La sfortuna di Delfini

23 Febbraio 2023

Ricordiamo Antonio Defini nel sessantesimo anniversario della sua morte, il 23 febbraio 1963 .

Sono tra gli indecisi, tra coloro che non venerano Antonio Delfini, ma che a leggere le sue pagine ci trovano motivi di attrazione. Devo confessarlo, anche se rischio un abbaglio critico: allo stile di scrittura di Delfini antepongo i suoi contenuti: sono questi a destare la mia attenzione, ben più del ductus, del modo di scrivere, che trovo certamente «chiaro come l’aria» (Natalia Ginzburg) ma anche singolarmente spoglio. Sono soprattutto i contenuti a farne quella sorta di surrealista all’italiana che conosciamo, a profilare quell’autore-non autore «così discontinuo, illusorio, inafferrabile, visionario, stravagante e bizzarro», secondo la serie di aggettivi snocciolati da Belpoliti in prefazione alla nuova edizione dei Diari (Einaudi, 2022), curata da Irene Babboni e da Claudia Bonsi con un piglio filologico che la precedente edizione del 1982 non esibiva.

Il prefatore sembra ancora darmi ossigeno quando afferma che l’opera – e mi verrebbe da diffondere l’idea su buona parte dell’opera di Delfini – è «registrazione dei moti interiori di un’anima, il diario d’un apprendistato letterario, la cronistoria di un periodo». Lo stile passa per nitido, per leggero e aggraziato, ma quel che salta all’occhio è l’ironia, la dissacrazione, il senso scrollante dei contenuti.

Assumo allora in senso ironico quanto Delfini scrive in Critica letteraria, pezzo apparso nel 1947 sull’effimera rivista «A. Quaderni di varietà politica e letteraria», da lui fondata a Viareggio. Assumendosi il compito di curare lo spicchio della critica – e firmandosi come Ulisse Quattrogatti – Delfini biasima i critici che «quando ascoltano, non odono; quando guardano, non vedono; quando riflettono, non pensano; quando assaggiano, non gustano». Non ha del tutto torto, e le qualità che richiede al critico andrebbero proprio applicate nel prendere in considerazione il volume che contiene lo scritto: la nota raccolta degli scritti occasionali per giornali e riviste che Garzanti, dopo la prima edizione del 1997, riprende ora con la medesima curatela e prefazione di Cesare Garboli: Manifesto per un partito conservatore e comunista e altri scritti (Garzanti, 2022, pp. 322, euro 20).

Il curatore dichiara cosa, tra gli scritti vari, ha accolto (quasi tutto) e cosa no, dichiara altresì la ragione fondante della collezione: il fatto «che di Delfini si continua a parlare in termini vaghi e imprecisi, senza mai entrare nel vivo di argomenti critici e senza mai tirare fuori questo autore così inclassificabile dalla sua leggenda», e al lettore non resta che immergersi nel caleidoscopio dei pezzi e deliziarsi di tanta varietà. La prima qualità del volume è infatti quella di calarci nel “disordine” di Delfini: la sessantina di pezzi che lo compongono, distesi su una congerie di tematiche, sono in fondo una buona dimostrazione del carattere dispersivo dell’opera delfiniana, fanno capire che fu scrittore poco incline a impegnarsi nell’artigianato della pagina: è come se fosse visitato da molte idee ma trovasse poi faticoso disporsi a scrivere con metodo. Diciamo che il volume è almeno un tentativo (rilevante) di raccogliere il grosso di quelle idee.

Per la mia inclinazione alle forme brevi amo molto questo volume, nel quale spicca ovviamente lo scritto che dà il titolo all’intero. Il Manifesto per un partito conservatore e comunista in Italia, edito dall’amico Guandalini a Parma nel 1951, è un documento inconsueto di protesta da parte di un rappresentante della borghesia di proprietà fondiaria che avvertiva la minaccia del progresso industriale, forte quanto poteva bastare ad annientare il suo mondo.

 

L’equilibrio della politica italiana andava dunque, secondo lui, sovvertito: in tema di proprietà fondiaria ci voleva conservatorismo, in tema di produzione industriale dirigismo “comunista”. Ecco spiegato il titolo dello strano documento, accolto da giudizi assai discordanti, una sorta di pamphlet utile a cogliere il travaglio politico-intellettuale dell’autore, ma secondo alcuni – e con parere assai tranchant – uno scritto che denoterebbe la poca lucidità dell’uomo, confermata da altri manifesti e appelli raccolti nel volume. Personalmente sarei cauto: Delfini fu intellettuale dai risvolti molteplici; coltivò anche lati “patafisici”, come di recente ha mostrato un breve studio di Paolo Albani, Delfini patafisico, operetta prodotta in pochi esemplari da una casa editrice quasi inesistente – Babbomorto Editore – in involontaria allusione al fatto che Delfini abita agevolmente l’atmosfera delle plaquette destinate a sostanziale sfortuna editoriale.

Già, la sfortuna editoriale: le sue prime pubblicazioni furono tutte stampate in proprio, e così come qualcuno nasce con la camicia, lui nacque col saio della provvisorietà. Sono pubblicazioni degli anni Trenta, che in certo modo condividono il destino di parecchie pubblicazioni futuriste coeve, anch’esse pressoché irreperibili. Ma come parlare serenamente di avversità quando si esce in plaquette, uno di quei prodotti tirati in pochi esemplari, poco venduti e destinati alla rarità? Quel che rifulge, in questi casi, è il valore che i prodotti editoriali conseguono proprio in relazione alla rarità: se insomma la sfortuna editoriale equivale all’irreperibilità, ne risente il peso letterario dello scrittore, non il valore bibliofilo che egli acquista nel tempo. La sfortuna di un tempo si rispecchia nella fortuna di chi oggi possiede un pezzo di Delfini, e i pezzi inseguiti sono ben più di uno...

Mi pongo un simile quesito esplorando, come mero esempio, la fisiologia del primo libro del ventitreenne Delfini, Ritorno in città, collezione di racconti autoprodotta a Modena nel 1931. Una scheda bibliografica suggerisce che l’opera fu pubblicata da Vincenzi, e infatti «l’antica libreria G.T. Vincenzi e nipoti», culla della cultura modenese fin dal tardo Settecento, fu la libreria che s’assunse l’onere (poi assurto a onore) di fungere da casa editrice, mentre la stampa – l’atto genetico originario per un libro, in questo caso un esile fascicolo di settantadue pagine – fu realizzata dalla Tipografia Cappelli. Se uno si reca oggi a Modena a cercare il luogo in cui vide la luce questo primo libro di Delfini s’imbatterà in via Emilia 103, sotto il Portico del Collegio San Carlo, in un bel locale la cui esterna architrave ancora porta l’iscrizione in lettere di legno «Libreria G.T. Vincenzi e nipoti»: il locale è diventato oggi un bar, ancorché all’interno sia offerto qualche libro da sfogliare.

Per sapere in quali biblioteche pubbliche sia collocata l’edizione va consultato l’SBN nazionale, per scoprire che sono catalogati solo otto esemplari: un numero altrettanto basso mi pare sia transitato nel mercato antiquario lungo i miei decenni di attenzione bibliofila. Una rarità insomma, uno di quei pezzi la cui topografia pubblica prova che davvero – e inesorabilmente – «habent sua fata libelli»: un esemplare è all’Estense di Modena, uno è custodito dalla Nazionale Centrale di Firenze e uno da quella di Roma, ma per quali segrete vicende sono giunti esemplari a Lucca, Forlì e Faenza? L’indagine dei percorsi che i libri compiono costituisce di per sé un avvincente spicchio della storia dei libri...

E che questa storia sia davvero singolare lo si misura osservando quella da alcuni erroneamente definita “seconda edizione” del 1933: Guandalini aveva invero soltanto ricopertinato duecento esemplari della prima. Ora, la vicenda è colma di conseguenze: la scelta di apporre una nuova copertina a esemplari di magazzino suggerisce infatti che in quei due anni il libro era rimasto invenduto e non si riteneva conveniente ristamparlo. Diremmo anche che questa debba essere una versione di minore diffusione pubblica, e invece il sistema bibliotecario ne custodisce dieci copie, di cui una a Pietrasanta; ed ecco sollevarsi l’uzzolo bibliofilo: per mano di chi la copia giunse costà?

Voglio chiudere il torneo con un’ultima mossa e m’impegno a controllare quanti esemplari della prima e “seconda” edizione siano in vendita in questo momento sul mercato antiquario nazionale: nessuna. A costi tutto sommato accessibili si rintraccia la riedizione del 1963, volume approntato da Guanda come libro-omaggio a un anno dalla morte di Delfini (Lettere d’amore e Ritorno in città, con prefazione di Giacinto Spagnoletti), ma delle versioni 1931 e 1933 nessuna traccia. Finito il torneo, e confermato l’assunto: Delfini ebbe una certa sfortuna editoriale, ma oggi la sfortuna assilla coloro che ne cercano le prime edizioni: non tanti (come un tempo non furono tanti coloro che le acquisirono), ma assai determinati ad aggiudicarsi i pezzi.

Se all’inizio Delfini pubblicò con sigle da scantinato e in risibili tirature, non meglio andò con i lavori che paiono più consistenti, Il ricordo della Basca e Il fanalino della Battimonda, usciti nel 1938 e 1940 in prime edizioni che sembrano più robuste, ma fatalmente mal distribuite da editori di non alto rango, i fiorentini Parenti e le Edizioni di «Rivoluzione». Il loro contenuto – che potremmo definire innocente e farsesco, aggettivi usati per Delfini da Montale – poneva poi quei lavori in un’area che non ha goduto in Italia di grande seguito. Anche nel secondo dopoguerra Delfini, editorialmente parlando, vide la luce presso editori di stazza limitata, come Scheiwiller o il vecchio amico-nemico Guanda: il vero sdoganamento giunse con Feltrinelli e con Garzanti, complici in ambo i casi gli amici Bassani e Garboli.

Elementi non trascurabili della sua sfortuna editoriale furono il disdegno dandistico dell’uomo dalle camicie di taglio impeccabile, la sua figura di «Duca di Modena» come lo chiamavano gli amici, la scelta di tumularsi in una provincia dai ritmi lenti, il suo vivere in una sorta di atmosfera sognante, la vita più romanzesca dei romanzi che tentò di abbozzare. L’unico segno di fortuna giunse col Premio Viareggio assegnato nel 1963 a I racconti editi da Garzanti, ma in lieve e fatale ritardo: alcuni mesi prima Delfini era scomparso a causa di una complicazione post-chirurgica. E così il vero momento di emozione pubblica che Delfini riuscì a vivere fu nel 1962 l’affissione sui muri di Modena della sua ultima fatica letteraria: quel maligno – e anche irriconoscente – manifesto All’editore Guanda in cui si scagliava contro l’amico sfottendolo per il fatto che s’era trasferito con la casa editrice a Parma. Il documento è contenuto nel nuovo volume garzantiano e gocciola di delirio vendicativo («Caro Guanda, certi tradimenti, ai tempi di Firenze di Prato di Lucca di Pisa di Pistoia, si pagavano con la propria testa»), ma soprattutto fu stampato a spese dell’autore in 50 copie ed è oggi un pezzo di assoluta rarità: sono a conoscenza di un solo esemplare, in mano a un noto collezionista italiano.

Il premio Viareggio resta come una medaglia al valore appuntata al petto di un fante sempre al fronte, ma che non aveva mai incontrato il nemico; fu peraltro un premio senza effetti di rilievo: dopo la scomparsa, Delfini è stato praticamente rimosso dall’editoria e dall’attenzione critica, diventando una sorta di autore fantasma. Solo nel 1982 Einaudi pubblicò i citati Diari, che dovevano rappresentare la prima tappa editoriale di una Opera Omnia, e invece anche allora quel libro non decollò. E le ragioni sono chiare: poteva il bizzarro Delfini far breccia nell’Italia “da bere”, in un mercato della cultura in cui cominciava a imperare la rosea carne televisiva delle paperelle, ovverossia le proto-veline? Pochi anni dopo, il volume dei Diari approdò invenduto nei remainders. I pochi pezzi residuati alla svendita sono stati cercati negli ultimi vent’anni da uno zoccolo duro di estimatori, da pochi collezionisti disposti a sborsare anche tanto, fino alla finale mazzata della nuova edizione, che ha intaccato il valore della vecchia.

Insomma: Delfini è autore i cui estimatori hanno dovuto accontentarsi di piccole edizioni, di fantasmatiche plaquette, uno scrittore che non ha mai goduto di vera fortuna. E tuttavia, se non fosse esistito, Modena sarebbe priva di una linfa, di una presenza ombrosa ma vibrante. Così come i nostri scaffali, senza Delfini e senza questa felice ristampa di Garzanti, sarebbero certamente più aridi.

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