Enzo Moscato poeta

15 Gennaio 2024

Voglio dormire il sonno delle mele.
Allontanarmi dal tumulto dei cipressi, voglio.
Dormire il sonno di quel Bimbo che il cuore suo
voleva,
spezzarsi, tutto quanto in alto mare.
Non voglio sentirmi ripetere che i Morti non perdono sangue.
Che la bocca, imputridita, continua a chieder acqua, acqua.
Non voglio conoscere i martìri che dà l’erba.
Né la luna con il sìbilo e’ serpente –
che declìnasi “ante albas” velenosa.
Voglio dormire un momento –
‘nu momento, ‘nu momento, un secolo.
Ma che tutti sappiano che morta non sono:
che c’è una stella d’oro alle mie labbra,
che la “petite amie j’etais” del vento di ponente,
che sono, e fui, chell’ombra, immensa, immensa, immensa,
delle lacrime che ho dato.

Copritemi all’aurora con un velo-
oh, sì, lo voglio! -
Perché sopra verserà manciate di formiche.
Poi, con l’acqua dell’“ardiente”, faciteme brillà,
comm’a diamante,
la funebre anilina delle scarpe!

Voglio dormire il sonno delle mele, voglio!
E conoscere quel pianto che me lev’acopp’ ‘a Terra:

aquèl Ninito oscuro, quieto ser,
che il cuore suo spezzò e ricompose,
tutto quanto, in alto mare

da Co’Stellazioni
(1995)

 

Parafrasando il Nietzsche di Al di là del Bene e del Male
Diremo forse anche noi

che ciò che è profondo ama la Maschera.
La Maschera è l’onda che cela, gioiosa, l’abisso,
appunto, il profondo.
Datemi, dunque una Maschera ancora
e una seconda e una terza,
e infinite Maschere ogn’ora.
E se ciò che dico è male,
che il naufragar sia dolce in questo mare…

da Orfani Veleni, Esercizio di de-mascherazione (1990)

Recidiva
Recidiva, Ph. di Cesare Accetta

 

Enzo Moscato: 20 aprile 1948 - 13 gennaio 2024

C’era una volta un bambino. Era nato nei Quartieri Spagnoli di Napoli. Abitava con la sua famiglia al “Palazzo Scampagnato”, così detto perché aveva una sorta di parte scoperchiata: lì si nascosero molti uomini quando i tedeschi che occupavano la città iniziarono a rastrellare le case. Crebbe nel gineceo narrante del vicolo, in una Napoli dignitosa, pre terremoto, affamata dalla guerra e dai bombardamenti, liberata dai partigiani delle Gloriose Quattro Giornate, svenduta agli americani, ancora piena di spiriti e fantasmi che l’abitavano dall’epoca alessandrina. La mattina andava scuola, a imparare una lingua nuova, diversa dal napoletano antico con cui era stato svezzato. Il pomeriggio a perdersi nel mondo delle viuzze strette sopra Toledo, sulle tracce di ex bordelli, santi e taumaturghe in processione. O sotto, giù, negli ipogei, dove la terra santa accoglie le anime pezzentelle: qui le signore anziane andavano a pregare i teschi di principesse e spose di epoche trapassate, e lui assisteva a queste profane liturgie.

Moscato con A. Ruccello
Enzo Moscato con Annibale Ruccello, Ph. di Cesare Accetta

 

Questo bambino era molto portato per la scrittura, e amava leggere. Scriveva temi favolosi, la sua fantasia astrusa e straordinaria bucava la pagina, tanto che il signor Ambrosino, così si chiamava il suo amato maestro di scuola elementare, chiamò la madre di Enzo, che era una sarta, dicendogli che Enzo avrebbe dovuto continuare gli studi, e suggerendogli di cambiargli scuola. Così fu mandato dalle “monache francesi”. Qui, nel teatro del grande convento seicentesco a Montecalvario, nel cuore dei Quartieres Espagnoles, sotto la sacra collina di San Martino, salì per la prima volta su un palcoscenico, a meno di dieci anni. Ricorda ancora le luci di quel piccolo teatrino che lo illuminano mentre recita la parte di Cristoforo Colombo che scopre l’America. Alle scuole medie, Enzo saltava sistematicamente le ore di matematica. Gli risultavano molto più affascinanti le spesse mura della Biblioteca Nazionale, dentro Palazzo Reale, in Piazza del Plebiscito: si fingeva più grande, studioso di lingue, così riusciva a intrufolarsi nella sezione Americana. Qui scoprì per la prima volta Hawthorne, Melville, Edgar Allan Poe. Imparò la lingua inglese da autodidatta. Leggendo, e guardando poi i film di Bette Davis. Dopo gli anni di liceo, liceo Classico Antonio Genovesi, in Piazza del Gesù, s’iscrisse alla facoltà di Storia e Filosofia. Derrida, Vico, Deleuze, Lacan. Lo Strutturalismo. La Storia. Dopo la laurea con una tesi sui rapporti tra i movimenti politici di liberazione sessuale e psicoanalisi, iniziò a insegnare nelle scuole superiori di Napoli. Accettava incarichi possibilmente brevi: nel frattempo, gli era capitato il Teatro.

Occhi gettati
Occhi gettati, Ph. di Cesare Accetta

 

Il suo primissimo testo, andato in scena nell’ex Convento Occupato di Roma, va sotto il nome di Carcioffolà. Il dattiloscritto è andato perso, ma alcuni critici – all’epoca giovani come lui – se ne ricordano. Uno di questi è Rodolfo di Giammarco.

Il primo testo ‘ufficiale’ di Enzo Moscato, Scannasurice, scaturì in qualche modo dal “bum bum”, il “tremola tutto” che sconvolse Napoli per sempre. Da quella frattura mai sanata emersero le voci e i corpi di Enzo, Annibale, Antonio Neiwiller, Tonino Taiuti che hanno lasciato un segno indelebile nella drammaturgia napoletana. Dopo quel “bum bum” le anime degli epicurei e dei cultori di Iside, e quelle dei rivoluzionari impiccati in Piazza Mercato si destarono dal sonno e risalirono in superficie, mescolandosi col frastuono delle strade del cemento laurino che aveva assediato le splendide colline verdi di Palepolis, le voci dei bambini che camminavano scalzi, tra bossoli esplosi, siringhe e profilattici usati, i canti delle sirene in limite di genere che battevano sugli scogli di Mergellina e nella Villa Comunale. Napoli, Parigi, Londra, Caracas. Napoli regale. Napoli Geisha. Napoli, bella è Babbele, bella e tuttannure. Napoli trafitta dai raggi di sole, su per le salite di muri di tufo, dove fanno capolino le anime che Anna Maria Ortese chiama di “ritornanti”. Napoli, antica e modernissima, Pulcinella col ventre gonfio e il naso lungo ci guarda con la sua maschera terrificante, e unisce il mondo dei vivi con quello dei morti. Pistole e mandolino. Melos e Tragos. Paradiso degli straccioni. Spazzini, travestiti, pescatori, mostri marini, “ragazze sole con qualche esperienza”.

Lingua, carne
Lingua, carne, soffio, Ph. di Cesare Accetta

 

Enzo Moscato ha scritto tutto questo. Ha scritto per tutta la sua vita, fino all’ultimo. Come i grandi autori che l’hanno preceduto, e che lui amava e amava leggere e rileggere, ha scritto nel silenzio e nella solitudine, ignorato dalla gran parte delle case editrici e istituzioni culturali, locali e nazionali.  Da storico e filosofo, nelle sue opere ha attraversato e toccato epoche e passaggi fondamentali – la Liberazione, la Rivoluzione Napoletana del 1799, il Dopoguerra, con lo sguardo sempre rivolto indietro, a costruire quella “archeologia del sapere” senza la quale non è possibile comprendere “dove e chi siamo oggi”. Consegnandoci un universo drammaturgico immenso, ancora in gran parte sommerso, fatto di storie con la s minuscola che, come diceva lui, riprendendo il suo amato Michel Foucault, “costituivano una micro frattura nella Storia”. Come un aedo, ha de-cantato questa città “universo-mondo”, un non luogo dell’anima, condizione esistenziale, come forse nessuno mai. In prosa, poesie, schegge, crastole, frammenti. Voci, cantilene, proverbi, canzoni. Ribaltando ogni schema, linea, convenzione, stereotipo e immagine da cartolina. Vincendo il premio Riccione per la drammaturgia nel 1985 con Pièce Noire, diventando un monumento vivente del teatro mai assoggettato alle leggi del mercato, ottenendo nel 2018 il riconoscimento del premio Ubu alla carriera. Praticando sempre lo s-confinamento, l’es-tradizione, laddove “trado” sta per condurre dall’altra parte, e quindi consegnare a noi, ma anche tradire poiché “la Tradizione, quella vera, misconosce la mera replicanza – l’obbedienza pedissequa e passiva, al e del proprio genoma – nei suoi eredi”.

Rasoi
Rasoi, Ph. di Cesare Accetta

 

Un puro atto di amore e di resistenza a quell’omologazione che Enzo rifuggiva come la morte, preferendo invece sempre essere in ascolto dell’altro da sé, accoglierlo, farsi contaminare. In e da tutte le lingue possibili. Latino, Greco antico, inglese, francese, una Lingua Napoletana quasi scomparsa, che è materica, corposa e al contempo lirica, soave. Il suo corpo in scena un geroglifico incarnato. Lingua, carne, soffio, come recitava il titolo di un suo spettacolo dedicato ad Antonin Artaud, realizzato nel festival di Santarcangelo diretto da Leo de Berardinis.

Bordelli
Bordelli di mare con città, Ph. di Daniele Capalbo

 

Poesia: nulla di più sovversivo, ancora più oggi, che quell’omologazione ha divorato ogni cosa. In scena non avevi mai le scarpe. Te ne vai in silenzio, in un silenzio che è tutto, come il buio misterico di Sala Assoli, dove tante volte hai celebrato il tuo rito e dove per sempre resterai, insieme ad Antonio e Annibale, e Leo. E questa mattina, mentre salgo su per Toledo, col freddo sugli occhi e nel cuore, per venire a trovarti per l’ultima volta, assieme ai tuoi compagni e compagne di una vita di teatro, mi torna a mente qualcosa che mi hai detto e ripetuto più volte nel corso delle nostre chiacchierate: “io sono sempre stato nell’orfananza”. Io ora capisco. Capisco, Maestro.

 

La foto di copertina è di Cesare Accetta

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Debutto di rasoi, Ph. di Cesare Accetta
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