Cenerentola. L’arte, la scienza, la conoscenza

1 Agosto 2025

Si svolge in pochi metri quadrati, la prima azione scenica di Cenerentola: in quello straccio di terra tra il cancello del cortile e gli alberi di ulivo che costeggiano le mura interne del carcere di Volterra, e scandiscono ritmicamente l’alternarsi delle porte in ferro e delle poche finestre. È una piccola folla di corpi e di sguardi a gremire lo spazio; siamo tanti, in piedi o inginocchiati, a tenere gli occhi fissi su Armando Punzo. Alle sue spalle, a chiudere la vista, un cerchio dipinto di bianco; un secondo identico cerchio è posizionato a terra. Bianche sono le strisce di tela che ricoprono i tronchi degli alberi, o le basse strutture murarie che costellano l’area: solo Punzo si staglia, nella consueta divisa nera, al di sopra di un paesaggio di candore. Lo osserviamo mentre intinge le mani in una ciotola colma di cenere e ne lancia un pugno sul fondale, tracciando arabeschi mobili sulla superficie, oppure mentre si avvicina a noi, e ne dona un pizzico a chi gli porge l’incavo delle mani. Il resto lo fa il vento, che solleva la cenere in nuvole grigie e dipinge per brevi istanti uno scampolo di cielo. Pulvis es, et in pulverem reverteris: eppure il sorriso aperto e bambinesco di Punzo sembra raccontare una storia differente, nella quale la morte, la nostra finitudine, le apocalissi individuali e globali non sono l’unico destino che possa accomunarci. “La realtà non è una, sono infinite possibilità” è non a caso la frase con cui ci accoglie, quasi un teorema in grado di scardinare certezze ontologiche ed esistenziali. Così inizia la terza e conclusiva tappa di una ricerca che la Compagnia della Fortezza ha intrapreso nel 2023, con il primo capitolo di Atlantis, e che oggi sembra rilanciare gli slanci teorici e teoretici delle prime due parti dell’itinerario spettacolare, al punto da aprirsi con una dichiarazione d’intenti filosofica ed estetica, quasi eversiva nel voler negare l’esperienza quotidiana.

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Forse ci aveva ingannato, quel titolo fiabesco, forse ci saremmo aspettati un affondo in una tradizione antropologica e culturale che da Basile a De Simone, da Perrault ai fratelli Grimm — e ovviamente, a Walt Disney — attraversa gli immaginari collettivi con una serie di riconoscibili tópoi: le sorellastre crudeli, l’incantesimo, lo scoccare della mezzanotte. Ma la Compagnia della Fortezza ci ha abituati da sempre a frequenti scarti dall’ordinarietà del procedere drammaturgico, a improvvise fughe, a sovrascritture e rizomi che accumulano significati imprevisti a figure conosciute, accostano luoghi e icone svelandone parentele e assonanze, familiarità e sconfinamenti. Cenerentola, la giovane sporca di una cenere che è concreto segno di una differenza di classe e al contempo traccia metafisica, memento mori, è oggi soprattutto l’immagine di chi non resta al proprio posto, di chi è capace di azioni e pensieri eretici e ribelli: di chi, della realtà, riesce a cogliere le eccedenze, le alterità, quelle “infinite possibilità”. Non una, ma due scarpette — una bianca, una nera, a sancire una bicromia che attraversa l’intera creazione — sono adesso mostrate agli spettatori: due perché il mondo, se osservato con gli occhi di questa Cenerentola, si divide e si moltiplica; due perché alla normalità della consuetudine e delle legge — che qui più che altrove sembra scandire la melodia del tempo e la geografia dei cammini, istituendo una sola, perentoria, normalità — Cenerentola contrappone un frattale di alternative, una pluridimensionalità che disvela la fallacia del nostro credere a senso unico e univoco. Di rivelazioni e svelamenti, d’altro canto, si compone la drammaturgia spaziale e scenica della creazione: un percorso di aperture progressive allo sguardo, un avvicinarsi al fulcro pulsante del carcere — l’ampio spazio rettangolare del cortile, da sempre immaginifico palco per le creazioni della Compagnia della Fortezza — così come al nucleo stesso delle cose.

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Punzo dipinge — ora con vernice nera, ora con vernice bianca — le tele che vengono squadernate ai suoi piedi, quasi tracciando, con quel gesto che abbiamo imparato a conoscere durante Atlantis, percorsi planetari e ammassi di stelle, ipostasi dell’infinitamente grande, oppure ripercorre la silhouette degli alberi protetti dalle strisce di tessuto, a evidenziarne, in una radiografia di pigmenti, l’ossatura. È un afflato scientifico ad animarlo: un metodo microscopico e astronomico, una volontà di indagare l’essenza del mondo, portata avanti tuttavia attraverso un gesto artistico, grazie a una processualità di mani e pennelli, di tinte e tessuti dipinti. Ed è forse qui, in questo smarginarsi della scienza e dell’arte in un indistinto che ha al proprio centro l’umano, che si situa l’incendiaria sorgente di questa Cenerentola.

A lei, l’intraprendente eroina della fiaba, in crinolina e cilindro nero (Viola Ferro, presenza eterea, un’equilibrista tra vertiginosi filosofemi e scoppi di risa con cui costellare il dettato e i silenzi) spetta il compito di guidarci verso la seconda stazione del nostro pellegrinaggio: tra apparizioni di figure enigmatiche — i sensazionali costumi portano la firma di Emanuela Dall’Aglio — ci fermiamo adesso di fronte a una lunga parete di pannelli neri, oltre i quali immaginiamo il poligono del campo incorniciato dalle due ali del carcere. Ma la nostra vista è ancora accecata, sembra ricordarci Cenerentola: uno sforzo ulteriore, dell’animo più che della mente, è la conditio sine qua non per continuare il viaggio. Adesso è il bianco a ricoprire le mani di Punzo, mani con cui disegnare, come in una grotta primordiale, vie lattee sulla superficie oscura: strade altre, percorsi di luce eterodossa sopra il nero. È un’ermeneutica del bianco e del buio ad attraversare la drammaturgia, una filosofia dei colori assoluti che qui, nell’istituzione totale per eccellenza, risuona di significati ben più che estetici. Mentre i pannelli si aprono sulla vastità del cortile, Paul Cocian — storico attore e collaboratore della compagnia, in scena negli stessi giorni con il primo studio di Fame, monologo che per lui Punzo ha scritto e diretto a partire dall’omonimo romanzo di Knut Hamsun — ci avverte così che “avanzare in territori sconosciuti è per me come entrare nella mia vita”. Ed è l’universo a spalancarsi agli occhi di questa comunità di spettatori: l’allestimento scenico, a cura di Alessandro Marzetti e dello stesso Punzo, sembra poterci mostrare per la prima volta uno spazio in realtà notissimo, dilatandolo in una fuga prospettica di quinte nere, porte e archi, estendendolo in una longitudine di geometrie metafisiche.

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Adesso la stupefacente macchina scenica e umana della Compagnia della Fortezza si rivela in tutta la sua magnificenza, mantenendo tuttavia quella sua cifra artigianale che ne rende ancor più sorprendente l’esito: lo spazio si popola di personaggi di sogno, il paesaggio musicale (firmato da Andreino Salvadori) ci immerge in una fonosfera cadenzata, magnetica nella sua ripetizione di pattern; i magnifici attori della Compagnia percorrono lungo linee ortogonali uno spazio che è tanto fisico quanto astratto e concettuale. È un concerto di segni, che Paul Cocian dirige dandoci le spalle e agitando una bacchetta con trascinante entusiasmo: là una figura femminile (Francesca Tisano) danza serpentina come Loïe Fuller, con ali di tessuto a prolungare le braccia; qui gruppi di uomini fanno bella mostra di lettere dell’alfabeto greco, di numeri e simboli e matematici, mentre un surreale astronomo — come in The Man Who Measures the Clouds di Jan Fabre — osserva il cielo con una smisurata asta metrica. Ecco il sovrapporsi di rigore e fantasia, ecco il naturale confondersi di creatività e matematica esattezza: i testi, recitati da Armando Punzo e dai tanti, generosi attori della Compagnia, ripercorrono così stralci dalle biografe di Nikola Tesla, di Albert Einstein, cogliendo delle loro esistenze non il momento della scoperta e dell’invenzione, bensì quell’inclinazione del carattere, quella peculiare dissonanza che li ha resi fuori posto e fuori tempo, dislocati dal contesto, cenerentole in grado di mutare sé stessi e rivelare nuove possibilità del reale. Hanno “tradito il mondo in cui vivevano”, ci ricorda Punzo: come stregoni, hanno distrutto e costruito “senza offesa, senza ferire”, gettando ponti “verso l’attimo felice, incandescente, e un futuro inconcepibilmente possibile”. Ma non è solo alla fisica quantistica che Cenerentola rende omaggio: un toro di Picasso, o le silhouette di De Chirico, emergono dal fondale nero come totem bidimensionali, a ricordarci una volta ancora che la differenza tra arte e scienza — citando il Nelson Goodman di Languages of Art — “non è quella fra sentimento e fatto, intuizione e inferenza, diletto e deliberazione, concretezza e astrazione, passione e azione, mediatizza e immediatezza o verità e bellezza”.

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Ciò che sembra agire, in questa Cenerentola e in tutta la ricerca che Punzo ha condotto nell’ultimo triennio, è perciò il tentativo, radicato nella cultura del Novecento, di scardinare le dicotomie e i binarismi del pensiero, di opporsi all’estraneità tra arte e scienza, terremotando — come accade anche sul palcoscenico di Volterra, in uno dei momenti più suggestivi — la scacchiera della rigidità di pensiero, mutandone la fissità quadrangolare in un’onda di marea sulla quale tentare nuovi approcci, sperimentare nuovi contatti. L’experimentum mundi — così si intitolava l’ultima opera di Ernst Bloch, indicato da Punzo come matrice di pensiero — evocato sulla scena dal filosofo vivificato da Giacomo Casalati, si identifica qui con uno “sconfinamento” portato “all’infinito”, con un’utopia, con “un’enciclopedia della speranza composta da una fuga di quinte e scorci”. Cenerentola racconta tanto sé stessa quanto il presente, riflette l’esperienza — di utopia e di speranza — di una compagnia di attori nata e cresciuta in un carcere, e propone di costruire nuove architetture sulle macerie di un tempo fuori di senno e fuori di sesto.

Non c’è rabbia né disincanto, nell’arte di Punzo, nonostante la scure ministeriale si sia abbattuta anche sulla Compagnia della Fortezza, nonostante il Teatro della Toscana — lungimirante coproduttore di questa Cenerentola — sia stato declassato dallo status di “teatro nazionale” a quello di “teatro della città” (ex teatri di rilevante interesse culturale): piuttosto un costante, caparbio desiderio di restituire, weberianamente, l’incanto e l’incantesimo al mondo, cominciando proprio da una prigione di stato. Si rimboccano le maniche, Armando e i suoi attori e tutta la comunità della Fortezza, e ci invitano a fare altrettanto, a individuare nuovi modi di vedere e costruire il mondo — ways of worldmaking, li definirebbe Goodman, invitandoci a costruire imprevedibili sistemi simbolici per inediti universi forti di una consapevolezza dell’umanità, e di un affidamento nell’umanità, che proprio qui appare inconfutabile. Qui la ribelle Cenerentola non sta al suo posto, qui escogita teoremi e dipinge quadri per “attirare le comete”. Qui, nella luce dell’arte, in quello che riconosce come “il suo solo paese”, Cenerentola può dire: “è questa la felicità di cui parlo”.

Lo spettacolo sarà il 1° agosto al Teatro Persio Flacco di Volterra; il 9 e il 10 aprile al Teatro della Pergola di Firenze.

Le fotografie sono di Stefano Vaja.

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