La visione orizzontale di Enrico Crispolti

29 Dicembre 2025

“Imparo molto sul campo, e credo proprio di dare al tempo stesso sul campo il meglio di me”. A parlare non è un atleta, non si tratta di un “campo” da allenamento, né tanto meno di un ambito di lavoro prevalentemente manuale. L’autore del pensiero è Enrico Crispolti (1933-2018), uno degli storici e critici d’arte contemporanea più importanti del secondo Novecento in Italia.

Nel corso di quest’anno due iniziative l’hanno ricordato, entrambe guidate da Luca Pietro Nicoletti, che di Crispolti è stato un allievo indiretto e un collaboratore. La prima è l’uscita della bibliografia dei suoi scritti (L.P. Nicoletti, Enrico Crispolti. Bibliografia ragionata 1951-2018, Silvana Editoriale, 592 pp., € 34), la seconda, curata da Nicoletti in collaborazione con l’Archivio Enrico Crispolti – APS, è la mostra Enrico Crispolti. La critica in atto, in corso al Museo del Novecento di Milano (fino all’11 gennaio 2025, catalogo Silvana Editoriale, € 18). E i due eventi si leggono come fronti di un progetto unico: da un lato l’elenco completo di tutti i volumi, i saggi, gli articoli usciti nell’arco di un’intera carriera, una specie di “Tutto Crispolti” che ordina e commenta un numero vertiginoso di scritti a partire dallo spoglio del suo archivio; dall’altro, opposta ma complementare a questa mole, c’è un un’ideale scrivania in cui rimettere in scena il lavoro di Crispolti, il senso del suo “imparare sul campo”, diviso tra il dialogo con artisti, colleghi, editori, le lettere che ne scaturirono, le fotografie, i progetti di mostra che gli servivano per capire l’arte del presente e del recente passato.

C’è più di un motivo per avvicinarsi alla figura di Crispolti, anche per chi non fosse del settore. Per esempio, il senso di fiducia che emana dal suo lavoro, una fiducia riposta prima di tutto nell’arte contemporanea e nella possibilità di comprenderla storicamente. Allievo di Lionello Venturi a Roma, Crispolti appartenne a una generazione (insieme a personaggi come Renato Barilli, Maurizio Calvesi, Luciano Caramel e alla prima moglie Maria Laura Drudi Gambillo) che per prima iniziò un lavoro storico sul contemporaneo. Chi li precedette era convinto che l’arte del proprio tempo avesse una sua dignità, ma pensava ci volesse una maggiore distanza temporale per occuparsene con lo stesso impegno richiesto dall’arte del passato.   

Crispolti fu sempre convinto del contrario, sin dai primi studi degli anni Cinquanta, testimoniati nel corpo centrale della mostra. Per lui il contemporaneo aveva un’estensione che va dall’ultimo scorcio dell’Ottocento fino alle vicende più prossime, secondo una concezione condivisa anche da altri e che tuttora è la più adottata nelle aule universitarie. Certo, oggi suona strano che vicende artistiche ormai più vecchie di un secolo ci siano contemporanee, ossia appartengano, alla lettera, allo stesso tempo che viviamo. Crispolti era cosciente che non fosse facile trovare un’etichetta diversa per i fatti di allora rispetto a quelli del presente, eppure pensava che i due momenti fossero affini, distinguendosi solo per un maggiore o minore “spessore” temporale.

In altre parole: un’opera di Boccioni e un readymade di Duchamp ci parlano da vicino perché toccano questioni che ci riguardano ancora, come il senso di simultaneità di spazi e tempi (che nel mondo super connesso di oggi sentiamo più che mai) o la costante messa in discussione dello statuto dell’arte. Di conseguenza, la divisione troppo netta tra la critica d’arte, indirizzata al contemporaneo ultimissimo, e la vera e propria storiografia dell’arte doveva saltare. Gli interessi verso artisti come Alberto Burri, Lucio Fontana, Emilio Vedova, come si vede nella Bibliografia ragionata e nella mostra, furono per Crispolti il punto di partenza di ricerche approfondite, un esercizio di conoscenza ramificata che non si esauriva mai nell’interpretazione estemporanea dell’arte del suo tempo, ma ne rintracciava le radici e raccoglieva tutte le fonti necessarie per prepararne i successivi studi.

Di fronte all’arte contemporanea, insomma, il critico deve essere anche storico e viceversa. Già Roberto Longhi molti anni prima e poi il suo discepolo Francesco Arcangeli lanciavano lo stesso avvertimento, ma con Crispolti l’indicazione divenne pratica sistematica. Per questo la sua fiducia nell’arte contemporanea fu anche fiducia negli artisti. Nelle sue lezioni universitarie (fu docente all’Accademia di Belle Arti di Roma e nelle Università di Salerno e Siena) diceva spesso che “l’artista ha sempre ragione”, ma non per una sudditanza nei suoi confronti, piuttosto perché l’artista esprime sempre le ragioni tipiche del suo fare. Allo studioso va il compito di capire come quelle ragioni si realizzino all’interno di un lessico particolare, cioè di una modalità che gli è propria e che, al tempo stesso, condivide un’aria di famiglia con altre simili.

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Nella febbrile attività crispoltiana, fatta di saggi di ampio respiro, di articoli più fulminei, di mostre da organizzare e di insegnamento universitario, la fiducia negli artisti si traduceva in un dialogo. Diceva di non aver imparato dai libri più di quanto avesse imparato dagli artisti e dalla loro frequentazione ed era sempre pronto a provocare le loro riflessioni, così da raccoglierle in un numero impressionante di lettere e registrazioni audio. Il risultato di questa fiducia era una “visione orizzontale” dell’arte in tutte le sue componenti. I primi a essere toccati da quella visione erano proprio gli artisti viventi, come dimostrano i moltissimi titoli a loro dedicati e raccolti nella Bibliografia. L’intento era di realizzare una specie di cartografia in costante evoluzione: un panorama delle ricerche artistiche in corso, diceva, non può che essere vasto e molteplice, perché tale è la realtà delle cose.

Ma lo sguardo di Crispolti era orizzontale anche rispetto ai luoghi. Il suo atteggiamento “empirico” verso le iniziative culturali lo portava a operare in territori marginali e provinciali, cercando di porsi come stimolatore di processi e non come importatore di idee precostituite. Scriveva della necessità di “spianare” la piramide della gestione culturale, per un decentramento che non fosse semplice “trasferimento dal centro alla ‘periferia’”, quanto piuttosto “attivazione di base della ‘periferia’”. All’inizio degli anni Settanta la richiesta di partecipazione dal basso in ambito politico e sociale si fece sempre più pressante e, per Crispolti, essa si riversava anche nell’arte, la cui vitalità nelle province (ma anche nella vita di quartiere delle grandi città) era insidiata dall’atteggiamento “colonialista” delle istituzioni. Quante volte assistiamo oggi alla nascita di progetti (di arte cosiddetta pubblica o persino di musei) intestati alla “riqualificazione” ma senza alcun reale rapporto col territorio se non, in molti casi, di natura estrattiva per le sue risorse? Nelle sezioni laterali della mostra in corso a Milano si trovano materiali su alcuni importanti esperimenti condotti da Crispolti nel segno delle Arti visive e partecipazione sociale, come recita il titolo del volume che raccolse queste esperienze. C’è una sezione dedicata alla grande mostra Volterra 73, una manifestazione di sculture ambientali pensate per la città toscana che coinvolse artisti come Nicola Carrino e Mauro Staccioli e che vide uno scambio costante tra gli artisti, gli studenti e gli artigiani in grado anche di confrontarsi con i problemi locali, come la crisi della lavorazione dell’alabastro o la questione dell’ospedale psichiatrico. L’esperienza di Volterra proseguì e si approfondì anche nei padiglioni curati per le Biennali veneziane del 1976 e del 1978, nelle cui tracce presenti al Museo del Novecento si legge la voglia di farsi “compagno di strada” di un’arte intesa come motore di un cambiamento sociale.

In Crispolti l’orizzontalità della visione si manifestò anche nei progetti di respiro più storico, come nella mostra Ricostruzione futurista dell’universo, allestita alla Mole Antonelliana di Torino nel 1980. L’esposizione era accompagnata da un catalogo enciclopedico e consacrava un interesse che Crispolti coltivava sin da giovanissimo, quello per il cosiddetto Secondo Futurismo, da lui stesso battezzato così per indicare gli sviluppi del Futurismo dopo la Prima guerra mondiale. La mostra torinese era orizzontale almeno in due sensi, uno più manifesto e l’altro meno: con il suo intelligente allestimento radiale rendeva percepibile l’anima più originale del Secondo Futurismo, la sua capacità di espandersi a qualsiasi ambito di intervento umano, dalle arti applicate alla moda, dalla grafica pubblicitaria all’ambientazione di interni; ma orizzontale era anche il senso delle ripercussioni del Futurismo nell’arte più recente, in quel suo presagire le avventure dell’Informale nelle materie brute ma pure in quell’anticipare l’immaginario sintetico e industriale della Pop Art.

Ecco che lo sguardo di Crispolti sull’attualità della storia rende attualissimo anche il suo lavoro. Perché, in fondo, la sua fiducia si estese fino al concetto stesso di storia, a patto che lo si intenda nelle sue molte dimensioni e direzioni, in dialogo con le vicende presenti. Come raccontava ai suoi allievi della Scuola di Specializzazione in Storia dell’Arte di Siena (nelle lezioni di metodologia poi riordinate dalla seconda moglie Manuela Crescentini e confluite nel prezioso Come studiare l’arte contemporanea), lo studio della contemporaneità può permetterci di osservare con nuovi occhi anche l’antico. E ricordava le analisi del colorismo espressionista e il loro contributo a un approccio nuovo, finalmente anticlassico e antinaturalistico, all’arte bizantina. Ma è già la contemporaneità nei suoi diversi “spessori” a essere un “campo” privilegiato per l’esercizio storiografico, perché, diceva, l’indagine più storica sul contemporaneo si arricchisce, volta per volta, delle letture critiche del presente. La storia, insomma, si fa già osservando l’oggi ed è un principio di cui ricordarsi anche per molte altre vicende umane.

Leggere Crispolti non è un’impresa facile, il suo linguaggio è spesso impervio e lo è di proposito, fa inciampare il pensiero come i fatti artistici che commenta. Eppure in lui c’era un entusiasmo che molti degli allievi della Specializzazione ricordano bene, descrivendolo come un trascinatore appassionato. Uno dei meriti delle iniziative in corso è di farne ascoltare anche la voce, cosa che in mostra può avvenire in una saletta dedicata agli audio di colloqui e interventi, in parte riportati anche nella Bibliografia e consultabili tramite pratici QR code.

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