JFK desecretato
Ci risiamo. Stop the presses. Fermate le macchine. 80.000 nuovi documenti, apparentemente gli ultimi in possesso degli Archivi Nazionali, relativi all’assassinio del 35° Presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy, sono stati desecretati a seguito di un ordine esecutivo dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Queste carte di cui si è fantasticato per anni dovrebbero, si dice, chiarire il mistero dell’asssassinio del secolo. Carte che generazioni di tremebondi archivisti non volevano mollare per non mettere in pericolo la madre di tutte le scuse: la “sicurezza nazionale”. Alla fine, costretti a rilasciarle, le hanno abbondantemente spennellate con poderose strisciate di marker neri rendendole talvolta pressochè illeggibili; carte che, si badi bene, non comprendono quei documenti che le agenzie di intelligence di tutto il mondo, CIA in primis, si tengono ben strette nei personali caveau (J. Edgar Hoover insegna), fuori dalla portata di ordini esecutivi o impertinenti richieste del FOIA (Freedom Of Information Act). Non tanto perché si possano immaginare chissà quali rivelazioni contengano, o perché scoprire l’ennesima amante di JFK metta in pericolo chissà quale apparato della “sicurezza nazionale”, bensì semplicemente per pararsi il didietro.
Già, perché è altamente probabile che dietro a tutta quella segretezza, quelle carte dimostrino semplicemente l’incompetenza con cui furono svolte le indagini dalla Polizia di Dallas, CIA, FBI, Servizio Segreto e quant’altri (questa inettitudine, sì, sarebbe argomento da “sicurezza nazionale”), così come furono tralasciate piste, sottovalutati testimoni e accantonate dichiarazioni a caldo (a partire da quella dell’equipe medica del Parkland Memorial Hospital di Dallas dove fu portato il Presidente) che mettessero in dubbio la linea investigativa meno compromettente per chiunque dettata dall’FBI: il killer solitario. Il Direttore J. Edgar Hoover, si assicurò immediatamente che il Bureau prendesse il controllo dell’indagine, riducendo il ruolo dei servizi segreti e minimizzando qualsiasi ipotesi di cospirazione, di legami con la CIA o gruppi anticastristi, puntando direttamente su un unico colpevole, Lee Harvey Oswald, ancor prima che le indagini fossero iniziate seriamente. Soprattutto diffondendo l’idea che dubitare della versione ufficiale fosse un atteggiamento anti-americano.

La Novella dello Stento e riassunto delle puntate precedenti
Le rivelazioni contenute in questi nuovi documenti desecretati, dice The Donald, scateneranno un Armageddon mediatico. Al momento in cui scriviamo l’unico terremoto – scoperto da chi ha pazientemente cominciato a sfogliare gli atti – è una riunione di comunisti italiani (a cui avrebbe partecipato il mite scrittore Carlo Levi) intenzionati a scagionare a mezzo stampa un eventuale coinvolgimento dei servizi di intelligence sovietici e scaricare su quelli americani la responsabilità dell’assassinio. Riunione che fece seguito alla pubblicazione, sul periodico Rinascita, di un articolo del giornalista Gianfranco Corsini intitolato “L’assassinio di Kennedy e i servizi segreti Usa” in cui l’autore faceva notare che numerosi elementi davano a intendere che il presunto uccisore del Presidente fosse un agente dell’intelligence americana.

Riassumiamo, dunque, per chi, in questi ultimi sessant’anni si fosse perso qualche puntata della Novella dello Stento, cosa avvenne il 22 novembre 1963 a Dallas, Texas, mentre il Presidente Kennedy era in visita e attraversava la città in una limousine scoperta. Il suo itinerario era stato reso pubblico giorni prima, e il percorso prevedeva il passaggio davanti al Texas School Book Depository, l’edificio in cui lavorava Lee Harvey Oswald, un ex Marine addestrato al tiro, ma non un cecchino d’élite, appassionato di guerriglia cubana, che a diciannove anni si era trasferito per un certo periodo in Unione Sovietica dove aveva cercato di ottenere la cittadinanza, ma poi aveva finito per rinunciare. Secondo la versione ufficiale, Oswald avrebbe sparato dal sesto piano con un Carcano M91/38, un vecchio fucile italiano di fabbricazione militare con otturatore manuale, modello noto per non essere particolarmente affidabile. Secondo il rapporto redatto dalla commissione costituita per indagare sull’assassinio, che prendeva il nome da Earl Warren, presidente della Corte Suprema, Oswald avrebbe esploso contro il Presidente tre colpi in circa 5,6 secondi, riarmando il fucile tra un colpo e l’altro, colpendo il bersaglio in movimento da circa 80 metri, con una visuale parzialmente ostruita dagli alberi.

La Commissione Warren – di cui faceva curiosamente parte Allen Dulles, l’ex capo della CIA responsabile del disastro del fallito tentativo di rovesciare il governo di Fidel Castro a Cuba a seguito dell’invio di una manciata di esuli cubani fatti sbarcati sulle spiagge della Baia dei Porci, e per questo licenziato in tronco da Kennedy – concluse che tutti i colpi che raggiunsero JFK provenivano da dietro il corteo presidenziale. Tuttavia, il celebre filmato amatoriale del testimone Abraham Zapruder mostra Kennedy che, al momento del colpo fatale, sembra scattare all’indietro e a sinistra. Alcuni sanitari del Parkland Hospital dove era stato portato d’urgenza il Presidente, tra cui il dottor Malcolm Perry – il chirurgo toracico che eseguì una tracheotomia per facilitare la respirazione – inizialmente descrissero la ferita alla gola come compatibile con una ferita d’ingresso, il che implicherebbe un colpo frontale, un secondo tiratore. Tuttavia, Perry successivamente ritirerà la sua testimonianza dichiarando che il foro era magari un’uscita di proiettile. Altri medici presenti in sala operatoria, come il dottor Charles Crenshaw e il neurochirurgo Robert McClelland, continuarono invece a sostenere che la ferita alla testa fosse compatibile con un colpo frontale. Tuttavia, le loro osservazioni furono in gran parte ignorate dalla Commissione Warren, che ribadì la teoria del tiratore solitario.

Questa discrepanza ha alimentato nel tempo numerose teorie del complotto, tra cui l’ipotesi di più tiratori e un possibile insabbiamento. Nel 1979, la House Select Committee on Assassinations (HSCA) riesaminò il caso e, sulla base di un’analisi acustica (successivamente contestata), concluse che probabilmente ci fu una cospirazione e che furono sparati almeno quattro colpi. Nel rapporto ufficiale si legge: «Il Comitato ritiene, sulla base delle prove a sua disposizione, che il Presidente John F. Kennedy sia stato probabilmente assassinato come risultato di una cospirazione. Il Comitato non è però in grado di identificare l’altro uomo armato o la portata della cospirazione». Il rapporto dell’HSCA criticò inoltre la mancanza di supervisione da parte del Dipartimento di Giustizia sull’operato dell’FBI. Tuttavia, le sue conclusioni non portarono a un nuovo processo o a una revisione ufficiale del caso. I nuovi documenti chiariranno i dubbi? God Only Knows, cantavano i Beach Boys.
Bizzarre coincidenze e morti collaterali
Certo è che anche chi è scettico (se non addirittura “negazionista”) verso le teorie complottiste non può fare a meno di notare una serie di bizzarre coincidenze, nel senso di una nutrita sequenza di morti sospette avvenute all’indomani dell’attentato al Presidente. Si comincia proprio con il presunto assassino, Lee Harvey Oswald ucciso, in diretta televisiva mentre viene trasferito nella prigione della contea, da tale Jack Ruby, proprietario del Carousel Club, un nightclub di Dallas frequentato da esponenti della criminalità organizzata e poliziotti più o meno corrotti, uno che se la faceva con Sam Giancana (mafia di Chicago) e Carlos Marcello (mafia di New Orleans) entrambi nemici giurati dei fratelli Kennedy: di John, per non aver protetto i loro interessi a Cuba (casinò, prostituzione, droga) cacciando Castro dall’isola, e di Bob, che nella sua veste di Procuratore Generale stava loro col fiato sul collo.

Jack Ruby, arrestato e sottoposto a processo, verrà condannato a morte per omicidio premeditato. Lui sosterrà di aver ucciso Oswald per risparmiare alla vedova Kennedy il dolore di un processo. Dice di aver agito d’istinto, spinto da un impulso patriottico e, sebbene ebreo non praticante, è ossessionato dall’idea che forze oscure volessero gettare la colpa dell’assassinio sulla comunità ebraica di Dallas. Durante la prigionia, Ruby inizia a raccontare che qualcuno lo ha incastrato e che c’è una grande cospirazione dietro l’omicidio di Kennedy. Si agita, chiede di poter testimoniare a Washington, teme per la propria vita. La sua condizione mentale peggiora: nel 1965 tenta più volte il suicidio in carcere, ma ogni volta viene salvato. Poco dopo, la Corte d’Appello annulla la condanna a morte per vizi procedurali e ordina un nuovo processo, che però non avrà mai luogo. Nel gennaio del 1967, Jack Ruby muore in un ospedale di Dallas per un’embolia polmonare causata da un tumore diagnosticato pochi mesi prima. La sua morte, come tutto ciò che riguarda il caso Kennedy, alimenta nuove teorie cospiratorie: davvero nessuno si era accorto della sua malattia fino a quando non era troppo tardi per mettere a verbale la sua “verità”? E soprattutto, era davvero solo un uomo che aveva agito d’impulso, o sapeva molto più di quanto abbia mai potuto dire?
Le morti violente non si fermano, e questa che segue è solo una selezione. Dicembre 1963: Stanley “Jack” Zangetty, manager di un resort con gioco d’azzardo in Oklahoma, viene trovato morto colpito da diverse ferite d’arma da fuoco: alcuni clienti raccontano che Jack andava in giro dicendo di sapere che Oswald sarebbe stato ucciso il giorno dopo l’attentato a Kennedy. Marzo 1964: Hank Killam, un imbianchino con legami con Jack Ruby e Lee Harvey Oswald, viene trovato “misteriosamente suicidato”. Aprile 1964: Bill Hunter, giornalista del Long Beach Press-Telegram che si era occupato dell’assassinio di Kennedy e di Jack Ruby, è ucciso “per errore” da un agente di polizia. Settembre 1964: Jim Koethe, reporter del Dallas Times Herald che si stava occupando del caso Ruby, viene trovato morto nel suo appartamento con il collo spezzato da un colpo di karate. Febbraio 1967: David Ferrie, aviatore accusato dal Procuratore Distrettuale di New Orleans, Jim Garrison, di essere coinvolto nella cospirazione per assassinare il Presidente Kennedy, aveva spergiurato di non conoscere Oswald ma viene smentito da una foto che lo ritrae insieme all’ex Marine. Poco dopo anche Ferrie viene trovato “suicidato”.

Le donne che sapevano troppo
Ma tra le morti più inquietanti legate al caso Kennedy, spiccano quelle di Mary Pinchot Meyer e Dorothy Kilgallen. La prima, personaggio di spicco dell’alta società di Washington, era stata sposata con Cord Meyer, importante funzionario della CIA, sua sorella Antoinette era la moglie di Ben Bradlee, il futuro direttore del Washington Post all’epoca dello scandalo Watergate, e una delle sue più care amiche era sposata con James Jesus Angleton, capo del controspionaggio della CIA, colui che il New York Times definiva: “il più grande raccoglitore di segreti personali della nazione, secondo solo a J. Edgar Hoover”.
L’amicizia con Jacqueline Kennedy aveva poi aperto a Mary le porte della Casa Bianca e quelle della camera da letto del Presidente. La sua relazione con JFK è raccontata in diversi libri, tra cui il più famoso e documentato è Mary’s Mosaic (Skyhorse, 2012) in cui l’autore Peter Janney dà conto del fatto che Mary fosse tra le persone più vicine al Presidente nei suoi ultimi anni di vita. Si sussurrava addirittura che Kennedy avrebbe voluto divorziare per lei. Fatto è che il 12 ottobre 1964, meno di tre settimane dopo la pubblicazione del Rapporto Warren, sulle cui conclusioni Mary aveva espresso, in pubblico, forti dubbi, fu uccisa mentre passeggiava lungo il Chesapeake & Ohio Canal a Washington, colpita da due colpi di arma da fuoco sparati a distanza ravvicinata. Dopo la sua morte, James Angleton, secondo quanto raccontato da Ben Bradlee, si sarebbe introdotto nella sua casa per recuperare il diario in cui Mary annotava i suoi incontri con il Presidente. La versione più diffusa sostiene che il documento sarebbe stato distrutto dallo stesso Angleton, anche se non esistono conferme ufficiali.

L’altra morte misteriosa è quella di Dorothy Kilgallen una delle giornaliste investigative più celebri d’America. Aveva avuto accesso esclusivo a documenti riservati e testimoni chiave dell’inchiesta sull’assassinio di JFK che mettevano in dubbio la versione ufficiale della Commissione Warren. Fu l’unica giornalista a ottenere un’intervista privata in carcere con Jack Ruby, e più volte dichiarò di avere raccolto informazioni che avrebbero “sconvolto il Paese”. L’8 novembre 1965, Kilgallen fu trovata morta nella sua casa di New York. La causa ufficiale fu attribuita a un’overdose accidentale di sonniferi e alcol, ma molte circostanze risultarono sospette. Gli appunti della sua personale inchiesta riguardo all’omicidio Kennedy scomparvero nel nulla e la loro esistenza non venne mai più menzionata dalle autorità. Il caso venne chiuso in fretta e furia, senza un’indagine approfondita. Subito dopo la sua morte, il suo nome iniziò a svanire dalle cronache giornalistiche, come se qualcuno si stesse adoperando per seppellire il suo lavoro sotto un velo di silenzio. Nonostante fosse stata una delle reporter più influenti della sua epoca, oggi il nome di Dorothy Kilgallen è quasi dimenticato, come se una sorta di damnatio memoriae fosse stata orchestrata da chi poteva avere interesse a far tacere la sua voce scomoda. La sua storia è stata raccontata dal giornalista investigativo Mark Shaw nel libro The reporter who knew too much (Post Hill Press, 2017).
Par condicio per il killer solitario
E se Lee Harvey Oswald fosse veramente l’attentatore solitario di John Fitzgerald Kennedy? E se, quarantotto ore dopo, Jack Ruby avesse veramente ucciso Oswald in un momento di follia vendicativa? Insomma, e se avesse ragione il tanto deprecato Rapporto Warren, e dietro gli angoli bui del mistero del secolo non ci fosse alcun mistero? Questa era la tesi “rivoluzionaria”, sostenuta da Gerald Posner, ex avvocato passato al giornalismo investigativo, nel libro Case Closed (Random House) uscito nel 1993 alla vigilia del trentesimo anniversario dell’assassinio. Il libro fece scalpore all’epoca soprattutto perché nonostante giornali, televisione, libri avessero, negli anni, tenuto calda l’attenzione del pubblico sul coté complotto, certi dettagli fondamentali dell’inchiesta si erano persi per strada. Un po’ per pigrizia, un po’ per assecondare questa o quella teoria, appunto. Ed era per sgombrare il campo da tutte le forzature, le inesattezze, le partigianerie, che l’autore ripercorreva, passo passo, l’inchiesta ufficiale alla luce di nuove verifiche, di nuove testimonianze: straordinaria quella rilasciata da Yuri Nosenko, l’ex alto funzionario del KGB passato all’Occidente nel gennaio del 1964 che, a suo tempo, aveva seguito la pratica per la richiesta di Oswald di asilo politico a Mosca. Io ebbi occasione di intervistare Posner per il Corriere della Sera (“Uno sparo lungo trent’anni”, 11 novembre 1993) e quello che segue è una piccola parte di quel colloquio.

La Banda Bassotti
Posner, come nasce Case Closed? «Sono sempre stato un lettore accanito di libri che sposavano la teoria del complotto, e a un certo punto mi sono accorto che troppo spesso uno contraddiceva l’altro, non su tesi generiche, ma su fatti specifici. Così ho pensato di mettere da parte i cosiddetti documenti storici e di ripartire con l’indagine da zero. Il risultato è un libro basato su informazioni primarie e non su degli “hanno detto” e “hanno scritto”; è uno strumento per giudicare l’attendibilità o meno di certe prove che si pretende, di volta in volta, di spacciare per storiche».
Lei prende seriamente in esame l’ipotesi di un coinvolgimento della mafia nell’assassinio, mentre non sembra dare molto peso alle teorie del complotto governativo. «Non ho mai pensato che il governo fosse coinvolto. È gente troppo inefficiente. Se mai qualcuno fosse riuscito a organizzare un complotto del genere non sarebbe riuscito a tenerlo segreto per trenta giorni, si figuri per trent’anni. L’unica eventuale pista seria mi sembrava quella della mafia, a causa degli stretti legami con Jack Ruby».
In pratica, lei dice che c’è stato piuttosto un insabbiamento e un tentativo di inquinamento delle prove. «Assolutamente. L’FBI ha incasinato l’inchiesta. Hanno distrutto un appunto di Oswald per cercare di minimizzare i contatti che avevano avuto con lui. La CIA se la faceva sotto all’idea che la Commissione Warren scoprisse e rendesse pubblica l’alleanza stipulata con la mafia con l’obiettivo di uccidere Fidel Castro. Viene da ridere pensando che una delle più popolari teorie vedrebbe la CIA e la mafia complottare contro Kennedy. Ma se lo immagina: da tre anni e mezzo quelli cercavano di far fuori Castro e non ne azzeccavano una. Vorrei stendere un velo pietoso sul tentativo di rifilargli sigari esplosivi. Sembravano la Banda Bassotti. E si vorrebbe far credere che, all’improvviso, con precisione inaudita, uccidono il Presidente degli Stati Uniti e insabbiano le prove in modo tale che per trent’anni sono riusciti a sfuggire a cani mastini di investigatori».
Secondo lei sapremo mai la verità? «Dopo tutti questi anni di pasticci? No, non credo».
Dall’epoca di quel libro-inchiesta sono passati altri trent’anni (quasi trentadue) e siamo punto e a capo – almeno, come detto poc’anzi, “al momento in cui scriviamo”. In attesa che qualche storico volenteroso spulci gli ultimi rimanenti 80.000 documenti.
