Gelsi bianchi e gelsi neri

26 Luglio 2015

Margini del Parco Nord, periferia milanese. Stupefatta, assisto a un gesto che non vedevo da tempo: un signore esce dall’automobile, si avvicina a un albero, afferra la frasca più bassa per raccoglierne i frutti. Niente di strano se fosse un susino o un fico. Ma l’albero è un gelso, e i frutti – o meglio i falsi frutti o sorosi – piccole more scure (Morus nigra) o chiare (Morus alba).

 

 

La scena mi riporta indietro, sulla carretta del nonno verso il campo in collina: lui a far la foglia ai gelsi bianchi, preferiti dai suoi bachi da seta, io a far scorpacciate di more nere, le più grandi e dolci. Gesti, abitudini, mestieri scomparsi; di quando la terra lombarda era percorsa da filari capitozzati, potati a misura di raccolta. I gelsi, li piantavano ovunque: anche maritati alla vigna, lungo i fossi e i confini dei poderi. C’erano i bachi voraci e la vita grama delle filande da alimentare. Ogni cascina un gelso nell’aia e le logge con i graticci per i “caalér” (così si chiamavano i bachi da seta nel mio dialetto).

 

 

Il gelso bianco fu importato in Europa dall’estremo oriente nel XII secolo, il nero più tardi dalla Persia. Già noto ai romani antichi per le loro proprietà curative – Plinio ne consiglia l’uso per decotti contro il mal di gola e di stomaco – il gelso è protagonista della nota Metamorfosi di Ovidio (IV, 55-166). Una delle figlie di Minia narra l’amore di Piramo e Tisbe finito, al primo appuntamento clandestino, per un tragico equivoco sotto le fronde ombrose di un morus alba: «[…] arbor ibi niveis uberrima pomis,/ ardua morus, erat, gelido contermina fontis» (là c’era un albero ricco di frutti candidi, un gelso altissimo accanto a una fonte fresca). Piramo, rinvenuto sotto il gelso il velo insanguinato di Tisbe, la crede vittima di un agguato e si dà la morte:

Nec mora, ferventi moriens e vulnere traxit                

et iacuit resupinus humo: cruor emicat alte,                 

non aliter, quam cum vitiato fistula plumbo

scinditur et tenui stridente foramine longas

eiaculatur aquas atque ictibus aera rumpit.

Arborei fetus adspergine caedis in atram

vertuntur faciem, madefactaque sanguine radix

purpureo tingit pendentia mora colore.

 

Piantò nel ventre il pugnale che aveva al fianco

e senza indugio lo estrasse, morendo, dalla ferita ardente,

come quando si guasta il piombo e si spezza un tubo,

e da un foro sottile si prorompe sibilando un lungo getto

d’acqua e colpisce l’aria violentemente. I frutti dell’albero,

cosparsi del sangue, diventano neri,

e la radice inzuppata di sangue tinge

dello stesso colore le more pendenti sui rami.

 

 

Ma, scampata alla ferocia di una leonessa, Tisbe sopraggiunge ai piedi del gelso dove trova Piramo agonizzante. Intuito l’equivoco, prima di uccidersi anch’essa, innalza agli dei questa preghiera:

At tu, quae ramis arbor miserabile corpus

nunc tegis unius, mox es tectura duorum,

signa tene caedis pullosque et luctibus aptos

semper habe fetus, gemini monimenta cruoris.

 

Tu, albero che adesso copri con i tuoi rami

il povero corpo di uno, e presto di entrambi,

mantieni un segno di questa strage, ed abbi sempre

frutti scuri e adatti al lutto, ricordo del doppio sangue.

 

 

Commossi, gli dei accolgono la prece. Da allora, possiamo chiosare, le more sanguigne sono più saporite delle pallide, solo con quelle vale la pena di cimentarsi in geli e sorbetti, confetture e bevande. Le foglie le lasciamo ai bruchi o ai seguaci della medicina fai da te per decotti o infusi astringenti, analgesici, emollienti e purganti.

 

Alberi della famiglia delle Moraceae, come i nomi dialettali dell’area padano-veneta suggeriscono conservando la radice latina (mur, moron, morèr), i gelsi sono longevi e rustici. Hanno chioma espansa, globosa, decidua; i neri si differenziano dai bianchi oltre che per il colore e la dimensione dei frutti, anche per le brillanti lamine fogliari: glabre, ovate o trilobate nella varietà alba; pubescenti, più grandi e con la linea a cuore più pronunciata nella nigra.

 

 

Ora, i pochi rimasti che s’incontrano nella desolata solitudine di un campo o disambientati al centro di una trafficata rotatoria, sono «resti di storie-eventi» (così Zanzotto in Meteo), «residuali» e «fedeli» testimoni di un mondo contadino dissolto, di un paesaggio agrario scomparso insieme a percezioni e sapori: il gusto povero delle more, il solletico dei bachi da seta sul palmo della mano.

 

 

Nei parchi cittadini si è tornati a usarli come alberi ornamentali. Nello slargo marmoreo tra via Manzoni e via dei Giardini, la Milano modaiola ne sfoggia otto ai lati del tristo monumento di Aldo Rossi, dedicato a Sandro Pertini. In fila per due, questi gelsi bianchi non evocano più la fatica che trasudava da una pezza di seta comasca e il proverbio «a Milan anca i moron fann l’uga» suona a vuoto. Smaglianti nel loro lucido fogliame, offrono un’ombra accogliente e qualche rada mora biancastra. Ma chi ne tocca le fronde può ancora sentire «il fruscìo che fan/ le foglie del gelso ne la man di chi le coglie» (D’Annunzio, La sera fiesolana).

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