María Zambrano. L’aurora, l’esilio, il parto

2 Novembre 2020

Sentinella all’erta!

María Zambrano fu per tutta la vita una donna insonne. Ella stessa racconta, nella sua quasi-autobiografia, delle notti trascorse da sveglia, con gli occhi sbarrati, ad attendere l’aurora: «Vicino alla mia casa, a Madrid, si udivano le sentinelle chiamarsi e rispondersi: ‘Sentinella all’erta! All’erta sto! E io per questo non volevo dormire, perché volevo essere una sentinella della notte, e credo sia proprio questo, l’essere sentinella, l’origine della mia insonnia perpetua» (nella trad. it. in «Aut aut», 279, 1997, p. 125). 

Filosofa dell’aurora definisce Zambrano Elena Laurenzi, curatrice di questo volume (Dell’Aurora, Bologna, Centro editoriale dehoniano; ed orig. De la aurora, Madrid 1986) risalente al 2000 e del quale la presente è un’edizione identica alla precedente e riproposta vent’anni dopo.

 

Le aurore insomma Zambrano le vedeva e le viveva in prima persona, intensamente. Le aurore anticipate dal canto del gallo che «irrompe e spalanca, in modo decisivo, le porte e il cammino della storia» (Dell’aurora, p. 131). Il gallo animale profetico allorché annuncia, cantando tre volte, il tradimento di Pietro; il gallo animale del sacrificio, che Socrate chiede venga sacrificato a Asclepio, dio guaritore, nel momento in cui avrebbe bevuto la cicuta; il gallo, infine, animale del limite tra la notte e il giorno, l’oscurità e il chiarore, che separa la parte «inferiore» delle 24 ore, la notte, dalla parte nobile del giorno, nobile perché ingloba nel proprio nome e nella propria essenza, giorno, sia se stesso sia la notte e spalanca davvero «le porte e il cammino della storia», dal momento che la storia appartiene al giorno e agli uomini, non alle donne, cui spetta la notte.

 

L’aurora e l’esilio

Le sue aurore María Zambrano le vedeva dalle finestre delle camere dei luoghi del suo esilio. Fu infatti una filosofa espatriata volontariamente dalla Spagna franchista che visse intensamente l’esilio, in spagnolo destierro, separazione dalla propria terra, e il suo fu un pensiero dell’esilio, mobile, nomade, perennemente in viaggio tra le varie forme della filosofia (il diario, la guida, la lettera, il dialogo...) e tra filosofia e poesia. Accostabile in questo al pensiero di un’altra pensatrice dell’esilio, sua contemporanea, Rachel Bespaloff, ebrea ucraina nata nel 1895 e morta suicida nel 1949, esule in Svizzera, in Francia, negli Stati Uniti, pensatrice di grande vigore e originalità trascurata dalla storia del pensiero come lo fu a lungo María Zambrano; entrambe scoperte soltanto pochi decenni fa e riconosciute come figure di prima grandezza sulla scena intellettuale del Novecento.

 

 

Entrambe esuli, senza un ubi consistam, rifugiate, sempre in viaggio alla ricerca di una stabilità che rimane preclusa e inaccessibile: Bespaloff a causa delle sue origini ebraiche; Zambrano invece a causa delle sue idee politiche, da subito saldamente opposte alla dittatura franchista in Spagna, dove tornerà, con molte cautele, soltanto nel 1982, per morire nel 1991 a Madrid essendo nata a Vélez-Malaga nel 1904.

Il tema dell’aurora in quanto momento iniziale della giornata si presenta strettamente legato a quello della nascita, in Zambrano, anche se Zambrano madre mai non fu. E nascere è per Zambrano una tragedia, sì, una ferita. 

 

Il peggior delitto dell’uomo è essere nato

«Porque el delito peor del hombre es haber nacido»: questa affermazione di Pedro Calderón de la Barca tratta da La vita è sogno (dove la madre del protagonista muore di parto), è ripresa e ripetuta più e più volte nelle opere di Zambrano e commentata ogni volta con una sfumatura diversa. Sicuramente, data la formazione classica di Calderón, la frase riprendeva il topos culturale tradizionale che ancora e sempre, a partire da Eschilo, ripete la terribile sentenza secondo la quale «è meglio non essere nati, non essere, essere niente». Eppure la maggior parte degli interpreti di tale tradizione di pensiero la tradisce, dagli autori tragici dell'età classica a Paolo di Tarso, ai moderni, Kierkegaard, Nietzsche e Simone Weil, in quanto di fatto tutti rovesciano la dichiarazione, l'affermano per negarla, usandola quasi come espediente retorico. Così anche María Zambrano proclama che esser nati è una tragedia, anzi, l'unica tragedia, per poi dire sì alla vita. Soprattutto nel caso in cui la vita che segue alla nascita naturale venga in qualche modo riscattata dalla vita che segue a un'altra nascita, spirituale o culturale.

Il delitto del nascere – si chiede Zambrano in questa raccolta di testi sull'Aurora – è il «non essersi accontentati di essere stati semplicemente creati? L'aver bramato di nascere?  Perché nascere è possibile solo fuori dal Paradiso» (p. 47). Nascere non è essere creati, nascere richiede la partecipazione della creatura. È un orrore la nascita, riprende ancora il tema Zambrano in Delirio e destino, eppure, immediatamente dopo l'affermazione tragica, ecco la sua negazione, il rovesciamento: che meraviglia «aprire gli occhi alla luce sorridendo, benedire il nuovo giorno, l'anima, la vita ricevuta, la vita... Un regalo di Dio che ci conosce, che sa il nostro segreto, la nostra inutilità».

 

Nascere è per Zambrano una ferita, ma una ferita da cui si delinea un essere di delirio e passione, un fuoco oscuro indistinto che è anche venire alla luce o il nascere della luce, incarnato nell'Aurora, figura e momento perennemente presente alle notti insonni della insonne filosofa dell'esilio: «l'Aurora virginale, pura rosa accesa» che partorisce «con dolore e umiliazione» dando alla luce «la luce stessa che noi vediamo».  Figura del limite come lo è il gallo, non oscurità completa né limpida chiarezza, l’aurora decreta la venuta del giorno e insieme la propria morte che si rinnova ogni giorno. Dalle viscere della notte nasce l’aurora la quale a sua volta dà alla luce il sole.

 

La prima e la seconda nascita

È innegabile dunque che la nascita, così messa in ombra dalla filosofia prima delle considerazioni di Hannah Arendt, assuma una valenza particolare e una pregnanza di significato – scrive Elena Laurenzi – nel pensiero di María Zambrano. Soprattutto in quanto seconda nascita, la nascita alla lingua, alla civiltà, alla cultura, alla scienza, alla tecnica, giacché all'uomo si chiede, dopo la prima nascita, di umanizzarsi, di proiettarsi in un essere che aspira al possesso dell'universo: non è sufficiente essere stati semplici creature, altrimenti l'essere nati non sarebbe il peggior delitto e saremmo innocenti. L'inizio umano non è quindi un principio fondante o fondativo al quale poter ancorare e assicurare il proprio essere; è inizio nascente, aurorale, quale iniziale ed essenziale debolezza di dover continuare a nascere, la seconda volta, e poi ancora, fino a – sempre che sia possibile – finir di nascere interamente.

Della presenza della madre, del distacco del parto qualcosa María Zambrano lascia trasparire, in quelle espressioni, riferite all'Aurora, che parlano di «parto illegittimo della luce», di «parto precoce», di «lacerazione e sofferenza» nel parto che dà alla luce il giorno, ogni giorno, quando il gallo canta, aprendo col canto, lo sappiamo, le porte al cammino della storia. 

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