Partigia, un’epica della liberazione
Forse dallo scontro dell’8 settembre del 1944, quando le milizie fasciste sorprendono una banda di partigiani tra i castagni di Bosco delle Tane? Due partigiani uccisi e il capo della banda – Meglioli Dino, nome di battaglia Giuda, anni 22 – trascinato via ferito, torturato per giorni, e infine ucciso, il suo cadavere occultato nella terra di nessuno dietro al cimitero di Pantano, Comune di Carpineti, Appennino reggiano.
Oppure prima, nella retata a Mulino della Grotta nell’estate di quello stesso fatidico e feroce anno di 81 anni fa? Quel giorno di giugno Marino, il fratello di Dino, viene ucciso a freddo dai fascisti, ma Giuda riesce a salvarsi, grazie alla prontezza di sua madre Artenice, che spinge lui e un suo compagno di partigia a riparo nel pavimento, il bucato a protezione della bocca della botola. I due fratelli separati solo dallo spessore dell’assito: mentre Marino muore là sopra, così vicino da poterlo toccare, Dino si morde la lingua, per non gridare.
O, ancora, questa storia inizia all’incrocio di una strada al margine del bosco. Una ruvida lastra di pietra adagiata su una base di cemento. Un cippo con lettere maiuscole, in bronzo, riporta i nomi (propri e di battaglia) di quattro combattenti, insieme a piccole ceramiche ovali con i loro volti di ragazzi: sono i partigiani uccisi e catturati a Bosco delle Tane l’8 settembre 1944. Caduti per la libertà, li ricorda così la stele, posta lì da un’amministrazione comunale in anni, anche questi, ormai lontani.
Sì, probabilmente questa storia ha inizio quando lo sguardo di una ragazza di oggi – scrittrice e ricercatrice in filosofia, che abita quei luoghi e da quei luoghi, e dalla loro storia è a sua volta abitata – si posa su quella epigrafe, su quei nomi, su quelle fredde date, parole che potrebbero suonare ormai vuote e lontane. Sbiadite, come la vernice che un tempo segnava nel marmo le lettere con le quali sono incise le lapidi a ricordo di altri uomini e donne del passato, monumenti che nessuno guarda più, ma che stanno ancora lì nelle strade e sui muri delle nostre case, al centro fisico ma spesso nella periferia mentale di ogni piazza e di ogni paese d’Italia.
Storia, microstoria, filosofia, antropologia, geografia emotiva e morale dei luoghi si intrecciano in L’eterno partigiano. Frammenti per un’epica della liberazione di Caterina Zamboni Russia, già autrice di una bella monografia su Paul Desjardins e le Décades di Pontigny. Ma se quel libro aveva il passo e la forma di una ricerca accademica, questo agile volume (centotrentasette pagine per Compagnia editoriale Aliberti) è intessuto invece da una chiara tensione letteraria. Una scrittura ricercata, attenta all'evocazione e alla sintesi, una voce che risuona di richiami filosofici ma che evita con intelligenza il citazionismo e la pedanteria accademica. Chi vuole approfondire trova nella bibliografia ragionata le rotte, per così dire esterne, che sostengono la densità del testo.

Dalla memoria incisa nei paesi e nei ricordi delle famiglie di Carpineti, l’autrice ripercorre con vividezza episodi terribili e minuti della guerra partigiana nelle montagne intorno a Reggio Emilia: l’agguato di Bosco delle Tane, lo scempio osceno del comandante Giuda, ma anche azioni che non hanno meritato cippi o monumenti, ma che sono frammenti inestinguibili di resistenza civile ed etica. Come il coraggio straziante di Artenice, la madre di Dino e Marino, e delle altre donne che, ripetendo il gesto di Antigone in una buia notte di quell’autunno feroce, la aiutarono a cercare il corpo del figlio, disseppellirlo per restituirgli quella dignità che i nazifascisti avrebbero voluto togliergli per sempre.
Perché riportare alla luce queste storie ormai sopite, interrogando il territorio attraverso la lettura di documenti d’archivio e la raccolta di testimonianze? Perché chiedersi cosa significhi oggi sentirsi radicati ai luoghi della Resistenza, ponendosi così un perimetro fisico e morale su cui si snoda la scrittura?
La risposta la conosciamo tutti: siamo a un giro di boa. I testimoni e i protagonisti diretti di quell’esperienza stanno ormai scomparendo e il ciclo storico che per decenni ha riconosciuto la Resistenza come fondamenta della nostra vita comune – sincero o ipocrita che fosse, questo riconoscimento – si sta esaurendo. E assistiamo così al tentativo di mettere in dubbio il lascito etico della Liberazione, che si evidenzia con le polemiche, sempre più pelose e violente, messe in scena pretestuosamente dalla destra ogni volta che si avvicina il 25 aprile.
Come rinnovare la memoria della lotta partigiana, non sacrificando la complessità e pluralità di quel fenomeno storico fondativo, ma nel contempo mantenendo vivo nel presente, e quindi facendolo nostro, lo spirito e l’eredità di quell’esperienza, cuore ribelle che non smetta di pulsare nel mondo di oggi, per spingerci a lottare per la libertà e la giustizia? In altre parole, come ripensare alle scelte e alle vite di partigiane e partigiani con gli occhi dei cittadini di domani?
Il tentativo coraggioso che Zamboni Russia propone è incamminarsi nello spazio incerto che ci si apre davanti date queste premesse – e l’atto di camminare ha una funzione euristica specifica nella ricostruzione delle storie e delle memorie raccontate nel libro. Spazio incerto perché dobbiamo ancora conoscerlo, capirlo ed esplorarlo.
Che caratteristiche ha questo spazio incerto? Da una parte, in negativo, ci mette di fronte al rischio concreto che l’esempio partigiano scolorisca o si tramuti in pietra inerte (i monumenti per essere memoria civile devono “parlarci”). “Il pensiero sa l’esistenza di un passato che non si lascia percepire – scrive l’autrice – La mancanza di segni che non siano orali farà un giorno dimenticare questa storia, persa nell’immaterialità delle parole.” Quali parole cercare oggi, che non suonino fruste e retoriche?

L'invito è di uscire dalle gabbie di una celebrazione rituale, che finisce per perpetuare un'immagine del passato oleografica, che non chiama in causa il presente e svolge una funzione tutto sommato consolatoria. Del resto già Primo Levi nella prefazione a I sommersi e i salvati scriveva: "Non è detto che le cerimonie e le celebrazioni, i monumenti e le bandiere, siano sempre e dappertutto da deplorare. Una certa dose di retorica è forse indispensabile affinché il ricordo duri. Che i sepolcri, "l'urne de' forti", accendano gli animi a egregie cose, o almeno conservino memoria delle imprese compiute, era vero ai tempi di Foscolo ed è vero ancor oggi; ma bisogna stare in guardia dalle semplificazioni eccessive."
Dall’altro lato lo spazio incerto in cui ci troviamo ci spinge, in positivo, a pensare alla possibilità che esista nei luoghi una persistenza della memoria partigiana. Persistenza che, si badi bene, non si manifesta da sé, ma deve al contrario essere riconosciuta ed evocata, poiché, come nota appropriatamente Zamboni Russia, bisogna vedere i luoghi conosciuti dalla prospettiva dell’inapparenza.
Ricercare ciò che non si vede e conoscere l'interiorità dei luoghi quotidiani. Ritrovarsi attorno a ciò che si nasconde agli incroci delle strade, nei boschi in discesa, tra le pareti delle case e vederlo per la prima volta. Riconoscere un territorio come un archivio da consultare, riportando all’ambito dell’apparenza ciò che apparire non vuole.
Quei monti, quei boschi – che, ripetiamolo, non possono parlare direttamente e che l’abitudine ci disabitua a leggere e interpretare – sono forse i nuovi testimoni da interrogare e da ascoltare?
Del resto, la lotta partigiana è inscindibile dalla sua dimensione territoriale, soprattutto dal paesaggio e dalla natura nei quali non solo si è svolta, ma che hanno incarnato l’essenza stessa della scelta di diventare partigiano e di prendere parte direttamente alla lotta contro il fascismo e contro i tedeschi. Andare in montagna, salire sui monti: non sono gli stessi partigiani ad indicare così la natura della propria scelta? Un percorso fisico che è anche un percorso morale, che porta innanzitutto ragazzi e ragazze giovanissimi a uscire dalla vita ordinaria e dalle regole fino ad allora conosciute e date per scontate, per rispondere a un richiamo etico profondo, a un bisogno di giustizia e libertà che nell’andar nel bosco, nel farsi amici gli alberi, i prati, i sentieri, i passi e i ruscelli ha il contrappasso del farsi nemico degli invasori, dei violenti e degli oppressori.

Senza romanticismi, ché la guerra in montagna ha significato naturalmente freddo, malattie, fango e fame (condizioni terribili che proprio in quell'ultimo inverno di guerra furono particolarmente dure), ma questa comunione con la natura, le pietre, i boschi, le cime – splendidamente raccontata da Primo Levi nel racconto Ferro del Sistema periodico, dedicato all’amico Sandro Dalmastro – è un’eredità e un patrimonio oggi da riconsiderare. A fronte di nuove guerre, ingiustizie, oppressioni e delle violenze terribili dell’uomo sull’uomo, che colpiscono in particolare i bambini, a cui assistiamo con silenzio e spesso complicità; ma anche dello scempio quotidiano di ambienti e soggettività non umane (animali, piante, ecosistemi), violenze altrettanto oscene che perpetriamo all’intero Pianeta.
E qui si arriva all’ultimo passaggio che il libro propone, come suggerito dal sottotitolo: dalla memoria e dalla storia all’epica. Epica non è una parola piana, non si può maneggiare con disinvoltura, perché in essa alberga una doppia eco. Da una parte, interrogarsi su come la Resistenza possa sublimare in un’epica significa trovare i modi perché il passato non passi, perché rimanga presente senza esaurirsi. “Pensare a un’epica delle minime storie significa restituire all’infinitamente piccolo una dimensione di assoluta importanza. Saperlo tanto più locale e radicato e al contempo tanto più rilevante e degno di abbracciare una portata universale. Significa accettare che le proprie storie vengano toccate da altri, che ne sia mutata la specificità dell’orizzonte storico.”
Dall’altra parte, però, l’epica disincarna i fatti e i protagonisti storici dalla storia, li trasfigura in personaggi ed eroi: proiettandoli su di un piano universale ed eterno, in un certo senso ne tradisce la loro specificità. Un po’ come fa una traduzione: è necessaria per passare da una lingua all’altra, ma è sempre e costituzionalmente incompleta e imperfetta. Questo nodo problematico tra tradimento e traduzione è di non facile risoluzione. Come ricorda Primo Levi nel passo che abbiamo citato, bisogna stare in guardia dalle semplificazioni eccessive e, aggiungiamo noi, anche dal richiamo magnetico a un tempo ciclico, in cui il senso e il valore di ogni gesto tendono ad annullarsi, a favore di un’eterna lotta tra pace e guerra, giostra caotica di violenze insensate senza alcun valore etico, politico o morale.
Ma è un nodo problematico che non possiamo eludere, se vogliamo che il monito scritto su quella epigrafe a Bosco delle Tane rimanga valido: “Il sacrificio di questi giovani sia d’incitamento per le future generazioni ad amare la libertà e ammonisca a rifiutare la violenza”. Amare la libertà, rifiutare la violenza, rimanere forti nell’antifascismo.
Nel 1962, per rispondere a due lettori di Vie Nuove preoccupati della diffusione dell’estrema destra, Pier Paolo Pasolini, scriveva «non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società».
