Ginesio Fest, ricostruire con il teatro
“Questo premio, nato nel borgo del martire degli attori, individua protagonisti non divistici, quei teatranti che uniscono il pubblico alla vita”, così dice Remo Girone, presidente della giuria del premio del Ginesio Fest, all’inizio dell’intensa serata finale. Per raccontare gli ultimi tre giorni trascorsi a San Ginesio (23-25 agosto), decidiamo di partire dalla fine: da un premio di teatro anomalo perché non considera la quantità, i numeri, le produzioni nate a tavolino e “identifica un percorso, un’attitudine”; dalla platea mista di pubblico, artisti, critici, abitanti di riunita nel magnifico chiostro di Sant’Agostino, uno dei pochi agibili nell’antico borgo detto ‘delle cento chiese’, gran parte delle quali ancora chiuse dopo il sisma del 2016. Da una giuria composta da chi il teatro lo ha scelto per la vita e che, come dice Lucia Mascino alla premiazione, “non può stare senza l’arte”. Con lei in giuria anche Francesca Merloni, Giampiero Solari che sottolinea come “per insegnare sia fondamentale mettersi in ascolto”. A Rodolfo di Giammarco il compito di tracciare un bilancio di questi quattro anni di bellezza e scoperte al Ginesio Fest diretto da Leonardo Lidi, rinnovato per i prossimi quattro anni (con la buona nuova del sostegno ministeriale).

L’edizione di quest’anno è dedicata al “furore”. Mariangela Granelli, attrice sopraffina, prima insignita del premio “all’arte dell’attore” 2025, si produce in una potente lettura di un brano scelto per l’occasione dal romanzo di John Steinbeck. I mezzadri provano a contrattare con i rappresentanti delle banche la sopravvivenza delle proprie famiglie ma ne escono sconfitti e umiliati: loro, che in quella terra conquistata dagli avi ci sono nati, devono andarsene chissà dove, espropriati dalla propria storia, spogliati della propria identità. È evidente, fortissimo il richiamo “a ciò che sta accadendo nel mondo in queste ore”. L’altro premiato è il cuntista Davide Enia che sulla funzione profondamente politica del teatro ha costruito la sua identità artistica. Decide di raccontare una parabola “sullo stato delle cose e sul superamento dello stato delle cose”, la storia capovolta dell’agnello grasso e del figliuol prodigo: anche qui i riferimenti all’attualità sono più che manifesti, pungenti. Quando Cristian La Rosa, presentatore d’eccezione, prima di lasciare posto al concerto/ festa finale dei Perturbazione, ispirato a La buona novella di De André, gli chiede del valore di questo premio, Enia parla dell’attore come “un tramite, un umile strumento”, della sacrosanta “necessità di farsi cavi, creare quel vuoto, quel buio dentro di sé affinché la luce del teatro si manifesti”.

Buio e vuoto come condizione sine qua non perché il teatro succeda. Protagonisti non divistici che uniscono il pubblico alla vita. Arte come qualcosa di cui non si può fare a meno. Ginesio Fest come occasione per ritrovare o scoprire il teatro. C’è molto in questi tre giorni densi di volti, incontri, svelamenti. Se il teatro è quel luogo che accade nelle cavità, in quel buio fisico, metaforico, forse non poteva esserci luogo migliore di questo piccolo borgo nel parco dei monti sibillini che già nel nome del suo patrono porta una matrice legata all’arte della scena. Genesio, attore e musico vissuto sotto l’impero di Diocleziano, convertito al cristianesimo e per questo ucciso, è il protettore degli attori. A San Ginesio nacque nel 1547 il primo teatro stabile delle Marche, “un teatro di forma circolare nella pubblica piazze con gli strofinacci per proteggersi dal sole, tutti venivano qui”, racconta Isabella Parrucci, funzionaria pasionaria della regione Marche, nativa doc del borgo. È stata lei sei anni fa a ideare il Ginesio Fest, a ridosso del sisma che nel 2016 oltre Amatrice colpì questo e altri paesi: fortunatamente nessuna vittima, ma da allora decine di edifici, case, strutture, chiese sono rimasti inagibili; poi la pandemia. Da qui un progressivo svuotamento che ha gettato quella che Parrucci ricorda fin da bambina come “una cittadina affollatissima” in un “buio totale”. Da questo punto di vista il festival, che propone alcuni tra i migliori lavori e compagnie del panorama contemporaneo, ha una funzione doppia nel suo costruire visioni, nutrire pubblici, contribuire a ricostruire una comunità ferita, cancellata, evaporata, sradicata. Di questa (enorme) potenzialità che il teatro e i festival hanno si è parlato il penultimo giorno in una tavola rotonda con “Piemonte dal vivo”, co-partner di Ginesio Fest, in cui è emerso quanto l’attività e la programmazione culturale faccia la differenza in progetti (anche con fondi PNNR) dedicati ai borghi abbandonati a rischio di spopolamento e dissesto idro geologico. C’è enorme differenza tra i “borgonauti”, ovvero turisti in cerca di selfie e cibo local e la ‘comunità temporanea’ che si crea ogni anno a una rassegna di teatro che coinvolge il pubblico, alzando sempre più l’asticella della proposta, mai nella direzione del teatro televisivo dei nomi altisonanti.
È il direttore Leonardo Lidi, prendendo la parola nei momenti di confronto, a chiarire il perché di queste precise scelte. Oggi a 36 anni è un regista affermato, personalmente lo ricordo quasi dieci anni fa – siamo più o meno coetanei – in scena nel progetto latelliano di Santa Estasi con Ert, una fucina che ha gettato semi senza precedenti dal punto di vista artistico e pedagogico, i cui frutti si ritrovano nella scena contemporanea oggi; da quell’esperienza Lidi ha portato con sé Cristian La Rosa e Brunella Giolivo (direttrice di produzione di San Ginesio). Schietto, molta sostanza, poche parole, ci tiene a sottolineare alcune questioni: la prima riguarda la “costruzione”, ovvero l’importanza di ricostruire un luogo, una comunità, attraverso il teatro (l’anno prossimo dovrebbe riaprire lo storico teatro nella piazza di San Ginesio che ospiterà anche il festival, oggi dislocato in più luoghi); nei cinque giorni di Ginesio Fest 2025 in scena ci sono stati 45 interpreti under 35, artisti in varie parti del loro percorso; particolare attenzione è stata data alla formazione con laboratori per tutte le età: “bisogna lasciare gli artisti liberi di compiere i primi passi, spostarsi dai ‘volti’ noti a capire dove andiamo tutti insieme, come comunità”. Quest’edizione è stata segnata da un forte investimento sulle nuove generazioni: “Io ho bruciato le tappe, per l’Italia sono quasi un’anomalia, perché mi sono state date delle occasioni, l’unica cosa che posso fare è restituirle”.
A proposito di restituzioni, nei tre giorni finali di San Ginesio, si è respirata un’aria di teatro di qualità molto alta. Se i giorni precedenti avevano visto in scena, oltre al debutto del fassbinderiano Katzelmacher del padrone di casa Lidi, lavori degni di nota come Stuporosa di Francesco Marilungo, Altri Libertini di Licia Lanera, Pinocchio del Teatro del Carretto, il 24 abbiamo assistito all’esito del workshop di Alessio Maria Romano con un gruppo di 11 giovani performer che hanno lavorato a partire da Furore, per costruire una mappatura di sentimenti, desideri, umori confluiti in una partitura collettiva di corpi che suonano all’unisono. Il corpo, la mancanza o l’esercizio di attenzione è al centro di I’ve loss of attention, lavoro performativo/ visivo del Collettivo EFFE che indaga spazio, tempo, movimento in una ricerca attraverso lo sguardo. Tra i lavori proposti per un pubblico giovane colpisce Bubikopf. Tragedia comica per pupazzi, un gioiellino di artigianato teatrale di maschere ‘mostruose’, ventriloquismi e la storia commovente di un gruppo di freaks artisti del Berliner Kabarett che si rifugiano nell’arte per sfuggire alla violenza normalizzante dei ‘cani sciolti’ che imperversa nelle strade. Una vera rivelazione la Sdisorè di Evelina Rosselli che, con l’aiuto di maschere inquietanti e grottesche create da Caterina Rossi, mastica, fa sua e ci restituisce la bellezza ostica, dura, incantevole dell’Orestea brianzola di Giovanni Testori, in un pastiche linguistico e ossimorico che amalgama dialetto lombardo, latino, vette liriche e crudezze corporee con cui incarna “lo spirito del teatro”. Radici di Alba Maria Porto e Giulia Ottaviano fa riaffiorare memorie del Coordinamento Femminista di Enna (a partire da documenti reali), con le storie di tre donne che negli anni ’70 affrontano, ognuna a suo modo, l’oppressione del patriarcato.

Il lavoro che su tutti resta impresso è Wonder Woman scritto a quattro mani da Antonio Latella e Federico Bellini la cui potenza visiva, poietica, poetica e politica ne fa uno degli spettacoli più importanti degli ultimi anni. Questo lavoro/ manifesto – che a parere di chi scrive andrebbe programmato in tutti i teatri d’Italia e in tutte le stagioni per i prossimi vent’anni – è stato raccontato molto bene da Massimo Marino qui su Doppiozero. Tutto nasce dalla storia vera di uno stupro avvenuto ad Ancona nel 2015 ai danni di una ragazza peruviana e da una iniziale assoluzione del branco da parte di un collegio di giudici di sole donne che considerarono la vittima troppo mascolina e dunque poco desiderabile. In scena Maria Chiara Arrighini, Beatrice Verzotti, Chiara Ferrara, Giulia Heathfield Di Renzi, attrici amazzoni, giovanissime, dolci, ferine, incazzate e inermi davanti al sopruso, alla mortificazione umana, incarnano in ogni nervo, sguardo, tensione la solitudine disarmata delle donne abusate che poi devono trovare la forza di andare a denunciare. In un coro antichissimo, tragico che al contempo richiama l’unisono dei cortei femministi che attraversano le nostre città, mettono in scena la violenza nella violenza. Un male sistemico, arcaico, perpetuo, sordo, atavico, che trasforma la denuncia in confessione in uno stillicidio di domande inquisitorie, ripetizione della violenza subita. La donna è il corpo del reato, un poligrafo di carne, un campo di battaglia su cui il patriarcato e i suoi apparati statali e para statali prolificano, si accrescono, si impongono da secoli. Se “oggi il coraggio è indecente”, “con ago e filo si fanno le rivoluzioni”. Dopo una prima parte di parole che non lasciano scampo, e stringono la platea in un silenzio irreale, quel “silenzio in coro” che è proprio di quando accade il teatro, i corpi delle wonder women si liberano, fioriscono, esplodono in tutta la loro bellezza, fluidità, diversità, in una danza in splendidi costumi colorati, apotropaici, onirici (di Simona D’Amico). Oltre venti minuti di immersione sonora, tra cadenze morbide e poi flussi dritti di beat elettronici a cura di Franco Visioli, una catarsi, favolosa rivolta, in cui ognuno trova la sua espiazione, e gode, partecipando a questa insubordinazione totale che può e deve avvenire soprattutto a teatro. Tre giorni di Ginesio Fest che restano dentro.
Le prime quattro fotografie sono di Ester Rieti. L’ultima, un momento di Wonder Woman (regia di Antonio Latella), è di Andrea Macchia.
