sessanta, Alighiero Boetti stila una lista di ciò che associa o gli suggerisce la lettera E.

ALIGHIERO E?   BOETTI
ERNESTO
EUSEBIO
EUSTORGIO
EROE
EROICO
EROTICO
ENNESIMO
ENFATICO
ELONGATO
ESIMIO
ETTORE
ELITTICO
ERETTO
ECCO
ELEFANTE

 

Quella lettera, divenuta poi congiunzione tra il suo nome e il suo cognome, ma anche distinzione, frattura, somma, indica un concetto fondante di tutta la sua produzione artistica e, ancor di più, della sua generale visione della vita. È, infatti, dal 1971 che Alighiero Fabrizio Boetti inizia a firmarsi Alighiero e Boetti (per giungere alla variante Alighiero & Boetti, assunta in occasione della retrospettiva alla Pinacoteca Comunale di Ravenna curata da Alberto Boatto nel 1984) con la specifica volontà di sottolineare il personale sdoppiamento tra la sfera privata di Alighiero e quella pubblica, come artista, di Boetti. Oltre a realizzare la perfetta quadratura del suo nome e cognome, altresì segnala una profonda indagine di autocoscienza. Un percorso che vede il compimento con il suo arrivo nella Capitale, nell’ottobre del 1972 (anche se aveva già preso parte, nel 1970, alla mostra Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960-1970, a cura di Achille Bonito Oliva, esponendo Cimento dell’armonia e dell’invenzione), che per l’artista torinese significa trovare quella giusta atmosfera di fermento e libertà artistica di cui tanto sentiva il desiderio e la necessità: “mi sono sbarazzato del rigore eccessivo secondo il quale da un’idea si doveva trarre un unico lavoro e da quel momento ho preso la via opposta: la profusione”. 

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Alighiero Boetti, Gemelli, 1968.

E sempre nel 1971 inizia a inviare Telegrammi, che spedirà, e lo accompagneranno, per tutta la sua esistenza. Anni in cui subentrano anche nuove tecniche, come il ricamo, al quale si avvicina durante il suo primo viaggio a Kabul, dove si recherà almeno una volta l’anno, fino al 1979 quando si verifica l’invasione sovietica. Dove aveva aperto il famoso One Hotel. Che gli offrì l’opportunità di conoscere Salman Ali, suo collaboratore ed amico stretto, componente a tutti gli effetti della famiglia Boetti, allorquando nel 1972 si trasferì nella casa dell’artista a Roma. Tuttavia, è proprio nel lavoro Estate 70, che viene fissato il momento di rottura: attraverso il lungo lavoro su carta (di oltre venti metri) sperimenta all’infinto la combinazione con i pallini colorati e la gioia del colore, quel colore che ri-trova a Roma. Trasferimento che, inoltre, coincide anche col risolutivo allontanamento dall’Arte Povera, che lo aveva visto tra i principali protagonisti (basti ricordare che, nel 1968, aveva partecipato alla mostra Arte Povera presso la Galleria de’ Foscherari a Bologna e, nel 1969, espone nella leggendaria collettiva When Attitude Become Form, curata da Harald Szeemann nella Kunsthalle di Berna), per approdare sulle sponde dell’Arte Concettuale. 

Direzione che in qualche modo inizia a delinearsi già in Gemelli (1968), l’iconica immagine che maggiormente incarna lo spirito di AB. Ottenuta mediante un fotomontaggio in bianco e nero, raffigura Alighiero Boetti che tiene per mano Alighiero Boetti: più ordinato e pettinato l’uno, più scarmigliato l’altro. Foto che da sola incarna alcuni dei perni fondanti della pratica di AB: l’azione performativa, la ripetizione, la serialità, il doppio (non nell’accezione di doppëlganger, ma come manifestazione di differenti possibilità), l’autorialità, la mail art. Stampata nel formato standard delle cartoline 15x10, in cinquanta esemplari firmati e non numerati, AB l’ha spedita ad altrettanti amici, con frasi originali e non canoniche, come “De-cantiamoci su” (tra l’altro inviata il 1.10.68 a Plinio De Martiis presso la Galleria La Tartaruga) o “Non marsalarti”. Un’opera che è opportuno ricordare, da sempre è parte della sequenza di sue opere e di appunti di lavoro come Il Muro. Creato a partire dal 1972, su una parete dell’appartamento a Trastevere, lo ha seguito in ogni trasloco, con piccole varianti, in quanto opera viva e aperta, efficacemente definito da Laura Cherubini “un’iconostasi privata della sua esistenza”. Una sorta di taccuino, di diario, di appunti, che si costruisce per accumulo perché, per Marco Tirelli, “l’opera di Boetti si faceva nel tempo”. 

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Alighiero Boetti. Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969 - 1992.

Un’opera(non-opera) capace di attestare tre elementi chiave della poetica boettiana: il tempo, la contemplazione e la paternità dell’opera. Esposto solo tre volte quando Boetti era ancora in vita (presso i Chiostri di Voltorre a Gavirate nel 1979; nella Galleria AAM /Architettura Arte Moderna nel 1982; a Lucerna, nel 1993), è poi stato mostrato anche in altre occasioni (a Ginevra, nel 2013; a Londra, nel 2016; a Milano, tra il 2019 e il 2020). Ed è un fedele ed emozionante ritratto del modo di agire e pensare di AB, composto da poco meno di ottanta elementi, tra i più disparati, dall’articolo di giornale alla foto, ai fogli di un calendario, banconote, disegni, anche di Agata Boetti, e così via, tutti incorniciati e sotto vetro, che, in questi giorni, può essere ammirato negli spazi della galleria Tornabuoni, nella mostra Cabinet de curiosités (6 novembre 2024 – 22 febbraio 2025), organizzata in collaborazione con Agata Boetti e l’Archivio Alighiero Boetti (fondato nel 1995). Una mostra che riesce ad essere il perfetto completamento di Raddoppiare dimezzando, magistralmente allestita nell’Accademia Nazionale di San Luca (29 ottobre 2024 – 15 febbraio 2025), curata da Marco Tirelli e Caterina Raganelli Boetti e la Fondazione Alighiero Boetti (fondata nel 2014). Progettate per celebrare i trent’anni della scomparsa dell’artista torinese (Torino 1940 – Roma 1994), entrambe, magnificamente, delineano non solo alcune tappe e tratti salienti dell’attività di AB, ma anche un puntuale “autoritratto” di Alighiero. 

Una descrizione che prende maggiore consistenza e volume anche grazie ai personali ricordi di Agata Boetti (primogenita di AB e Anne Marie Sauzeau Boetti, sua compagna per 22 anni, conosciuta nel 1962, a Vallauris, durante i suoi viaggi per il commercio dei pregiati vasi di quella città, e sposata nel 1964. Unione dalla quale nacquero, appunto, Agata (1967) e Matteo (1972). Mentre al 1990 risalgono le nozze con Caterina Raganelli Boetti, e al 1992 la nascita di Giordano). Impegnata da anni nell’Archivio, per l’archiviazione delle opere di AB, Agata Boetti ha adottato quella che in qualche modo rispecchia lo stesso Boetti: archiviare senza una gerarchia, come ha sempre fatto lui, che poneva sul medesimo livello un suo disegno, come una tasca ricamata di una giacca afghana, o il suo ritratto realizzato da Salvo. Modalità che Il Muro ben evidenzia perché, “se gli piaceva qualcosa – racconta Agata Boetti –, andava dritta nel Muro”. Un magnifico work in progress, che lo ha seguito in tutte le case che di volta in volta ha abitato, e che, ogni volta, cambiava in base alla parete che lo ospitava o all’oggetto nuovo che inseriva o toglieva, congelandosi, ovviamente, nel 1992. 

Siccome ciascun lavoro ha la sua scheda, attualmente l’Archivio ha superato la compilazione di diecimila schede, dalle Mappe alle Biro, dai Ricami alle Edizioni. Anche se, proprio per la pratica di AB, archiviare le opere presenta qualsiasi volta uno studio a sé, per essere un “caso particolare” (come, ad esempio, Le Faccine o Gli Aerei), cui calibrare i criteri più scientifici possibile. Casi particolari, come lo sono i lavori stessi di AB che, per la loro intrinseca natura, escono fuori da qualunque schema e categorizzazione, e definitivamente rompono i confini dei diversi media perché con “tutto, io penso che si possa usare veramente tutto per fare arte”, lapidariamente sentenzia lo stesso Boetti. Che, nonostante avesse voluto distinguere Alighiero da Boetti, in realtà è uno dei pochi artisti che effettivamente ha reso pressoché completa l’osmosi tra Arte e Vita, facendole perfettamente coincidere e combaciare: qualsiasi cosa poteva diventare arte, e arte poteva essere ogni momento della regolare quotidianità, e tutto poteva diventare un’opera. Tracce biografiche che si sedimentano nei suoi lavori e velatamente riemergono in alcune sue pratiche, profondamente influenzate dalla figura materna. Come i Ricami: è risaputo che tali lavori furono eseguiti dalle ricamatrici afghane. Ma il ricamo ha accompagnato la sua infanzia. 

Alighiero Boetti. Cabinet de curiosit és, installation view, Tornabuoni Arte Roma, 2024. Ph. Giorgio Benni, Courtesy Tornabuoni Arte; Archivio Alighiero Boetti.

Perché la madre Adelina, seppur abbia dovuto interrompere la sua possibile carriera di musicista, è stata molto attiva nel far confezionare le personalizzazioni ricamate dei corredi da sposa. O come gli scatti realizzati in uno dei viaggi in Afghanistan, recuperati da Giorgio Colombo. Boetti aveva preso l’abitudine di inserirsi negli scatti che i fotografi di strada realizzavano a chiunque volesse farsi un ritratto in posa, con sfondi di interni. AB si inseriva rivolgendo lo sguardo a chi veniva immortalato nello scatto. E solo in un secondo momento decise di farle diventare opere, con un numero preciso di copie e formato. Arte e quotidianità sono strettamente correlate, e l’intimo entra nella sua arte, come l’iscrizione di un bordo Sciogliersi come neve al sole pensando a te e a noi, del 1983 ne è un insuperabile esempio. Quel sole già entrato nella sua arte con la scultura Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969: scultura realizzata con cemento a presa rapida composto e farfalla cavolaia, composta da 112 elementi che, con i suoi 177cm, idealmente ripropone la silhouette di AB. Titolo che, per la forte portata biografica, immediatamente evoca quello di un altro artista, Giovanni Anselmo, con La mia ombra verso l’infinito dalla cima dello Stromboli durante l’alba del 16 agosto 1965, 1965).

Piccola nota su Giorgio Colombo, divenuto un caro amico che lo ha accompagnato in molte delle sue avventure artistiche: risale a qualche giorno fa la presentazione del libro fotografico Vita di Alighiero Boetti, che racconta la loro trentennale amicizia. Altra piccola nota: nell’immenso archivio del fotografo milanese, ben 14mila sono le immagini con Boetti.

Facendo profondamente propria la filosofia duchampiana, muovendosi senza confini, assolutamente interdisciplinare, e per questo un artista proteiforme, è riduttivo, e non esaustivo, qualsiasi profilo di AB. Non dimentichiamo, infatti, che non solo è un autodidatta, ma che inizialmente aveva intrapreso studi di Economia e Commercio, che si appassionò all’arte tantrica e orientale. Anche se, sicuramente, la folgorazione sulla via di Damasco, risale agli anni in cui iniziò a frequentare la Galleria Notizia di Luciano Pistoi. E la sua prima personale risale al 1967 nella Galleria Christian Stein di Torino. Similmente l’analisi di quei lavori che maggiormente lo hanno reso famoso, come le Mappe, gli Arazzi (è recente il successo dell’Asta Bolaffi che ha battuto Senza titolo (Segno e disegno) a 800 mila euro), si trasforma in un procedere per scatole cinesi, perché ciascuno racchiude una storia, una riflessione, un’indagine, un passaggio, un’associazione, un prima e un dopo. 

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Alighiero Boetti, Storia naturale della miltiplicazione, 1974/75.

Un linguaggio semplice, quello di Boetti, che può essere interpretato sia nella sua forma letteraria, che in quella simbolica concettuale. Seppure qualche opera esplicitamente indica l’epoca di appartenenza, nonostante gli anni trascorsi dalla loro realizzazione mantengono una grande forza di attualità. “Perché la grande capacità di Boetti – come da sempre dichiara Agata Boetti – è far vedere la bellezza di quello che abbiamo da sempre davanti agli occhi e che non abbiamo avuto il tempo di osservare”, facendo cose senza inventare, perché “penso di fare dei lavori che tutti potrebbero fare e che poi stranamente nessuno fa”. Ecco, allora, la leggerezza delle sue quadrettature su fogli a quadretti, o la fascinazione della fotocopia. O lo Zoo, “safari domestico”, gioco serio, e perciò accompagnato dalla lettera dattiloscritta da Agata, Matteo e Alighiero Boetti. O l’impossibile progetto (cui ha dedicato sette anni) di classificare i fiumi più lunghi della terra, ordinandone 1.000 nel Libro dei mille fiumi più lunghi del mondo (1977). Idea che in qualche modo gli deriva anche dal sentirsi discendente da un avo geografo esploratore. Una schematizzazione, una riduzione all’essenziale delle forme, in cui AB “non cercava l’azzeramento – afferma Marco Tirelli–, anzi, cercava ovunque l’inscindibile tensione tra l’uno, il suo doppio e il molteplice”. Quella quotidianità che trasuda anche nell’imponente e meravigliosa Opera Postale (De bouche à oreille), 1993, che già citando i numeri ne fa intuire la grandiosità: 506 buste affrancate e timbrate, accompagnate da 506 disegni a tecnica mista su carta, per un totale di 539 elementi complessivi, incorniciati e sottovetro. Che letteralmente ricoprono per intero le pareti del salone d’onore dell’Accademia il quale, per l’occasione, ha radicalmente stravolto la propria fisionomia, addirittura con la tamponatura delle finestre. Lavoro che, insieme alla scultura bronzea Autoritratto, sempre del 1993, può essere letto come il suo prezioso straordinario testamento artistico.

Alighiero e Boetti – Raddoppiare Dimezzando
Roma, Accademia Nazionale di San Luca
fino 15 febbraio 2025
a cura di Marco Tirelli e Caterina Raganelli Boetti

Alighiero Boetti – Cabinet de curiosités
Roma, Tornabuoni Arte
fino al 22 febbraio 2025

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In copertina, Alighiero Boetti. Cabinet de curiosit és, installation view, Tornabuoni Arte Roma, 2024. Ph. Giorgio Benni, Courtesy Tornabuoni Arte; Archivio Alighiero Boetti.

 

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