Ucraina, prima della 'tempesta' #2

27 Aprile 2015

Donec’k. 8/11/2013. Arrivai in città intorno alle 6:30 di mattina. Di fronte alla stazione stava un labirinto di capannoni, all’interno dei quali si svolgevano le più svariate attività. Bar, ristoranti, sale di parrucchieri, pizzerie, negozietti di alimentari, di telefonia, di libri. Mi fermai a fare colazione in una di quelle minuscole salette scavate all’interno di quella selva. Avevano scelto un nome francese, forse per differenziarsi dagli altri. Da fuori vedevo solo il mio riflesso sui vetri oscurati del bar. Entrai. In tutto eravamo in quattro. Oltre all’unico cliente, vidi un ragazzo sulla trentina che prendeva le ordinazioni al bancone, mentre nell’altra stanzetta una signora stava lì a cucinare. Ordinai un cappuccino e ne approfittai per chiamare un taxi. Alle 10:30 dovevo incontrare Vladimir Rafeenko, uno scrittore di cui avevo letto ancora poco. Me ne avevano parlato Sasha Kabanov e Jurij Volodarskij, redattori di una rivista letteraria di Kiev. A Mosca era già famoso, lo ammiravano tutti. “Lo considerano il nuovo Venichka”, diceva Kabanov. Avevo letto il suo Divertissement moscovita in treno, lungo il viaggio che da Kiev nella notte mi aveva portato fin lì.

 

Tutti gli amici che avevo conosciuto nella capitale mi avevano messo in guardia sul clima che si respirava a Donec’k. «Lì non sono come da noi. Quella lì è gente che non ci pensa su due volte prima di mandarti a quel paese. Sono lavoratori, gente che bada alla quotidianità. Stai attento e pensaci due volte prima di dire qualcosa che possa farli arrabbiare», mi ripeteva Galja, che a Donec’k aveva lasciato il suo ex marito. L’aveva conosciuto una ventina di anni prima a uno dei suoi concerti. Era quello che chiamano un ‘bard’, un cantautore, un poeta. E un alcolista. Solo negli anni a seguire Galja aveva così scoperto le spiacevoli conseguenze del vivere con un bard. Troppo tardi per cancellare i due figli con cui si ritrovava adesso a vivere a Kiev.

 

Il taxi mi lasciò sul viale intitolato ad Aleksandr Pushkin. Era lì che Rafeenko mi aveva dato appuntamento. Proprio sotto al busto del ‘Dante russo’. Era venuto con una copia autografata del suo Divertissement moscovita. Sotto il braccio. In un primo momento mi lanciò un’occhiata abbastanza scettica. Lungo la strada verso casa sua, però, la discussione prese un tono diverso. Capì che avevo passato l’intero viaggio a ‘leggerlo’. Ed allora si premurò di darmi qualche spiegazione riguardo alle ‘attrazioni turistiche’ del capoluogo del Donbas. Viveva in un appartamento nascosto in mezzo a tre grandi palazzoni. Sembrava esserci qualcun altro in casa. Ne ebbi la conferma solo quando apparve sua figlia, una ragazza intorno ai 16 anni, lì di fronte all’ingresso della cucina, con in mano un vassoio con delle fette di pane col burro, e del tè già caldo. Ci accompagnò in quello che sembrava essere il salotto e, al contempo, la camera da letto di Vladimir. Le pareti erano interamente ricoperte di libri. Libri vecchissimi, disposti secondo un ordine rigoroso. Da una parte, la letteratura straniera. Hoffmann, Kafka, Proust, Garcia Marquez. Dall’altra, i classici russi. Pushkin, Gogol’, Lermontov, Chekhov. Dopo aver dato una sistemata al tavolo, in modo tale da potervi poggiare sopra tutte le sue recenti pubblicazioni, restammo soli. E Vladimir cominciò a raccontarmi la sua Donec’k.

 

«Come definire il mio posto all’interno della comunità letteraria ucraina? Sai, non sarebbe corretto da parte mia dire che io ne possa vantare uno per davvero. Perché? Perché in Ucraina sono in pochi a leggermi. Può sembrare paradossale, ma mi conoscono molto di più a Mosca. A Donec’k la mia notorietà si riduce a quei due-tre salotti letterari di provincia. La maggior parte degli abitanti di questa città non si immagina nemmeno che io esista. Non esistono profeti in patria. E, a quanto pare, nemmeno scrittori.

 

«Il fatto è che sin dal momento in cui questa città è sorta, ci si è rapportati agli uomini, prima di tutto, come forza lavoro. Gente con cui erigere fabbriche, miniere o altro. Di L’viv, o di Kiev, possiamo dire che siano sorte come centri culturali. Invece Donec’k, di base, è stata costruita solo per fini economici. Qui venne trovato il carbone. E con questo la possibilità di estrarre i minerali ferrosi e di fondere il metallo. Queste terre, e le persone che le abitavano, erano viste prima di tutto come un’appendice industriale. Ed è sempre stato così. Con l’arrivo dei sovietici, di fatto, non è cambiato nulla in questo senso. Forse solo ad esclusione di nuove condizioni sociali di vita, di nuove garanzie. Ma dubito che sia cambiato qualcosa in termini culturali. Venticinque anni fa, con la scomparsa dell’Unione Sovietica, le vecchie forme culturali imperiali hanno perso il loro significato. E non ne sono state create di nuove. Neanche un ‘ritorno alla tradizione’ poteva essere una via percorribile, perché qui di tradizioni non ce ne sono mai state! A Donec’k non è mai stato l’uomo o la cultura, o persino l’etnia, a essere al centro. Qui il principale fattore di vita è da sempre rappresentato dall’economia della regione.

 

Non esistono profeti in patria. E così Rafeenko la sua fama se l’è costruita oltre confine. Pubblicando, come i tanti scrittori di lingua russa disseminati tra le vecchie repubbliche sovietiche, su importanti riviste letterarie russe e partecipando a concorsi letterari. Uno di questi, il Russkaja Premija, premio per gli scrittori russofoni che vivono al di fuori della Federazione Russa, gli ha garantito la fama e la notorietà di cui gode oggi. Il primo romanzo di Rafeenko riuscito a entrare nella short list del concorso, il suo Divertissement moscovita, sembra poter essere un canale ‘profetico’ di interpretazione degli eventi odierni. E delle loro diverse narrazioni.

 

«Nel mio romanzo Mosca è diventata la nuova Troia, e tutti vogliono conquistarla. È un po’ quello che ripete in continuazione l’establishment politico russo. Sono tutti contro la Russia! L’Occidente è contro la Russia! E così via… Ma è nell’intersezione con il mito dell’Antica Grecia che la situazione suona alquanto divertente, bella e assurda. Aiuta a chiarire alcuni aspetti inattesi dell’esistente. Mosca è Troia. E così, dalla sovrapposizione di soggetti mitologici ai topoi della Mosca contemporanea, emerge l’insensatezza e la stupidità che a volte prende forma nelle menti di alcuni politici russi…

«Questo tipo di romanzi è volto a rivelare tutta l’inconsistenza dei processi di costruzione di identità rigide nel mondo contemporaneo. L’Europa è multinazionale, multiculturale. La nazione, all’interno di uno Stato, non deve essere costruita su base etnica. Io sono ucraino perché sono cittadino di questo paese. È la mia patria. Qui sono nato e cresciuto. Ma ciò non può cancellare il fatto che ho assorbito dal latte materno i significati, i segni e i simboli della cultura russa. La grande cultura russa…

«La metafora di una Mosca occupata dai ratti, così come viene ritratta nel mio romanzo, è una metafora del mondo contemporaneo. Alla fin fine, ogni nazione, ogni stato ha il suo divertissement. Altrimenti la civiltà, per come la conosciamo, non sarebbe mai esistita. Tutti noi esistiamo all’interno di una realtà riflessa, che è stata trasformata in un processo ininterrotto di moto browniano. Può assumere le sembianze del progresso, di una lotta ai nemici, della difesa di un’ideologia, e così via. Questo processo dovrebbe conferire un senso alla vita, ma di fatto la priva del suo significato. Ci conduce dentro a un’eterna condizione di pre-determinazione, fatta di continue rotazioni intorno alla mascherata che ci circonda, non consentendoci di avvicinarci alla nostra essenza, al nostro vuoto.

 

«Il mondo è un gran divertissement», secondo la visione di Rafeenko. Ed è la nostra fascinazione per il ‘demone maligno’ cartesiano a portarci alla creazione di nuove narrazioni, di nuovi confini immaginari tra ‘noi’ e ‘loro’. Interrogarsi individualmente sul proprio senso di appartenenza, sulle proprie radici, diventa così l’unico modo per venir via da quel moto browniano senza fine su cui si è abbarbicata la contemporaneità. Per mandare in frantumi lo ‘specchio deformante’ dei discorsi culturali, per far nascere nuove domande. Alla ricerca di un nuovo centro.

 

«Sono uno scrittore ucraino di lingua russa. Un uomo cresciuto in ambiente ucraino, ma nell’alveo della cultura russa sovietica. Sono un ucraino, ma per via del mio percorso culturale sono in buona parte anche russo. E non nutro nessun problema al riguardo. Sebbene sia cosciente del fatto che per molti abitanti della regione lo sia diventato, da quando è crollata l’Unione Sovietica. La nostra è una regione multinazionale e plurilingue. In occasione delle feste, a tavola, cantiamo in diverse lingue. E ciò non rappresenta un problema. Siamo cresciuti nell’intersezione tra culture. Come minimo di due culture…

 

«Ora, però, all’interno della situazione politica e culturale contemporanea per me è diventato di colpo importante arrivare a comprendere alcune questioni: dove si trova il centro del mondo slavo? Che cosa rappresenta? Qual è il suo significato? Si può dire che esista? Se prima questo ruolo era svolto, naturalmente, da Mosca, dove si trova oggi questo centro? E se fosse ancora rimasto a Mosca, cosa può essergli successo? Perché il mondo slavo è andato in frantumi?

 

Oggi Rafeenko vive a Kiev. Fa parte di quel milione e mezzo di persone in fuga dalle zone di guerra, costrette a scegliere in fretta il loro nuovo ‘centro’. C’è anche chi ha deciso di restare e di raccontare gli eventi da vicino, come la scrittrice Elena Stjazhkina. Rafeenko, invece, ha scelto di spostarsi nella capitale. Per raccontare la sua idea d’Ucraina. E per immaginare la nascita di un nuovo possibile ‘centro’:

 

«Questa guerra dovrà finire. E dovrà passare del tempo. Sebbene sembri essere solo l’inizio, in cuor mio spero che quei politici che un giorno prenderanno in mano il paese possano essere professionali, e possano arrivare a comprendere che l’Ucraina è un paese molto eterogeneo al suo interno. Incredibilmente bello. Molto controverso, ed estremamente misterioso. Ma la cosa più importante è che non ci verrà mai data una nuova opportunità per avere un altro paese simile a questo! E per questa ragione siamo tenuti a custodirne ogni sua singola parte. Nella sua unicità e nella sua completezza.»

 

 

Leggi anche Marco Puleri, Ucraina prima della 'tempesta' #1

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