Pellizza da Volpedo, umanità di luce
C’è un signore nella seconda sala della mostra su Pellizza da Volpedo in corso a Milano, arretra e avanza davanti ai dipinti e commenta alla vicina, un po’ scocciato, che i pannelli didattici ingannano, perché Pellizza non usava solo i colori complementari. Mentre prosegue nelle lamentele mi torna in mente una lettera in cui un giovane Umberto Boccioni racconta a Gino Severini di aver litigato con un artista: “E sai cosa disse? Che il divisionismo è uno stile (nota la parola e giudica l'uomo) che non gli piace perché bisogna andar lontano per guardarlo!!!... Che bestia!”.
Due episodi lontani nel tempo, liberamente associati. Però mi sembrano indicativi di un atteggiamento ricorrente, che spesso ha guardato al divisionismo come a un buffo congegno di cui cercare il funzionamento, o come a un gioco di prestigio. La litania imparata dai manuali di storia dell’arte sull’applicazione di certe teorie scientifiche non ha aiutato, come se stendere i colori complementari l’uno accanto all’altro, puri, in modo che i nostri occhi possano farne una sintesi più luminosa rispetto ai colori miscelati fosse una formula magica capace di spiegare tutto il fascino di questa pittura.
La mostra Pellizza da Volpedo. I capolavori (GAM, Milano, a cura di Aurora Scotti e Paola Zatti, fino al 25 gennaio 2026, catalogo Dario Cimorelli Editore) è un’occasione per capire quel fascino a partire dalle opere più importanti di uno dei più grandi divisionisti italiani.
Da molto tempo mancava un’esposizione monografica su Pellizza e questa, in tempi di mostre un po’ bugiarde, fa quello che promette, pur adottando la discutibile categoria di “capolavori”: li riunisce, ricompone una serie di opere imprescindibili per apprezzare Pellizza, organizzandole in un percorso cronologico.
Nel rispetto del suo titolo, la mostra non apre con i lavori degli esordi ma con quelli con cui l’artista, nato nel 1868 nel piccolo comune piemontese di Volpedo, completa la sua formazione a Firenze, sotto la guida di Giovanni Fattori, e poi all’Accademia Carrara di Bergamo, allievo di Cesare Tallone. Da entrambi i maestri coglie l’attitudine al vero, ma con accenti diversi. Lo si vede in Ricordo di un dolore (1889), un ritratto di grande formato a figura intera, secondo i modi appresi da Tallone. Da Fattori provengono invece gli accordi cromatici non facili, come lo stacco netto del libro bianco sulla gonna blu, a indirizzare subito il nostro sguardo sulle pagine che innescano il ricordo doloroso. Ed è un lascito fattoriano anche l’abilità di “inquadrare” la figura umana nella partitura dello schienale, evidenziandone il leggero scarto dall’asse per dare il senso di abbandono del corpo. Ma l’intensità con cui la giovane manifesta il suo sentimento è tutta attribuibile a Pellizza.
Proprio il discorso sulle emozioni è uno degli elementi che raccontano il passaggio alla pittura divisionista. Si potrebbe dire, semplificando, che nel nuovo lessico Pellizza trova un modo per passare dalla descrizione delle emozioni a un’espressione visuale capace di produrre stati emotivi nello spettatore. Sono gli anni in cui il neoimpressionismo, con a capo Georges Seurat, anima il dibattito francese per la sua relazione con le cosiddette estetiche scientifiche: dalle idee sul contrasto dei colori puri alle teorie di Charles Henry, per le quali l’arte è soprattutto una questione di ritmi che guidano la percezione su un piano fisiologico e psicologico. Scrive Pellizza, in una lettera inviata al critico d’arte Vittorio Pica: “a certe forme corrispondono certi sentimenti, per esempio, una linea retta, una spezzata, una curva, una sinusoide ecc. determinano nel nostro spirito moti e sentimenti diversi”. Per molti aspetti siamo ancora in un clima positivista, eppure tali teorie, assorbite dagli artisti in modi sempre personali, accompagnano figurazioni che aprono a dimensioni spirituali e simboliste. Cresciuto sulle stesse fonti neoimpressioniste (ma senza derivare il lessico dai pittori francesi), il divisionismo offre a Pellizza la possibilità di “progettare” la pittura, di partire dall’osservazione del reale per restituircene la struttura armonica profonda e la sostanza fibrillare che la anima.
Parte da queste premesse un lavoro conservato in una collezione privata ed esposto piuttosto di rado, Speranze deluse (1894). Se si vuole, è ancora una fase di passaggio tra l’espressione verista delle emozioni e la loro architettura cromatica e lineare: qui la giovane pastora al centro della composizione è triste per una promessa nuziale non mantenuta, come si intuisce dal corteo in secondo piano. Al suo volto sconsolato appoggiato al rastrello fa eco la vastità del prato, luminosissimo grazie ai colori divisi; la tessitura brillante riempie l’ampia porzione di terreno fino a circondare la figura principale, lasciandola in pieno controluce, isolata dal resto del mondo.
La simbologia del contrasto tra ombra e luce, organizzata da una scansione di spazi ancora più regolare, compare anche in Sul fienile (1893-1894), un’opera che intreccia il genere della veduta paesistica al dramma sociale. La scena ha un respiro sacrale. C’è un contadino agli ultimi istanti di vita e intorno a lui i familiari, il prete, i chierichetti; ma l’intensità emotiva della vicenda non traspare più soltanto dai gesti dei personaggi, è anche il frutto dell’alternanza armonica tra i luoghi esterni e il buio degli spazi dedicati alla morte. La pittura è stesa a macchie e puntini diversi a seconda che trasmetta la morbidezza del fieno o il pulviscolo solare, contro il quale i personaggi sono ritagliati come malinconiche silhouette.
Da questo momento la luce ha un ruolo via via più centrale nella produzione di Pellizza. In Processione (1893-1895) il punto di partenza è sempre la natura, con la scenografia del viale di pioppi a ospitare il rito religioso. Ma a Pellizza la realtà esteriore non basta più: le tre file ordinate della cerimonia avanzano in leggero squilibrio rispetto al centro del dipinto, come ondeggiando, e occupano una fascia ridotta della composizione, così che il gioco della luce e dell’ombra sul viale sembra acquisire una vita propria. Le figure sono le emittenti stesse di una luce che si versa liquida in tutta la metà inferiore del dipinto e si prolunga a destra in modo irregolare, verso la roggia, per poi incunearsi sulla sinistra, ad assecondare il senso oscillante delle persone in processione. L’area in primo piano è tutt’altro che vuota e inerte: animata dalla vibrazione divisionista, diventa la nostra guida percettiva, la sensazione immateriale e incantata di quel rito. Un pendant ideale di questo lavoro è Il morticino (1906), che sembra esserne addirittura la visione ravvicinata e dal retro.
Il cammino verso un’arte di idea, ancor più “astratta” (come in quegli anni si inizia a definire un certo simbolismo puntinista o divisionista) ma nel senso letterale di estrema sintesi compositiva, tocca il suo vertice con opere come Lo specchio della vita (1895-1898) e Il sole (1904). Ispirato a un’immagine di Dante, Lo specchio della vita interpreta visivamente un verso del Purgatorio, “e ciò che fa la prima, e l’altre fanno”, che paragona un gruppo di anime del Purgatorio a un gregge di pecore. Sul greto di un torrente scorre la fila di pecore: il gregge è una striscia orizzontale interrotta a destra e a sinistra solo dal “taglio” dell’inquadratura e il ritmo del suo passaggio è potenzialmente infinito, sottolineato dalle pozze d’acqua disposte a raggiera, al modo di un orologio, e dalla corona di alberi sullo sfondo che decresce verso il centro del dipinto per poi risalire. Il cammino delle pecore, metafora evidente di quello dell’umanità, ha qualcosa di ineluttabile e collettivo al tempo stesso, ma ogni singolo animale è anche un batuffolo di pura energia, sagomato nei suoi controluce grazie alla teoria dell’irradiazione di Ogden Rood, per cui una superficie luminosa a contatto con una meno luminosa accresce sui bordi la sua lucentezza.
L’approdo di questa visione della luce come fondamento dell’esistenza è di certo Il sole. Anche in questo caso Pellizza parte da un dato oggettivo ed è così scrupoloso che le cronache paesane raccontano di quando si faccia ospitare nelle località vicine per studiare il miglior punto di affaccio dell’alba dai colli. Eppure, mai come in questa occasione il divisionismo pellizziano è un modo per restituire la materia stessa della luce nei suoi molteplici sensi. La critica del tempo, per lo più, non lo capisce e parla di virtuosismo ottico; ma l’istante in cui i raggi solari invadono la vallata e la rendono, per contrasto, imprecisata e scurissima è insostenibile per qualsiasi sguardo, è la natura trasfigurata nel suo mistero. Come ha scritto in più occasioni Aurora Scotti, una delle curatrici della mostra e massima esperta dell’artista, Pellizza con Il sole giunge a un passo da un’“astrazione cromoluminosa” che il Futurismo di lì a poco erediterà.
La mostra prosegue con le opere degli ultimi anni, prima che Pellizza nel 1907 si suicidi, in seguito alla morte improvvisa della moglie. Il culmine ideale del percorso di visita, però, si coglie salendo di un piano per visitare l’opera più iconica e imponente della produzione pellizziana, quel Quarto stato (1898-1901) rientrato nelle collezioni della GAM nel 2022 dopo il prestito pluriennale al Museo del Novecento. Il dipinto, come si sa, è frutto di una gestazione durata un decennio e di molti stadi intermedi, in parte testimoniati in una sala adiacente a quella in cui è conservato. Socialista, figlio di uno dei fondatori della Società Operaia di Volpedo, Pellizza riflette a lungo sulla questione sociale e sulle lotte operaie e contadine. Diversamente dall’aspetto quasi astratto che assumerà nel Sole, il “sol dell’avvenire” del Quarto stato è un ideale rivoluzionario saldato alla concretezza del fattore umano. A tale scopo, l’artista fa posare i suoi compaesani contadini o artigiani ambientandoli nella piazza principale di Volpedo, che oggi prende il nome dal dipinto. La caratterizzazione del luogo e dei personaggi è puntuale, eppure Pellizza riesce a elevare un episodio di protesta a simbolo universale di rivolta. La figura umana non ha più bisogno di trovare risonanze nella natura come negli altri lavori divisionisti, ma si fa lei stessa flusso naturale (Fiumana è il titolo della versione precedente del dipinto), senza mai smarrire la solidità dei suoi volumi. I protagonisti della scena sono comuni e sublimi al tempo stesso, orchestrati da una misura compositiva che rimanda ai grandi dipinti del Rinascimento italiano.
La straordinaria fortuna dell’opera lungo il Ventesimo secolo sembra dunque merito delle abilità registiche di Pellizza e non è un caso che il dipinto ispiri alcune scene del Novecento di Bertolucci: come ricorda Marisa Vescovo in un saggio del 1980, la “carrellata” frontale quasi cinematografica sui tre personaggi centrali evidenzia la leggera dissolvenza della folla più arretrata, provocando un senso di avvicinamento del trio in primo piano. La scala monumentale dell’opera (circa tre metri per cinque) favorisce l’incontro tra i contadini in marcia e gli osservatori, che sono chiamati ad avvicinarsi.
Rieccolo, dunque, il movimento di andare e venire di fronte alle tele divisioniste. La prevalenza di brevi tratti verdi e rossi provoca un tono paglierino diffuso che si incolla ai corpi, anzi, si potrebbe dire che ne è l’essenza stessa. Bisogna avvicinarsi al Quarto stato e poi allontanarsene e rifarlo molte volte per vedere un corpo sociale, letteralmente, “venire alla luce” e per capire che esso addirittura sia fatto di quella luce, mentre avanza fiducioso verso di essa. E visto che la sua destinazione è anche il luogo dello spettatore, allora della stessa luce, sembra dirci l’artista, siamo fatti anche noi.
In copertina, Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il Quarto stato, 1898-1901 circa, olio su tela, 283 x 550 cm, © Comune di Milano - tutti i diritti riservati. Milano, Galleria d’Arte Moderna (foto: Luca Carrà).