Bussano alla porta. L’apocalisse sotto vetro

28 Febbraio 2023

Una bambina raccoglie cavallette in un bosco, a poca distanza da una baita di legno immersa nella serenità di un placido pomeriggio d’estate. Le cattura con cura nel palmo della mano e amorevolmente le libera, ma sarebbe meglio dire le rinchiude, in un barattolo di vetro. La bimba parla agli insetti mentre compie l'operazione, dà loro dei nomi che annota in un taccuino insieme ad altri dati, come le hanno insegnato a fare da brava naturalista. 

Accompagnato dalle note inquietanti di un sottofondo d’archi, vediamo un uomo gigantesco sopraggiungere dal bosco: le braccia massicce completamente tatuate, il corpo enorme stretto in una linda camicia bianca. A dispetto del commento musicale, il gigante è estremamente gentile, si offre di aiutare la piccola nella cattura delle cavallette mentre le pone alcune domande, che ci rivelano particolari significativi sulla sua vita. La bambina, da parte sua, mantiene una misurata diffidenza verso l’estraneo, come giustamente le hanno insegnato i suoi due papà. Sì, perché la bimba è figlia di una coppia gay, papà Eric e papà Andrew che l'aspettano nel retro della baita, godendosi la tranquillità di quell’incantevole luogo isolato dal mondo e dalla civiltà. 

Ma il montaggio con strettissimi campi e controcampi veicola un senso crescente di tensione e il gigante gentile lascia cadere sguardi dolenti e preoccupati verso il bosco da cui proviene. Finché tra le frasche si stagliano altre tre figure, un uomo e due donne, armati di strani attrezzi contundenti. “Devi convincere i tuoi genitori ad aprirci la porta, è importante, è la cosa più difficile e importante che ci sia al mondo!”, grida Leonard il gigante a Wen la bambina, mentre lei sta ormai correndo, giustamente spaventata, verso casa.

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È così che inizia il nuovo film di uno dei registi più talentuosi della sua generazione, che seppure con alti e bassi ci ha regalato nella sua carriera lavori mai banali, alle volte deboli sul piano della scrittura ma girati sempre con cura e capacità, felicemente in bilico tra cinema di genere e cinema d'autore. Stiamo parlando di Bussano alla porta (Knock at the Cabin in originale) di M. Night Shyamalan, che a poche settimane dalle uscite nelle sale statunitensi ha già scalato le classifiche, scalzando addirittura il fenomeno Avatar 2. Un cineasta che ci ha abituato – facendone in un certo senso il suo marchio di fabbrica – a situazioni narrative non convenzionali, alle volte decisamente improbabili, tenute in piedi da una regia coerente fino in fondo alle premesse poste, qualsiasi esse siano, dimostrando in questo un’indubbia fiducia nel mezzo cinematografico.

Capite bene che con un regista così, e con un film così, il rischio di rivelare troppo è sempre dietro l’angolo. Ma proviamo a dire senza tradire. Leonard (interpretato da Dave Bautista) e i suoi tre compagni sono persone assolutamente ordinarie: un maestro elementare, una cuoca, un’infermiera, un letturista del gas. È ciò che fanno e dicono, e come lo fanno e come lo dicono, a essere completamente assurdo e fuori dall’ordinario. Innanzitutto, ricevuto un più che ragionevole rifiuto da parte della famiglia a farli entrare in casa, si fanno strada nella baita a forza, ma facendo un uso della violenza strettamente necessario. Non sono lì per fare del male alla piccola o ai genitori, dicono, vogliono solo parlare con loro. Sono latori di un crudele e assurdo ultimatum: il mondo presto perirà nel fuoco, nell'acqua e nella pestilenza, profetizzano, e per salvare l'umanità intera Andrew, Eric e Wen devono accettare di propria volontà (nulla può essere imposto, pena l’inefficacia del gesto) un estremo sacrificio. Uno di loro deve morire, e gli altri dovranno essere gli esecutori di questa sentenza.

Chi sono questi pazzi, si chiedono Andrew ed Eric, e noi con loro. Sono dei criminali sadici e psicotici, come siamo abituati a incontrare nei film di home invasion? O forse la famiglia è stata presa di mira a causa della propria diversità, in quanto genitori gay di una figlia adottiva? Alcuni flashback accuratamente distribuiti nel corso della pellicola illuminano da un lato il profondo legame che unisce tra loro i due uomini, e che sostiene l’incrollabile amore per la propria bambina, dall’altro lato l'atmosfera di omofobia che pervade la società, che li ha marchiati ma da cui sono riusciti, almeno sino ad ora, a preservare Wen.

Uno dei pregi maggiori del film sta proprio qui: nel mettere al centro di un film di genere una famiglia arcobaleno, con naturalezza e senza fronzoli, in modo empatico ma pratico. Leonard il gigante si prende cura di assicurare ad Andrew ed Eric che la loro sessualità non ha nulla a che fare con il motivo per cui sono stati "scelti": ci sarà da crederci? Sono molti i dubbi ontologici ai quali sono sottoposti i due genitori. E gli attori che gli danno corpo, Ben Aldridge e Jonathan Groff, sono particolarmente bravi a mostrare gli angoli complementari di una coppia – Eric pacificatore istintivo, Andrew testa calda impulsiva e ferocemente protettiva – alle prese con una situazione non razionalizzabile che sbriciola qualsiasi certezza o sicurezza. 

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Insomma, senza rivelare oltre, è evidente che Bussano alla porta – la sceneggiatura è un libero adattamento dal romanzo di Paul G. Tremblay The Cabin at the End of the World – pone al centro della narrazione il conflitto etico tra pubblico e privato, tra la coesione interna di una famiglia e la richiesta irricevibile di un estremo sacrificio per il bene comune. Lo fa, come spesso in Shyamalan, impastando il tutto con elementi biblici e proponendo una riflessione neanche troppo laterale sulla fede. Non è difficile vedere nei quattro intrusi l’incarnazione dei quattro Cavalieri dell’Apocalisse, come nella triade famigliare una rappresentazione della trinità divina, tanto che la famiglia gode paradossalmente di una sorta di intangibilità sacra, rispettata dagli intrusi nonostante il contesto di insensata violenza nella quale l’hanno fatta sprofondare con il loro arrivo. 

Ma se il discorso religioso è certamente rilevante, ci sono altre chiavi che vengono messe in moto nella visione del film. Mi interessa qui sottolinearne due. La prima è quella che rimanda all’esterno. Come sottolinea Giulio Sangiorgio su “FilmTv”, il punto è decidere se «credere o no che ci sia un legame tra il piccolo e il grande, tra la vostra famiglia borghese e le sorti del mondo. Tra noi e gli altri. Credere di avere un ruolo. Un potere. Una responsabilità». Se guardiamo queste dicotomie con le lenti della giustizia climatica, ad esempio, capiamo quanto il tema del sacrificio (quanto siamo disposti a mettere in discussione del nostro stile di vita per il bene del pianeta e dei nostri simili?) sia tutt'altro che astratto. Ma sempre Sangiorgio mette in luce come nel film emerga anche una frattura tra classi sociali: una working class frustrata che potrebbe essere blandita da teorie sragionanti, da miti post-verità (come QAnon) e una upper class, razionale, materialista, cinica, che fatica a prendere sul serio ogni cosa e si crede in qualche modo moralmente superiore e naturalmente nel giusto.

La seconda chiave invece è interna al meccanismo cinematografico. A partire dalla metafora iniziale del barattolo/prigione in mano alla bambina all’inizio del film. Quelle ignare cavallette potrebbero anche essere un cenno indiretto allo stesso Shyamalan, data la sua passione di lunga data per intrappolare i suoi personaggi sotto vetro. Più e più volte durante la sua carriera ha rinchiuso i suoi personaggi in ambienti ermetici, governati da regole proprie che non sempre si annunciano fino alle scene finali, come accade in The Village. Che siano thriller apocalittici, come Signs ed E venne il giorno, o la serie televisiva Servant (arrivata alla quarta stagione), è tra quattro pareti che si gioca la partita registica. E in Bussano alla porta la capacità tecnica di Shyamalan nel trovare soluzioni ingegnose ma fluide nel posizionare e muovere la macchina da presa, o nello scegliere le inquadrature e gli scambi, raggiunge livelli francamente notevoli. 

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Alfred Hitchcock nel ripensare alle riprese di Nodo alla gola (1948) – un film che si svolge in unico ambiente, girato per di più in modo da restituire la sensazione di essere composto da un unico lungo piano sequenza di ottanta minuti – ricordava che «ogni singolo movimento della macchina da presa e degli attori venne accuratamente elaborato nel corso delle prove, con una tecnica simile a quella con cui si preparano gli schemi per le partite di football. Intere pareti dovevano scivolare via per permettere alla macchina da presa di seguire gli attori nel passaggio attraverso strette porte, per poi ritornare silenziosamente alla loro posizione precedente. Anche i mobili erano "ballerini". [...] Questa tecnica, ovviamente, aveva uno scopo. Il pubblico non doveva mai rendersene conto. Se il pubblico capisce che la macchina da presa sta compiendo miracoli, allora lo scopo viene a mancare».

E proprio Nodo alla gola, se ci pensiamo, sembra il riferimento più forte e potente con il quale si confronta Shyamalan in questo suo nuovo film, rovesciando scientemente tutte le premesse alla base del capolavoro di Hitchcock. Se là avevamo una coppia omosessuale unita da un crimine e una ferocia insensata, qua abbiamo una coppia gay unita dall’amore e dal senso di protezione nei confronti di una splendida figlia; se là uomini supponenti ed immorali si ergevano a Dio, commettendo un omicidio senza ragione, qua è Dio che mostra la propria potenza all’umanità intera, per offrirle un’ultima chance di salvezza e redenzione. 

Forse in fondo il cinema è solo cinema, ogni regista non fa che girare lo stesso film, e ogni film è il proseguimento di uno stesso, comune, infinito film.

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