Carl Gustav Jung: il tormento della biografia

6 Giugno 2023

“Che cosa ha avuto senso nella mia vita? Quali conoscenze ho acquisito? Che cosa mi ha lasciato un’impronta? Che cosa è stato importante nel mio lavoro? E che cosa mi preoccupa ora, in età avanzata?” Sono le prime parole di In dialogo con Carl Gustav Jung (Bollati Boringhieri, 2023) il libro di Aniela Jaffé, risultato di anni di colloqui e completamento del suo lavoro sulla biografia raccolto in Ricordi, Sogni e Riflessioni.

Così Jung, che non ha mai voluto che entrassero nelle sue opere complete scritti di carattere personale – affidati appunto alla Jaffé o rimasti incompiuti e segreti come i Libri Neri e il Libro Rosso – formula però il tema essenziale della sua opera, cioè la ricerca del senso, in un chiaro nesso autobiografico e biografico. 

Jung, proprio come Freud, ha in gran sospetto la biografia e dichiara: “un’autobiografia, l’unica cosa che non scriverò mai”. Libri del genere non erano secondo lui del tutto veritieri e per principio non potrebbero neppure esserlo: in tutti “mancava l’essenziale”. Non possono essere del tutto veritieri perché si deve, per diventare sé stessi, per individuarsi, avere e mantenere segreti – bisogna difendere dall’inevitabile aderire “ad altri” le verità che sentiamo più nostre e indicibili. Manca nelle autobiografie e nelle biografie quello che per Jung è l’essenziale: la voce dell’inconscio, il confronto aperto e drammatico con le sue ombre, conflitti, contraddizioni. Per lui la biografia è “un immenso nodo gordiano di fatalità, limitatezza, desiderio e chissà cos’altro. Chi si volesse avventurare in una simile impresa dovrebbe analizzarmi meglio di quanto possa fare io stesso, se volesse combinare qualcosa di buono”. 

Ancora nel 1954 scrive alla Jaffé: “è come se proprio la conoscenza di noi stessi ci facesse sentire ancora più estranei”. Si potrebbe dire quindi che Jung rifiutò di scrivere una autobiografia, o di collaborare a una sua biografia, fino a che pensò al “genere biografia” come a qualcosa di fondamentalmente ingenuo, o persino come a una contraffazione della propria realtà di vita per autogiustificarsi: segno di incapacità di una profonda e seria analisi e autoanalisi. 

Eppure una biografia ci fu, redatta in parte come autobiografia, e fu l’opera di Aniela Jaffé, distillata in anni di colloqui liberi, di ascolto di storie di vita, sogni, visioni e ricostruzioni concettuali, fino alla morte di Jung. In mezzo ci sono gli anni delle malattie e dei lutti delle due compagne di vita di Jung: nel 1953 muore Toni Wolff (e su di lei ci sono pagine importanti che sono state anche uno dei tanti impedimenti alla pubblicazione di questo libro), un anno dopo Emma, la moglie, si ammala di cancro e nel 1955 muore. Ma sono anche gli anni di una attività creativa che ha del mostruoso se si pensa a una persona che nel 1950 aveva compiuto 75 anni e che si sentiva, ovviamente, stressato e vecchio: nel 1951 esce Aion, nel 1952 Risposta a Giobbe, nel 1955-56 Mysterium Coniunctionis. Il lavoro della Jaffé con Jung nasce da questo tremendo e formidabile composto alchemico di rivisitazione della vita e dell’opera. Forse per questo il più bel libro su Jung è Ricordi, Sogni, Riflessioni di Aniela Jaffé che ha, come conclusione e come inquadramento necessari, questo libro In dialogo con Carl Gustav Jung (il titolo tedesco è Streiflichter zu Leben und Denken C. G. Jungs che la storica e bravissima traduttrice di Jung, Maria Anna Massimello, ridà come Lame di luce sulla vita e sul pensiero di C. G. Jung). 

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Nel “Prologo” a Ricordi, Sogni, Riflessioni Jung stesso aveva scritto: “La mia vita è la storia di un’autorealizzazione dell’inconscio. Tutto ciò che si trova nel profondo dell’inconscio tende a manifestarsi al di fuori, e la personalità, a sua volta, desidera evolversi oltre i suoi fattori inconsci, e sperimentare sé stessa come totalità […] Che cosa noi siamo per la nostra visione interiore, e che cosa l’uomo sembra essere sub specie aeternitatis, può essere espresso solo come un mito. Il mito è più individuale, rappresenta la vita con più precisione della scienza. La scienza si serve di concetti troppo generali per poter soddisfare alla ricchezza soggettiva della vita singola.”

Alcuni, anche tra gli analisti junghiani, hanno mostrato perplessità di fronte a questa frase “eccessiva”: “la mia vita è la storia di un’autorealizzazione dell’inconscio”. Tuttavia, posta nel contesto della difficoltà di Jung a lavorare alla sua biografia possiamo forse intuire che fu questa convinzione a farlo decidere per una cooperazione intensa con la Jaffé: la sola intenzione cosciente non basta, sarebbe unilaterale e ci porterebbe a una mutilazione dell’essenziale, cioè all’evitamento del confronto con ciò che il nostro desiderio di costruzione identitaria, fin troppo legato al soddisfacimento delle maschere sociali che occupano gran parte della nostra esistenza, nasconde, rimuove, esclude. Una autobiografia e una biografia ingenue devono essere passate al setaccio della critica, portate almeno ad accennare ai “doppi impresentabili” che ci accompagnano, così come alle fantasie creative, anche se implausibili, che a volte ci visitano. Per questo si può provare a ridirsi in un mito personale che riprenda, variandolo, un mito collettivo: come in una “mitobiografia”, secondo il termine e l’idea che Ernst Bernhard diede all’impresa della ricerca del senso nel riesame dell’esperienza di vita. Alla fine Jung riconobbe che “questo lavoro ha riempito di senso i miei ultimi anni”. 

La sistemazione che Aniela Jaffé ha dato al suo testo disegna un percorso che vale al di là di queste pagine. Dopo la Prefazione di Luigi Zoja, la Premessa di Robert Hinshaw e l’Introduzione dell’autrice, seguono le parti del libro che possiamo vedere come l’architettura dell’interpretazione di Jung proposta dalla Jaffé: Personalità ed esperienza di vita; Attività medica e analitica; Vita terrena e al di là; Immagine dell’uomo, immagine di Dio e visione del mondo. Chiude il volume il “Commento storico” di Elena Fischli (una sorta di libro nel libro che ricostruisce il “giallo” infinito dei problemi e dei colpi bassi, editoriali e personali, che hanno reso pesante il lavoro della Jaffé, insieme a un quadro sintetico della sua vita e della sua opera). 

I capitoli delle conversazioni muovono dalla radice dell’esperienza di vita, dicono cioè che è l’esperienza il modo di vivere la sorgente, e la finalità, della ricerca del sapere e del non-sapere psichico: su questa base soltanto si può cercare di comprendere l’attività professionale e scientifica di Jung come psichiatra e come ricercatore scientifico. Ma esperienza e lavoro sono sorgente e destinazione di ciò che è decisivo nel cercare e dare un senso, una direzione alla vita stessa: la consapevolezza della mortalità e la sua protensione verso l’eterno. Tutto tende al confronto con l’architrave del senso: l’immagine dell’uomo in relazione – di affermazione, di negazione o di problematizzazione – con l’immagine di “Dio” (quale che sia il nome di ciò che ci riguarda in ultima istanza) e, quindi, con la visione del mondo. Questo libro, scritto dalla più attendibile testimone del tormentato sapere e non sapere del maestro zurighese, dimostra ancora una volta che non ci può essere Jung se si scarta il cuore della sua vita e della sua ricerca. D’altra parte proprio la Jaffé ha dato al suo libro più importante un titolo che dice l’essenziale del suo pensiero e della visione del mondo di Jung : Der Mythus vom Sinn, Il Mito del Senso, pubblicato nel 1967 (non ancora, purtroppo, tradotto in italiano). 

Certo, il mito di Jung è il mito del senso, come altrimenti si potrebbero intendere queste parole: “La psiconevrosi è in ultima analisi una sofferenza della psiche che non ha trovato il proprio significato. Ma dalla sofferenza della psiche deriva ogni creazione spirituale e ogni progresso dell’uomo spirituale; e la sofferenza è dovuta al ristagno spirituale, alla sterilità psichica.” 

Jung spesso ironizzava sui filosofi perché non sanno dire cose che servano alla vita. Ma intendeva parlare dei filosofi delle Università perché, quanto alla sua stessa attività, disse che la psicologia analitica poteva essere avvicinata a “qualcosa di simile alla filosofia antica”, cioè alla filosofia quando era ancora un modo di vivere. Scrive Jung: “il vero filosofo – con il che non mi riferisco a un professore di filosofia, il quale per definitionem non è filosofo, visto che si limita a costruire discorsi e non vive mai il proprio pensiero – è colui che trae conclusioni valide per la propria vita: non si tratta di semplici chiacchiere. Egli vive la propria verità, non si riferisce a una sequela di parole, ma a un particolare modello di vita, e anche se non riesce a viverlo fino in fondo, vi si riferisce e vi si approssima”. Queste parole vengono da uno degli ultimi seminari di Jung sullo Zarathustra di Nietzsche e non è affatto una frase buttata lì, ha invece a che fare con il confronto più serrato, inquietante e profondo, che Jung abbia mai avuto con un altro grande pensatore, il filosofo che lo inquietava perché era in risonanza con la sua personalità altra, la numero 2, come usava chiamarla.  

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