I mondi liminali di Pierre Huyghe

8 Luglio 2024

Lasciato alle spalle l’abbacinante sole che rimbalza sulle nivee pareti della seicentesca basilica di Santa Maria della Salute, sono necessari alcuni secondi affinché gli occhi si abituino al buio pressoché totale degli ambienti di Punta della Dogana. Passata quella manciata di attimi, ugualmente faticano a mettere a fuoco l’evanescente ed etereo video Liminal (2024) della prima sala. E il pavimento terroso aggiunge ulteriore frastornamento. Che, tutto considerato, è il risultato perseguito da Pierre Huyghe. E Liminal – così il titolo della personale veneziana concepita da Pierre Huyghe stesso in stretta collaborazione con la curatrice Anne Stenne – è proprio il punto dove egli vuole porre il visitatore: nello stato transitorio tra due entità, in quei luoghi indeterminati e indefinibili, evocativi, ma non identificabili. A volte, neanche fisicamente raggiungibili né materialmente individuabili, come nel caso di Abyssal Plain (2015-in corso). Presentata alla 14.Biennale di Istanbul, è un’opera che l’artista ha inabissato a circa venti metri sotto il Mar di Marmara, non lontano da Sivriada (anche conosciuta come l’Isola del Cane dove, nel 1910, furono mandati a morire di fame migliaia di cani randagi provenienti da Istanbul), e di cui solo le boe contrassegnano la presenza. Opera formata da un certo numero di oggetti ritrovati, ognuno rappresentante un’epoca di produzione del passato, con i quali ha creato un racconto sommerso. 

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Pierre Huyghe, After ALife Ahead, 2017, Photo credit: Ola Rindal © Pierre Huyghe, by SIAE 202.

Nato nel 1962 a Parigi, ma vive tra New York e Santiago del Cile, Pierre Huyghe non si è mai interessato all’oggetto in sé, ma ha sempre indagato sulle relazioni tra organismi viventi, elementi inerti e tecnologici, per cui, liberamente, spazia dal video all’installazione, a interventi negli spazi pubblici utilizzando, senza alcuna riserva, diversi mezzi espressivi dipendenti dal progetto che prevede di concretizzare. Basti pensare a After ALife Ahead (2017). Per la mostra Skulptur Projekte Münster, creò un’installazione che ha interessato l’intero spazio interno di un enorme impianto alle porte della città tedesca, utilizzato, fino al 2016, come pista di pattinaggio. Un lavoro nel quale ha unito biotecnologia e tecnologia, decostruendo e ricostruendo totalmente l’ambiente architettonico. Attivando processi tra loro strettamente interdipendenti, ha scavato il pavimento, trasformando il terreno in un paesaggio collinare, abitato da alghe, alveari, batteri, dal quale affioravano, in alcuni punti, cemento, argilla, ghiaia, polistirolo, che si andavano a fondere con le parti lasciate intatte. Al centro della grande sala, posizionò una sorta di acquario-incubatrice, al cui interno si attuava un costante e continuo processo di divisione cellulare, accelerato dalle momentanee, quanto apparentemente casuali, aperture a forma di piramidi del soffitto. In un’indotta, nonché precaria simbiosi, l’artista ha così fuso vita biologica, paesaggi reali e simbolici, processi visibili e invisibili. 

Instabili coesistenza e associazione che si ritrovano anche nell’installazione Untilled, presentata a dOCUMENTA.13 (tra i lavori più acclamati della manifestazione del 2012). Costruita con “entità viventi e cose inanimate, fatte e non fatte”, è un’installazione che ha fatto crucciare, e non poco, lo scrittore Enrique Vila-Matas, tanto da riportare la sua esperienza nel libro (un misto tra libro di viaggio, diario e romanzo) dall’eloquente titolo Kassel non invita alla logica, perché in essa ha visto “la stanchezza mortale dell’Occidente”. Un’opera dove, ovviamente, ritorna la circolare interdipendenza tra i vari elementi. In una sezione posta quasi ai margini dell’ordinato Karlsaue, Pierre Huyghe crea una sorta di giardino-concimaia, fintamente reale e realmente finto, abitato da girini (presto rane), formiche, un levriero bianco con una zampa colorata di rosa con due cuccioli, e piante medicinali. Le piante medicinali nutrono le api di un alveare, che liberamente cresce sul volto di una scultura di cemento da giardino nascosta tra l’erba, che in realtà è un nudo di Max Weber. Le api impollinano le piante, anche fuori del giardino conclusus, e producono cera e miele. L’alveare cresce, deformando sempre più il volto della statua. Così, azioni, reazioni e conseguenze, normalmente impercettibili e invisibili, sono poste di fronte allo sguardo del visitatore, durante il loro fattivo svolgimento. 

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Pierre Huyghe, Liminal, 2024 - ongoing. Courtesy the artist and Galerie Chantal Crousel, Marian Goodman Gallery, Hauser & Wirth, Esther Schipper, and TARO NASU © Pierre Huyghe, by SIAE 2023.

Un hic et nunc che, tuttavia, percorre pure ogni lavoro esposto nella Serenissima, sin dall’etereo video già citato Liminal. Riprodotta su un altrettanto impalpabile supporto, una sorta di membrana, di notevoli dimensioni, l’intera proiezione è occupata da una figura umana, senza vestiti, senza volto. Quel cerchio nero sul viso come non può evocare immediatamente la veneziana Moretta? La piccola maschera in velluto nero, riservata esclusivamente alle donne, inizialmente usata dalle dame quando si recavano dalle monache in rispettoso silenzio, perché non permetteva, a chi la indossava, di parlare, in quanto veniva tenuta aderente al viso senza l’uso di lacci, ma mordendo un bottone al suo interno, posizionato proprio all’altezza della bocca. Da qui ha origine il secondo nome di questo accessorio femminile: la Muta. Diffusasi tra le donne veneziane soprattutto tra il XVII e il XVIII secolo, poiché nascondere il volto era considerato un modo per rendersi più misteriosi e, quindi, più affascinanti e, al tempo stesso, consentiva anche il mescolamento tra le diverse classi sociali, soprattutto in quei luoghi promiscui come i teatri e le sale da gioco. In diversi quadri dell’epoca si ritrovano, infatti, raffigurate donne, e in seguito anche uomini, con indosso questa maschera carnevalesca (La Moretta di Felice Boscaratti; Ritratto di dama di scuola veneziana del XVIII secolo; Il Rinoceronte e Ridotto di Pietro Longhi). Circondata dal vuoto, in una simulazione in tempo reale, la figura di Liminal si muove in una superficie senza limiti, e risente delle invisibili informazioni ricevute in tempo reale attraverso dei sensori installati all’interno della grande sala, nonché dagli stimoli provenienti dall’esterno. Questa entità inumana, risultato di un esperimento laboratoriale, accogliendo tali stimoli, mentre cerca nuove sollecitazioni, si evolve e apprende, respingendo le informazioni indesiderate. 

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Pierre Huyghe, Camata, 2024, Courtesy the artist and Galerie Chantal Crousel, Marian Goodman Gallery, Hauser &
Wirth, Esther Schipper, and TARO NASU © Pierre Huyghe, by SIAE 2023.

Pure Human Mask (2014), in pratica, è il risultato di un esperimento. Quello che fece un ristoratore giapponese nell’impiegare, come ultima possibilità per salvare la sua attività commerciale dal fallimento, delle scimmie come camerieri. Huyghe parte da questo spunto reale, per mettere lo spettatore di fronte alle conseguenze di scelte scellerate, che incidono profondamente sugli equilibri ambientali. Infatti, vestita come una cameriera, ma con indosso la caratteristica maschera bianca giapponese, che, solitamente, indica un fantasma, la scimmia appare come uno spettro che tristemente si aggira negli ambienti abbandonati di un ristorante situato nei dintorni della desolata Fukushima, all’indomani del terremoto e della catastrofe nucleare del 2011. Ma è il gigantesco video Camata (2024) quello che, maggiormente, dissimula la realtà, rendendo la finzione verosimile. Con uno sviluppo ipnotico, delle macchine sostenute da machine learning, perlustrano e indagano uno scheletro umano, rimasto insepolto nel deserto di Atacama. L’attività della robotica crea un film che si autogenera e si modifica all’infinito, come altrettanto muta il montaggio, senza un inizio e senza una fine.

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Pierre Huyghe, Camata, 2024, Courtesy the artist and Galerie Chantal Crousel, Marian Goodman Gallery, Hauser &
Wirth, Esther Schipper, and TARO NASU © Pierre Huyghe, by SIAE 2023.

Attraverso immagini tecnicamente perfette, Huyghe costruisce delle narrazioni che fintamente inglobano la vita e le relative esperienze, restituendo una realtà fittizia, ma altrettanto vera e possibile, evidenziando la tematica della falsificazione e manipolazione dell’oggettività, perché concepisce le sue opere come finzioni speculative “mezzi per accedere al possibile o all’impossibile”, da cui emergono altre forme di mondo probabili. 

Pierre Huyghe – Liminal
Venezia, Punta della Dogana
fino al 24.11.2024

In copertina, Pierre Huyghe, Untitled (Human Mask), 2014, Pinault Collection
Courtesy of the artist; Hauser & Wirth, London; Anna Lena Films, Paris © Pierre Huyghe, by SIAE 2023

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