5 per mille

Urbanoclastia. La cancellazione programmata delle città

30 Luglio 2025

“L’aria aveva un odore di pulito, con un sentore di agrumi proveniente da alcuni alberi piantati in mezzo del parco. Sul ciglio della strada un vecchio stava arrostendo patate americane. Accanto a lui un ragazzino alimentava il fuoco con dei ramoscelli, e la grande pentola sembrava appoggiata in un equilibrio molto precario su tre grosse pietre. Il fuoco e l’odore delle patate arrosto commiste all’aria profumata di agrumi mi davano conforto”, il primo capitolo dell’opera teatrale di Ahmed Masoud, Come What May, ci porta lungo le strade di Gaza City ed è un percorso fatto di odori, di cibo, di rumore di mare in lontananza. Quelle strade, quei nomi, quei gesti quotidiani che fine hanno fatto?

A Gaza è la devastazione a prevalere, un vuoto che non richiama più nulla di ciò che, fino a pochi mesi fa, era un tessuto urbano vivo. Qualcuno parla di urbicidio o di ecocidio, perché anche la natura è stata annientata, ma forse queste parole non dicono abbastanza. È la scrittrice palestinese Zena Agha a suggerire la parola “disinvenzione”: una volontà sistematica di cancellare l’esistenza stessa di un luogo dalla memoria collettiva, come se quel luogo non fosse mai esistito. Agha racconta una cancellazione profonda fatta di dettagli, “il pozzo che si sgretola e si riempie di acqua stagnante, i pascoli ricoperti di vegetazione e contorti dai cactus, la moschea o il muro della scuola crollati su se stessi” (Zena Agha, The Dis-Invention of Gaza, “Arab Studies Journal”, 2024).

È il lascito tragico della guerra, di ogni guerra, si potrebbe osservare. La distruzione urbana è sempre stata una ferita aperta nella memoria collettiva, ma la scala e le logiche attuali hanno assunto tratti inediti. Nei ricordi dei nostri vecchi restano ancora vive le immagini di Milano bombardata nel ‘43, così come quelle di Roma o di Dresda. A Milano morirono sotto le bombe circa mille persone. A Roma, tremila. Oggi la distruzione urbana ha assunto una scala industriale e una logica programmatica, che non colpisce più solo le infrastrutture militari, ma mira a smantellare ogni tessuto di vita. Una vera e propria tabula rasa.

Ci inquieta e ci turba questa tabula rasa, ma va guardata in faccia perché è uno degli aspetti più rilevanti del nuovo immaginario immobiliarista che alimenta trasformazioni urbane, conflitti, politiche coloniali. È qualcosa di profondo, un’ossessione per il “nuovo assoluto” che in forme diverse attraversa la politica urbana e i nuovi mercati immobiliari: una pulsione a cancellare ogni traccia di preesistenza per riscrivere il mondo come fosse una pagina bianca. Questa tabula rasa estetico-politica si traduce in una damnatio memoriae dell’urbano, dove il passato viene sistematicamente rimosso, percepito come ostacolo all’ottimizzazione economica e alla riscrittura estetica della città.

Voglio chiamarla iconoclastia immobiliare, un progetto ideologico che non si accontenta di trasformare gli spazi, ma punta a riscrivere la città stessa, cancellandone la memoria storica e sociale perché insofferente verso ogni pre-esistenza. È una politica della demolizione, dove radere al suolo diventa il gesto fondativo di nuovi cicli di rendita e potere, spesso senza alcuna reale tensione rigenerativa o sensibilità per il contesto.

Dal Fuck the contest di Koolhaas a Delete the contest dell’immobiliarista bellico è stato un attimo.

A ben altra scala, la città pianificata ex novo diventa un veicolo politicamente potente e favorevole alle imprese per attrarre investimenti e integrarsi nell’economia globale. L’estetica di The Line, città lineare progettata per estendersi per 170 km nel deserto della provincia di Tabuk, lungo la costa del Mar Rosso, è costruita sul fascino di qualcosa che nasce nel nulla; un centro urbano (senza più un centro) pensato per ospitare fino a 9 milioni di persone con ogni tipo di confort. È una macchina potente di immaginazione, un “mai prima d’ora” che suggerisce esclusività di classe, lusso, gusti globalizzati, legami privilegiati con i centri della finanza e del commercio mondiale. Le nuove città globali nascono dalla combinazione dell’interesse politico e finanziario col modello di seduzione fondato sul lusso.

È sempre la tabula rasa ad ispirare il presidente-immobiliarista Trump.

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Marzo 2023. Non dovremmo dimenticare quando, durante la sua ultima campagna elettorale, lanciò la proposta di costruire dieci nuove città, le cosiddette Freedom Cities, dando forma compiuta a un’idea di innovazione urbana fondata sul lusso e l’esclusione. Progettate per essere edificate su terreni federali e appaltate tramite gare tra masterplan privati, queste città segnano un cambio di rotta radicale: anziché trasformare, adeguare, innovare le città esistenti, Trump pensa a fondarne di nuove, partendo da zero.

Perché una Freedom City incarna il desiderio di città esclusiva, progettata per dare forma materiale e simbolica alla perfezione di una nuova specie urbano-architettonica che, per essere tale, non è disposta fare i conti con i vincoli dell’esistente. Un’estetica dell’auto-segregazione e della sicurezza che si nutre dell’immaginario edonista e anestetizzante: piscine a sfioro, giardini pensili, palestre panoramiche che convivono con muri di cinta, sistemi di sorveglianza e dispositivi di controllo del territorio. È una bellezza blindata, che esclude per proteggere.

Un modello perfettamente coerente con la logica bellicista del suo secondo mandato.
La spirale del ciclo bellico-immobiliare ha purtroppo una sua coerenza – arma, distrugge, ricostruisce, guadagna – e l’interesse di chi distrugge converge con quello di chi ricostruisce. La guerra è seguita dalla ricostruzione, presentata naturalmente come atto di speranza e solidarietà internazionale. Ma dietro la retorica della rinascita si celano logiche di profitto che più ciniche non si può.

Le guerre moderne, come spiega da anni l’economista della pace Raul Caruso, generano un continuum di guadagni: produzione e vendita di armi, ricostruzione affidata ad agenzie statali o imprese private, controllo politico ed economico delle aree devastate. In questo quadro si inseriscono anche le 60 aziende denunciate da Francesca Albanese, relatrice ONU per Gaza (Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio).

Anche in questo caso è stato lo stesso Trump il 4 febbraio scorso a rilanciare l’idea di trasformare Gaza in una “Riviera del Medio Oriente”, reinsediando altrove i palestinesi. In molti l’hanno liquidata come una boutade, una provocazione, quel video che chissà quale cane sciolto della comunicazione aveva concepito. Oggi capiamo come quel lancio non fosse così estemporaneo quanto si poteva credere: il clima di Gaza è molto simile a quello della Florida, e l’inviato speciale USA in Medio Oriente, Steve Witkoff, è un imprenditore immobiliare di lungo corso. Sempre lui inviato in febbraio – ma sarà un caso – nei colloqui bilaterali con la Russia per la guerra in Ucraina.

Gennaio 2020. Non dovremmo dimenticare nemmeno il precedente piano Peace to Prosperity (for a Brighter Future for Israel and the Palestinian People), elaborato da Trump nel corso del 2019, in cui già parlava di Gaza come di un’area dal “potenziale straordinario”, suggerendo già allora un processo di pacificazione travestito da operazione immobiliare.

Altri, in queste settimane, sembrano allinearsi a questa inquietante visione. Cosa intende il ministro israeliano Israel Katz quando annuncia la costruzione di una “città umanitaria” sulle macerie di Rafah, destinata ad accogliere l’intera popolazione superstite di Gaza? La parola “umanitaria” suona sinistra, stonata, se rapportata a uno scenario che evoca più una città-prigione che un luogo di accoglienza. O, come osserva Raniero La Valle, una tonnara, dove i tonni vengono ammassati prima della mattanza.

Ma siamo usciti allo scoperto. Ancora più sconcertante è il recente post pubblicato su X dalla ministra israeliana dell’Innovazione, Gila Gamliel, accompagnato dall’immancabile video generato con l’intelligenza artificiale: un render patinato che immagina Gaza trasformata in una lussuosa riviera, popolata di yacht, campi da golf e grattacieli. Una visione oscena e sconcertante, ma anche pericolosamente seduttiva: il miraggio di un mega-resort del futuro nel quale spazi di privilegio – dalle towers alle marine private – si affiancano a spazi di confino e segregazione.

Gaza rischia di diventare il laboratorio più estremo della nuova città disumana, il luogo dove la logica della rendita e dell’esclusione si traveste da futurismo e innovazione. Un’ipotesi che dobbiamo stigmatizzare senza ambiguità, perché ciò che si gioca qui non è solo il destino di un popolo, ma la legittimità stessa del progetto urbano come espressione universale di convivenza civile.

Ma torniamo all’uso distorto dell’urbanistica come arma di guerra, da anni denunciato dall’architetto israeliano Eyal Weizman in Cisgiordania: si esprime come un controllo del suolo e dei confini che separa ciò che sta sopra da ciò che sta sotto, chi può muoversi da chi è confinato, chi può usare le risorse naturali da chi ne è privato.

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Una modalità di dominio che già più di vent’anni fa Achille Mbembe definiva necropolitica (Necropolitics, 2003): quel potere contemporaneo di decretare la vita o la morte di intere comunità, confinandole in “zone di morte lenta”: campi di concentramento, carceri, zone occupate, baraccopoli, campi di detenzione per migranti. Da Gaza ad Alligator Alcatraz, ai centri migranti in Albania dell’attuale governo italiano.

Non a caso Mbembe faceva riferimento alla Palestina come “forma più compiuta di necropotere”; qui la frammentazione, l’espansione di insediamenti, la sovranità verticale, che si manifesta attraverso sistemi di cavalcavia e sottopassaggi, hanno nel tempo generato due geografie del territorio che condividono sì lo stesso panorama, ma con una distinzione non più solo sul piano orizzontale, ma su differenti piani verticali.

Con modalità diverse il paradigma immobiliare ispira altre possibili ricostruzioni post-belliche. In Ucraina, le conferenze internazionali propongono partenariati pubblico-privati, grandi fondi e riforme di mercato. La ricostruzione diventa una vetrina, assumendo il linguaggio dell’agenzia immobiliare, come se quelle terre non fossero ancora intrise di morte e sofferenza.

Questo paradigma trasforma la ricostruzione in un’operazione di marketing urbano, come osserviamo in siti come AdvantageUkraine.com, dove è lo stesso Zelensky a vendere la ricostruzione come “la più grande opportunità per l’Europa dalla Seconda guerra mondiale”. Devo ammettere, digerire una homepage con lo slogan “Hey, imprenditori!” con Zelensky in posa da testimonial non è facilissimo.

Ancora una volta è all’opera il fascino della rinascita da zero. Perché è qui che il discorso sul mercato immobiliare della guerra ci chiama a nuove responsabilità anche nei contesti nostri, ordinari, di pace. Perché è importante capire che l’oscenità degli scenari finora descritti se per un verso ci rende attoniti e ci disturba, per un altro ci abitua, di boutade in boutade, all’oscenità stessa della pratica. Giorno dopo giorno l’asticella dell’intolleranza estetica e culturale si abbassa fino a farci familiarizzare con l’idea che, in fondo in fondo, il concetto di demolizione tout court sia un’opzione possibile, sempre.

La cancellazione diventa l’obiettivo stesso di una politica urbanistica che vede nel passato, nelle memorie e nelle relazioni sociali un ostacolo alla massimizzazione del profitto. Da Gaza a Milano, da Tabuk a New York, la pulsione alla cancellazione si insinua come un virus anche nelle pratiche di rigenerazione urbana, nei masterplan delle nuove città globali, nelle ristrutturazioni domestiche che svuotano di senso le case storiche.

Dobbiamo restituire alla parola “ricostruzione” il suo senso più profondo, il suo intrinseco e umano pudore: è un processo di pacificazione, di giustizia, di ascolto delle comunità, di restituzione e riparazione. Non può bastare ricostruire i monumenti, affidarsi a imprese estere o ingaggiare università. Restituire vita a una comunità richiede di dare voce a chi ha vissuto e sofferto, sostenere piani che nascano dalle vittime. Ricostruire non è cancellare: è riparare, ascoltare, proteggere.

È un atto di cura, che restituisce ai luoghi la loro anima e alle comunità il diritto di esistere, come quello che ha fatto dire al Cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, al ritorno dal suo recente viaggio a Gaza, pur tra le più terribili rovine umane: “ci siamo imbattuti in qualcosa di più profondo della distruzione: la dignità dello spirito umano che rifiuta di estinguersi. Madri che preparano cibo per altri, infermiere che curano con dolcezza, persone di tutte le fedi che ancora pregano un Dio che non dimentica”. Si riparta da lì.

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