Antonio Delfini: personaggio scrittore cercasi

23 Febbraio 2023

Ricordiamo Antonio Defini nel sessantesimo anniversario della sua morte, il 23 febbraio 1963 .

"Lasciami qui, lasciami stare, / lasciami così: / non dire una parola che / non sia d'amore." (CCCP, Annarella)

Non so perché, ogni volta che scrivo di Antonio Delfini prendo prima in mano un libro di Antonio Tabucchi e finché non ho finito di leggerlo non riesco a mettere in fila le idee. Quando una biblioteca privata cresce diventa come I Ching. Si comincia a squadernare qualche appunto qui e là sul tavolo da lavoro. Per non ripetersi, si fa mente locale sulle pubblicazioni già in essere e su quanto detto in precedenza. Poi si va a naso nella libreria e si pesca un libro buono per l'occasione. A me questa volta è capitato tra le mani Sostiene Pereira. Delfini, Tabucchi, Bachmann, Trevisan, Dagerman, Campo, Fenoglio, Campana, Bianciardi, Benjamin e Bolaño: una letteratura che sta in piedi con niente e va a spasso canticchiando dietro il dramma. Sembra che tutto combaci finché si sta tra gli scaffali, ma alla fine qualcosa manca. Anzi, i vuoti sono molto più numerosi degli spazi disegnati ed è solo fantasticheria l'intuizione di un'immagine fra tante linee d'inchiostro sovrapposte.

A Pereira stavano a cuore le ricorrenze e aveva invitato Francesco Monteiro Rossi a scriverne alcune per la sua pagina culturale. Il giovane accettò con entusiasmo ma consegnò dei trafiletti impubblicabili nel Portogallo di Salazar: prendeva per il naso scrittori osannati come Gabriele D'Annunzio e commemorava con belle parole gli invisi alla dittatura come Federico García Lorca. Sarebbe bello scrivere una di quelle commemorazioni provocatorie dedicate a un grande scrittore, ma non sono i tempi e non sono gli uomini: qui sdraiati sul divano ci sentiamo tutti scomodamente a nostro agio. Su questo Antonio Delfini aveva visto lungo: l'avanzata del disumano sarebbe stata travolgente e avrebbe prodotto pletore d'inumani proni al suo servizio. Forse anch'io, ma solo part-time per il momento.

“[...] Intendo per inumano ciò che è contrario all’umano, che non essendo più umano è tuttavia incluso nell’umano. Insomma l’inumano è un uomo che finisce, o può finire, all’inferno. Il disumano è ciò che invece è fuori dell’umano (né umano né inumano) e che trova in certi esseri la possibilità di vestirsi indifferentemente da uomo, da donna, da cane o da palla di stagnola. In poche parole: è il diavolo. Il disumano può circolare fra noi, per via della nuova moda italiana dell’inumanesimo. Il disumano può circolare, ripeto, travestito da essere umano; può circolare, però soprattutto, nell’aria, nelle parole, negli oggetti, nel disegno degli architetti, nei frutti degli speculatori inumani.

Per esempio, un sindaco della Capitale fa fare o lascia fare ignobili speculazioni edilizie. Fin qui è inumano. Il disumano, l’invincibile disumano, comincia dopo: quando le case sono fabbricate; quando le famiglie cominciano ad abitarle; quando il tempio è stato costruito e le preghiere dei fedeli cominciano a circolarvi sorde, creandovi strane luci giallastre; quando le prospettive delle nuove strade ci fanno circolare con un pensiero menzognero della verità; quando il colore della luce, di quella che noi crediamo luce, ha un colore che non è più luce; quando le donne che incontriamo non sono più né belle né brutte, ma provocanti, arrapanti, fredde o calde, solforose o salate; quando più niente corrisponde alla verità del passato o dell’avvenire, e il presente vive senza rapporti e senza confronti. [...] Il disumano raccoglie tutti: l’inumano ci ingrassa, l’umano ci muore.

Quando il disumano impera, non c’è essere umano che possa vivere umanamente. In poche parole: se il disumano dovesse continuare, il diavolo avrebbe vinto la sua partita storica. Perché nel periodo disumano, l’inumano trova salute e vive lunghissimi anni; mentre l’umano può al massimo vivacchiare, per trovare ben presto la morte: in modo che nel giro di due o tre generazioni il mondo sarebbe popolato esclusivamente di inumani.” (Introduzione, da I Racconti, a cura di Roberto Barbolini, Milano, Garzanti, 2021)

Feci la conoscenza di Delfini trent'anni dopo la sua morte. Mi legai ben presto a lui per lo stile e per la sua storia simile alla mia. Anche se i nostri trascorsi parevano quasi opposti vivevamo entrambi nel mito di un passato da cui pretendevamo d'essere discesi. Lui di famiglia benestante, erede di avventure risorgimentali, cresciuto al piano nobile di un palazzo modenese; io di famiglia contadina, erede di lotte popolari, cresciuto in una cascina tra le risaie; avevamo in comune l'indolenza, l'istinto per la sconfitta, l'infanzia solitaria, la predilezione per la notte, il senso d'inadeguatezza, l'amore disperato e la penombra in cui ci appartavamo, sotto i nostri antenati papaveri.

A dire il vero faccio fatica a scrivere di un amico. Rischierei di essere troppo accondiscendente nei suoi confronti o altrimenti di canzonarlo, spingendolo giù dal piedistallo dove lui medesimo s'è già messo in bilico per sfuggire alle note delle antologie scolastiche. Delfini aveva vissuto a passeggio, appuntando col lapis i gesti e le movenze dei protagonisti assolti nell'Italia fascista e antifascista. Quando morì, spolpato fino all'osso dei suoi averi e delle sue illusioni, era nauseato dallo sfacelo che i suoi contemporanei scambiavano per progresso, ma preservava ancora la forza del sogno e dello sguardo lunare.

In Misa Bovetti, uno dei suoi ultimi racconti, stanco di assistere alla parabola discendente del suo alter ego, lo condanna a morte per mano della figlia feroce del capitalismo. E intanto compone prose surreali attorno al Manifesto lunare con Ennio Flaiano e Gaio Fratini nell'Almanacco del Pesce d'Oro pel 1960.

"Marco Scaramuccini era un poveretto, una vittima del fascismo e dell'antifascismo. Gli avevano tolto la terra, gli avevano interdetto la madre, era orfano di padre dall'età di un anno. Era uno che veniva raggirato da qualsiasi avvocato dal quale si recasse. Ma tutti volevano da lui stima e affetto, e nessuno lo stimava, nessuno gli era affezionato. Come scrittore poteva anche valere qualcosa, ma non guadagnava perché i padroni dei giornali e delle edizioni lo consideravano ricco. Era ormai vecchio: in definitiva, era un disgraziato. [...]" (Misa Bovetti e altre cronache, Milano, All'Insegna del Pesce d'Oro, 1960)

La stanchezza del flâneur è abbastanza ridicola ma esiste. Ti sta addosso senza poterla raccontare. Meglio riderci sopra: giusto il tempo di raccogliere gli spiccioli per un altro giro di giostra.

"Io non riesco a essere sincero, e per troppo amore di sincerità, mi sembra di essere diventato doppio, sputtanevole e sputtanato.

Tenere questo giornale, oltre che mi annoia molto, so che non è affar mio, ch'è inutile, e che non mi servirà mai per l'avvenire. Ah potessi rinchiudermi, e ballare, e piangere, e abbracciare, uscire, cantare, non studiare non pensare, ed essere grande!" (Giornale, 1942 9 gennaio da I Diari, a cura di Irene Babboni, Torino, Einaudi, 2022)

 

Il 18 febbraio 1963 morì Beppe Fenoglio e cinque giorni dopo Antonio Delfini. Erano due anime affini in rivolta: non si conobbero ma volarono via insieme, senza troppe utopie e senza particolari architetture ideologiche. Avevano soffiato due delle bolle narrative che permettono ancora a qualcuno di respirare e di scrivere da dilettante. La scrittura non è un lavoro: è una condizione dell'essere. Ti alzi e vivi il tuo tempo con il mondo sapendo che sta a te raccontarlo, non perché esista ma perché fa parte di te che sei un po' dentro e un po' fuori, mai completamente altro.

"Quel giorno potevo prenderti per mano e condurti con me. Penso che doveva pur essere bello quel tempo in cui a qualunque giovane di coraggio era dato rapire la ragazza che gli piaceva. A quel tempo non si conoscevano ancora le convenienze e, perciò, nemmeno le sconvenienze. Ma poi che tempo era? Può darsi fosse un tempo immaginato soltanto da me." (Quaderno N.1 da I Diari, cit.)

Il tempo del Delfini è stato uno scherzo fino alla morte (sempre che sia morto). Mi sembra di averlo qui davanti, ragazzino per un giorno. Avrebbe preferito non scrivere neanche una riga della propria vita se non fosse stato travolto dal suo tempo immaginato.

"[...] Per quanto in quell'ora e in quel giorno io non immaginassi niente: di quanto sarebbe accaduto dopo nella memoria e nel cuore, di quanto si sarebbe rivelato nella realtà del passato, nella realtà di una vita che non era più rintracciabile perché priva di avvenimenti e di giorni trascritti." (Il 10 giugno 1918 da I Racconti, cit.)

Antonio Delfini, particolare da un ritratto di Gianluigi Toccafondo 

Se ogni autore fosse un giardino Delfini sarebbe un parco berlinese. I parchi di Berlino sono vasti, percorsi da linee d'acqua e sentieri che a volte s'intersecano e a volte portano a nulla. La scarsa cura dei cespugli lascia intuire la premeditazione dell'architetto, che ha voluto far perdere il passeggiatore in una selva priva di punti di vista privilegiati. Chi si siede sulle rive volutamente incolte di uno stagno non ha paura di calpestare le aiuole, né di essere redarguidito da qualche personaggio in divisa. Tutto è più libero: il travaglio cittadino può essere buttato alle spalle. Accade così al lettore che si perde nelle pagine dei Diari e s'addormenta cullato dal dondolio temporale dei Racconti.

Delfini inanella le generazioni come un'immagine attraverso uno specchio entra in un altro specchio, in un altro e in un altro ancora. In una miriade di riflessi appare e scompare l'autore segreto di Un libro introvabile. Che cosa abbiamo visto nel disegno della girandola? Un vecchio stanco o un giovane frizzante? Un romantico innamorato o uno spregiudicato censore? Forse solo un ragazzo padrone di niente che ha fatto innamorare altri ragazzi con il suo gioco dei ruoli cangiante. La figlia Giovanna, Irene Babboni, Roberto Barbolini, Marco Belpoliti, Gianni Celati, Cesare Garboli, Natalia Ginzburg, Andrea Palazzi e Cinzia Policelli fanno parte della spedizione decennale che ha portato alla luce un tesoro prezioso per chi si accontenta di sognare a occhi aperti. Pochi buoni amici si sono incontrati alla fine di un giorno di pioggia per ammirare i colori variabili del cielo nelle parole di Delfini. La luce resiste: sembra che voglia lasciar loro il tempo di finire di leggere l'ultima pagina prima della discesa verso la notte.

"«Mamma aspettami». L'ufficiale aveva ancora udito queste ultime parole del bimbo, e il treno era partito. Davanti a lui era rimasto il vecchio colonnello che bofonchiava in un gergo più incomprensibile e noioso dell'andamento del treno; intanto che ogni cosa del mondo pareva scomparsa, smarrita perfino la speranza di avere quel libro di poesie." (Un libro introvabile, da I Racconti, cit.)

Antonio Delfini ha anche insegnato l'etica del fallimento. Nel disumano è infatti fondamentale fallire se si vuole preservare l'umano. L'attualità del suo messaggio è nei diari, nei quaderni dove trascriveva in bella copia osservazioni buttate giù nell'urgenza di ragionare, di sognare, di dubitare e di sorprendersi soli dall'altra parte della strada a spernacchiare i divoratori indaffarati.

Nelle parole introduttive di Cesare Garboli al Manifesto per un partito comunista e conservatore in Italia e altri scritti (Garzanti, 2022) e nelle note misurate di Irene Babboni ai Diari (Einaudi, 2022) c'è la passione di chi è stato accanto a Delfini passo dopo passo sulle vie intricate delle carte. Non ho mai conosciuto personalmente i due maggiori curatori dell'opera postuma di Antonio Delfini, ma ho incrociato il mio lavoro con il loro quando ero ancora uno studente, collazionando Il ricordo della Basca e censendo le prose sparse in rivista. Già allora Irene Babboni con pazienza e delicatezza aveva colto dal baule di Delfini gemme sommerse. Era il principio di un lavoro approdato nel 2022 alla nuova edizione dei Diari. Allora avevo ripreso in parte la sua ricerca avventurandomi in un discutibile tentativo di critica surrealista, ma le mie riflessioni erano ancora acerbe. Consideravo la fine del viaggio stando davanti al castello di Delfini e capivo – o non capivo – di essere arrivato da lui solo grazie alla condizione infantile e onirica a cui entrambi ci eravamo votati.

Per chiarezza vi racconto un sogno: la notte prima di discutere la tesi fui con Delfini per davvero. L'avevo raggiunto in una pensione di Modena. Avevo dormito anch'io là un paio d'anni prima. Conoscendo bene il posto trovai presto la sua stanza. Era già quasi pomeriggio e volevo che fosse presente alla laurea come mi aveva promesso, anche solo per farsi due risate. Sapevo che per lui era uno sforzo alzarsi così presto. Bussai alla sua porta e la trovai aperta. Entrai esitando e lo vidi di spalle, sdraiato su un fianco nel letto. Era raggomitolato un po' in una coperta e un po' in un cappotto, ancora vestito dalla notte precedente. Nelle pieghe dei tessuti si leggeva un uomo appesantito dagli anni. Era spiacevole disturbarlo.

"Antonio! Antonio! Che cosa fai?" Gli toccai appena la spalla. "Dobbiamo andare... L'avevi promesso."
"Ma lasciami dormire!"
"Dài... C'è la discussione della tesi."
"Sai che roba..."

Si alzò e si mise seduto sul ciglio del letto. Era ancora assonnato ma aveva un aspetto migliore, più giovane: un trentenne solido come l'avevo visto in una fotografia.

"Sono vecchio: lasciami qui a riposare," mi diceva tenendosi la testa fra le mani.
"Ma no che non sei vecchio: guardati! Sei giovane e hai ancora tanto da scrivere. Guardati."

Lo tirai su mentre gli parlavo e lo misi davanti a uno specchio tondo appeso alla parete. Si schernì, poi prese lui me per un braccio e mi pose al suo posto.

"Parli te che sei giovane come l'acqua. Ma va' avanti..."

Osservai la mia immagine riflessa ed ero lui a vent'anni, con la riga nei capelli e la sprezzatura in viso.

Mi svegliai presto. Avevo la sua figura ancora in testa, o forse la mia con cui non avevo confidenza. Avrei avuto tutta la mattina davanti e per riempire il tempo rilessi Il 10 giugno 1918.

Adesso che ho cinquant'anni – quasi l'età di Delfini prima che morisse durante i festeggiamenti del Carnevale – mi sembra di avere trascorso buona parte della vita a leggere quel racconto che infonde giovinezza e sgomento a chi vi entra.

"Fu un colpo di cannone; fu il colore amaranto di quella sera d’estate che aveva il cielo nuvoloso e il sole scoperto; fu il nero improvviso sorgente dal fondo della strada più commerciale della città, che giuocò con l’arancione del cielo e con gli ori profusi dai rossi e dai gialli di certe chiese intorno alla piazza; fu l’enorme tricolore nel mezzo della strada; fu l’inumidito e spento violetto che veniva proiettato dai portoncini, dai bar, dai negozi di stoffe e dalle bigiotterie sotto il portico; fu la nota cupa echeggiante ammonitrice e solenne della banda dei patronatini; fu un gruppo di nuvole rosa morbide come la bambagia; fu l’immediata apparizione del prete insieme allo scaccino sul sagrato della chiesa di San Giorgio e poi sulla piazzetta e poi sulla via Farini all’altezza della salumeria Giusti; fu l’assoluto distacco tra i soldati che andavano al fronte e gli ultimi patrioti che andavano al cimitero, uniti nella morte che il tempo e lo spazio consuma.” (Il 10 giugno 1918 da Racconti, cit.)

Sogni e ricordi si disfano e risorgono nella scrittura chiaroveggente del papà di un surrealismo tutto speciale, intimo, rivoluzionario, caleidoscopico e conservatore. Chi partecipa a questa famiglia si vota al fallimento e al dubbio, teso senza posa tra il personaggio che vive e l'osservatore che ne registra le pulsazioni per raccontare forse un giorno qualcosa, sempre che non prediliga il silenzio e voglia tenere in serbo un'ultima beffa per il suo Carnevale.

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