Cenerentola. L’arte, la scienza, la conoscenza
Si svolge in pochi metri quadrati, la prima azione scenica di Cenerentola: in quello straccio di terra tra il cancello del cortile e gli alberi di ulivo che costeggiano le mura interne del carcere di Volterra, e scandiscono ritmicamente l’alternarsi delle porte in ferro e delle poche finestre. È una piccola folla di corpi e di sguardi a gremire lo spazio; siamo tanti, in piedi o inginocchiati, a tenere gli occhi fissi su Armando Punzo. Alle sue spalle, a chiudere la vista, un cerchio dipinto di bianco; un secondo identico cerchio è posizionato a terra. Bianche sono le strisce di tela che ricoprono i tronchi degli alberi, o le basse strutture murarie che costellano l’area: solo Punzo si staglia, nella consueta divisa nera, al di sopra di un paesaggio di candore. Lo osserviamo mentre intinge le mani in una ciotola colma di cenere e ne lancia un pugno sul fondale, tracciando arabeschi mobili sulla superficie, oppure mentre si avvicina a noi, e ne dona un pizzico a chi gli porge l’incavo delle mani. Il resto lo fa il vento, che solleva la cenere in nuvole grigie e dipinge per brevi istanti uno scampolo di cielo. Pulvis es, et in pulverem reverteris: eppure il sorriso aperto e bambinesco di Punzo sembra raccontare una storia differente, nella quale la morte, la nostra finitudine, le apocalissi individuali e globali non sono l’unico destino che possa accomunarci. “La realtà non è una, sono infinite possibilità” è non a caso la frase con cui ci accoglie, quasi un teorema in grado di scardinare certezze ontologiche ed esistenziali. Così inizia la terza e conclusiva tappa di una ricerca che la Compagnia della Fortezza ha intrapreso nel 2023, con il primo capitolo di Atlantis, e che oggi sembra rilanciare gli slanci teorici e teoretici delle prime due parti dell’itinerario spettacolare, al punto da aprirsi con una dichiarazione d’intenti filosofica ed estetica, quasi eversiva nel voler negare l’esperienza quotidiana.

Forse ci aveva ingannato, quel titolo fiabesco, forse ci saremmo aspettati un affondo in una tradizione antropologica e culturale che da Basile a De Simone, da Perrault ai fratelli Grimm — e ovviamente, a Walt Disney — attraversa gli immaginari collettivi con una serie di riconoscibili tópoi: le sorellastre crudeli, l’incantesimo, lo scoccare della mezzanotte. Ma la Compagnia della Fortezza ci ha abituati da sempre a frequenti scarti dall’ordinarietà del procedere drammaturgico, a improvvise fughe, a sovrascritture e rizomi che accumulano significati imprevisti a figure conosciute, accostano luoghi e icone svelandone parentele e assonanze, familiarità e sconfinamenti. Cenerentola, la giovane sporca di una cenere che è concreto segno di una differenza di classe e al contempo traccia metafisica, memento mori, è oggi soprattutto l’immagine di chi non resta al proprio posto, di chi è capace di azioni e pensieri eretici e ribelli: di chi, della realtà, riesce a cogliere le eccedenze, le alterità, quelle “infinite possibilità”. Non una, ma due scarpette — una bianca, una nera, a sancire una bicromia che attraversa l’intera creazione — sono adesso mostrate agli spettatori: due perché il mondo, se osservato con gli occhi di questa Cenerentola, si divide e si moltiplica; due perché alla normalità della consuetudine e delle legge — che qui più che altrove sembra scandire la melodia del tempo e la geografia dei cammini, istituendo una sola, perentoria, normalità — Cenerentola contrappone un frattale di alternative, una pluridimensionalità che disvela la fallacia del nostro credere a senso unico e univoco. Di rivelazioni e svelamenti, d’altro canto, si compone la drammaturgia spaziale e scenica della creazione: un percorso di aperture progressive allo sguardo, un avvicinarsi al fulcro pulsante del carcere — l’ampio spazio rettangolare del cortile, da sempre immaginifico palco per le creazioni della Compagnia della Fortezza — così come al nucleo stesso delle cose.

Punzo dipinge — ora con vernice nera, ora con vernice bianca — le tele che vengono squadernate ai suoi piedi, quasi tracciando, con quel gesto che abbiamo imparato a conoscere durante Atlantis, percorsi planetari e ammassi di stelle, ipostasi dell’infinitamente grande, oppure ripercorre la silhouette degli alberi protetti dalle strisce di tessuto, a evidenziarne, in una radiografia di pigmenti, l’ossatura. È un afflato scientifico ad animarlo: un metodo microscopico e astronomico, una volontà di indagare l’essenza del mondo, portata avanti tuttavia attraverso un gesto artistico, grazie a una processualità di mani e pennelli, di tinte e tessuti dipinti. Ed è forse qui, in questo smarginarsi della scienza e dell’arte in un indistinto che ha al proprio centro l’umano, che si situa l’incendiaria sorgente di questa Cenerentola.
A lei, l’intraprendente eroina della fiaba, in crinolina e cilindro nero (Viola Ferro, presenza eterea, un’equilibrista tra vertiginosi filosofemi e scoppi di risa con cui costellare il dettato e i silenzi) spetta il compito di guidarci verso la seconda stazione del nostro pellegrinaggio: tra apparizioni di figure enigmatiche — i sensazionali costumi portano la firma di Emanuela Dall’Aglio — ci fermiamo adesso di fronte a una lunga parete di pannelli neri, oltre i quali immaginiamo il poligono del campo incorniciato dalle due ali del carcere. Ma la nostra vista è ancora accecata, sembra ricordarci Cenerentola: uno sforzo ulteriore, dell’animo più che della mente, è la conditio sine qua non per continuare il viaggio. Adesso è il bianco a ricoprire le mani di Punzo, mani con cui disegnare, come in una grotta primordiale, vie lattee sulla superficie oscura: strade altre, percorsi di luce eterodossa sopra il nero. È un’ermeneutica del bianco e del buio ad attraversare la drammaturgia, una filosofia dei colori assoluti che qui, nell’istituzione totale per eccellenza, risuona di significati ben più che estetici. Mentre i pannelli si aprono sulla vastità del cortile, Paul Cocian — storico attore e collaboratore della compagnia, in scena negli stessi giorni con il primo studio di Fame, monologo che per lui Punzo ha scritto e diretto a partire dall’omonimo romanzo di Knut Hamsun — ci avverte così che “avanzare in territori sconosciuti è per me come entrare nella mia vita”. Ed è l’universo a spalancarsi agli occhi di questa comunità di spettatori: l’allestimento scenico, a cura di Alessandro Marzetti e dello stesso Punzo, sembra poterci mostrare per la prima volta uno spazio in realtà notissimo, dilatandolo in una fuga prospettica di quinte nere, porte e archi, estendendolo in una longitudine di geometrie metafisiche.

Adesso la stupefacente macchina scenica e umana della Compagnia della Fortezza si rivela in tutta la sua magnificenza, mantenendo tuttavia quella sua cifra artigianale che ne rende ancor più sorprendente l’esito: lo spazio si popola di personaggi di sogno, il paesaggio musicale (firmato da Andreino Salvadori) ci immerge in una fonosfera cadenzata, magnetica nella sua ripetizione di pattern; i magnifici attori della Compagnia percorrono lungo linee ortogonali uno spazio che è tanto fisico quanto astratto e concettuale. È un concerto di segni, che Paul Cocian dirige dandoci le spalle e agitando una bacchetta con trascinante entusiasmo: là una figura femminile (Francesca Tisano) danza serpentina come Loïe Fuller, con ali di tessuto a prolungare le braccia; qui gruppi di uomini fanno bella mostra di lettere dell’alfabeto greco, di numeri e simboli e matematici, mentre un surreale astronomo — come in The Man Who Measures the Clouds di Jan Fabre — osserva il cielo con una smisurata asta metrica. Ecco il sovrapporsi di rigore e fantasia, ecco il naturale confondersi di creatività e matematica esattezza: i testi, recitati da Armando Punzo e dai tanti, generosi attori della Compagnia, ripercorrono così stralci dalle biografe di Nikola Tesla, di Albert Einstein, cogliendo delle loro esistenze non il momento della scoperta e dell’invenzione, bensì quell’inclinazione del carattere, quella peculiare dissonanza che li ha resi fuori posto e fuori tempo, dislocati dal contesto, cenerentole in grado di mutare sé stessi e rivelare nuove possibilità del reale. Hanno “tradito il mondo in cui vivevano”, ci ricorda Punzo: come stregoni, hanno distrutto e costruito “senza offesa, senza ferire”, gettando ponti “verso l’attimo felice, incandescente, e un futuro inconcepibilmente possibile”. Ma non è solo alla fisica quantistica che Cenerentola rende omaggio: un toro di Picasso, o le silhouette di De Chirico, emergono dal fondale nero come totem bidimensionali, a ricordarci una volta ancora che la differenza tra arte e scienza — citando il Nelson Goodman di Languages of Art — “non è quella fra sentimento e fatto, intuizione e inferenza, diletto e deliberazione, concretezza e astrazione, passione e azione, mediatizza e immediatezza o verità e bellezza”.

Ciò che sembra agire, in questa Cenerentola e in tutta la ricerca che Punzo ha condotto nell’ultimo triennio, è perciò il tentativo, radicato nella cultura del Novecento, di scardinare le dicotomie e i binarismi del pensiero, di opporsi all’estraneità tra arte e scienza, terremotando — come accade anche sul palcoscenico di Volterra, in uno dei momenti più suggestivi — la scacchiera della rigidità di pensiero, mutandone la fissità quadrangolare in un’onda di marea sulla quale tentare nuovi approcci, sperimentare nuovi contatti. L’experimentum mundi — così si intitolava l’ultima opera di Ernst Bloch, indicato da Punzo come matrice di pensiero — evocato sulla scena dal filosofo vivificato da Giacomo Casalati, si identifica qui con uno “sconfinamento” portato “all’infinito”, con un’utopia, con “un’enciclopedia della speranza composta da una fuga di quinte e scorci”. Cenerentola racconta tanto sé stessa quanto il presente, riflette l’esperienza — di utopia e di speranza — di una compagnia di attori nata e cresciuta in un carcere, e propone di costruire nuove architetture sulle macerie di un tempo fuori di senno e fuori di sesto.
Non c’è rabbia né disincanto, nell’arte di Punzo, nonostante la scure ministeriale si sia abbattuta anche sulla Compagnia della Fortezza, nonostante il Teatro della Toscana — lungimirante coproduttore di questa Cenerentola — sia stato declassato dallo status di “teatro nazionale” a quello di “teatro della città” (ex teatri di rilevante interesse culturale): piuttosto un costante, caparbio desiderio di restituire, weberianamente, l’incanto e l’incantesimo al mondo, cominciando proprio da una prigione di stato. Si rimboccano le maniche, Armando e i suoi attori e tutta la comunità della Fortezza, e ci invitano a fare altrettanto, a individuare nuovi modi di vedere e costruire il mondo — ways of worldmaking, li definirebbe Goodman, invitandoci a costruire imprevedibili sistemi simbolici per inediti universi — forti di una consapevolezza dell’umanità, e di un affidamento nell’umanità, che proprio qui appare inconfutabile. Qui la ribelle Cenerentola non sta al suo posto, qui escogita teoremi e dipinge quadri per “attirare le comete”. Qui, nella luce dell’arte, in quello che riconosce come “il suo solo paese”, Cenerentola può dire: “è questa la felicità di cui parlo”.
Lo spettacolo sarà il 1° agosto al Teatro Persio Flacco di Volterra; il 9 e il 10 aprile al Teatro della Pergola di Firenze.
Le fotografie sono di Stefano Vaja.
