Speciale
Paesi e città. Treviso
Gli invasori
Treviso è una città invasa. Gli invasori arrivano in città con le loro audi, i loro SUV, le loro Maserati, spesso giungono verso sera e riempiono Piazza dei Signori, il Calmaggiore, la Pescheria, i vicoli e i ponti sul Sile. Sono nati e cresciuti nella città o nei paesi della grande provincia, e ora sono ovunque, la città è loro.
Qualche anno fa sono stato a Pretoria, in Sudafrica. Giunsi alla Church Square nel centro nevralgico della città. C’è un ampio spiazzo erboso al centro, dove riposavano famiglie serene, gruppi di ragazzi ridenti, anziani che cercavano ristoro all’ombra di qualche jacaranda. L’apartheid era finito allora solo da qualche anno, e le persone di colore, la stragrande maggioranza della popolazione, si riversavano nelle strade e nelle piazze, portavano la loro vittoria e la loro sofferta serenità ovunque. Ma allo stesso tempo l’architettura tutta intorno raccontava un’altra storia, una storia coloniale di soprusi e violenze, una storia di razzismo, di disprezzo e di odio. Il palazzo di giustizia, col suo stile rinascimentale italiano, con la sua architettura europea, bianca, proprio quel palazzo in cui fu condannato Nelson Mandela, con le sue colonne corinzie, i muri in arenaria, la simmetria delle torri, stava lì a raccontare un’altra storia. I neri africani lì, sembravano loro gli invasori di una città altra, incompatibile con loro stessi. Era una liberazione, un grande momento per la storia del Sudafrica e del mondo, ma al tempo stesso era straniante, come se l’invasore fosse chi davvero aveva il diritto di abitare e governare quelle terre da sempre. C’era stata una profonda mutazione politica e antropologica, che i palazzi, le case, i giardini, le statue non potevano registrare: c’era la sensazione di una città invasa.
Nel suo piccolo - piccolissimo rispetto alle ferite che si portava dentro il Sudafrica - Treviso è così. L’architettura, i palazzi, gli angoli splendidi e curati dei Buranelli, i portici, le strade lastricate di porfido, le passeggiate lungo il fiume, i fiori alle finestre, le grandi ville venete, raccontano una storia nobile, quando Treviso era strettamente legata a Venezia e in quelle zone si veniva per le smanie della villeggiatura. Grandi campagne, acque placide delle risorgive, ville eleganti, campi infiniti: un tempo rallentato, lunghe passeggiate di signore e signori in abiti eleganti, conversazioni, incontri, galatei in bosco. C’erano i nobili che venivano per lo più da Venezia per godersi il loro spettacolo della quotidianità e c’erano i contadini o le domestiche che cercavano di badare alle terre e alle case, pronti a tutto per accontentare i capricci dei nobili, e non perdere il lavoro.
Ora quelle persone non ci sono più, Treviso è rimasta così, il salottino buono dei villeggianti trevigiani, ma è stata invasa da un’altra specie, colpita da una variazione antropologica. Gli invasori sono i contadini imprevedibilmente arricchiti a seguito di un tardivo ma improvviso boom economico, senza mezzi culturali e tecnologici, con un irremovibile spirito del lavoro, quegli uomini hanno costruito patrimoni, creato ville con giardini orientali e enormi vetrate, comprato macchine che non possono nemmeno circolare per le strade comunali, sorpresi da una ricchezza di cui non sanno che farsi, sempre travolti dal lavoro. Eppure a una certa ora, soprattutto nei fine settimana si riversano per le vie del centro, coi loro mocassini, le polo, gli occhiali in tinta col vestito. Hanno voci sempre troppo alte, risate con denti troppo esposti e sguardi dritti negli occhi degli altri, pensano di fare una sfilata di moda, ma chiunque può intuire una camminata rozza e affaticata, una gamba troppo larga, uno strisciante prognatismo.

Sono i ricchi, o gli aspiranti ricchi, perché se prima c’erano due modi di vedere le cose, due classi sociali magari in conflitto, i nobili contro i contadini, ora ce n’è una sola, identica, enorme, la classe dei ricchi. E chi non è ricco finge di esserlo, si ingegna, simula, si indebita, escogita strategie per apparire come gli altri. I ricchi e gli aspiranti ricchi hanno le stesse gerarchie di valori, gli stessi obiettivi, gli stessi sogni. Si sentono i padroni di Treviso, ma non hanno nulla a che fare con quel piccolo, raffinato salottino, con la città d’acqua, col cinguettante scroscio del fiume lento. Abitano quelle strade senza sapere chi siano, provando un disagio segreto, sono abitanti di un luogo altro, nativi di un tempo che non c’è. Scambiano eleganza con ostentazione, cercano di assomigliare a quei portici, quelle strade, ma in fondo lo sanno che sono diversi, che non sono loro. Chi siamo? Perché siamo qui, in queste strade, in questi luoghi? Covano un rancore di cui non sanno le ragioni: rancore e diffidenza, rancore e rabbia.
La ricerca di identità
Treviso è come una melagrana spaccata, sotto il lucido guscio fermenta un sangue rosso fuoco, che da qualche parte è pronto a venir fuori. Gli invasori trevigiani si cercano con rabbia gli obiettivi, sputano odio alla prima occasione. Hanno un’ossessione identitaria, hanno paura di non essere né questo né quello, di essere stranieri a casa loro perché non hanno memoria dei tempi andati, non riconoscono i luoghi che frequentano. Cercano identità, piantano bandiere col leone di San Marco o con Alberto da Giussano senza sapere cosa significhino. Respingono tutti coloro che possono mettere in discussione il loro concetto vago e astratto di identità, gli stranieri: come se non fossero loro stranieri a loro stessi, stranieri alla loro città.
Quando s’allenta l’identità, diventa un’ossessione. Spaventa perderla e allora la si ricerca nei modi più goffi e maldestri. Da molto tempo l’antropologo Francesco Remotti ha scritto libri contro l’identità (Laterza 1996), ha spiegato come l’identità sia un argine conflittuale, come siano da valorizzare soltanto le somiglianze (Laterza 2019) per poter ipotizzare davvero un mondo nuovo. Ma loro, gli invasori, non lo sanno, e se lo sapessero non lo capirebbero. Treviso è un piccolo laboratorio sociale, è successo da tempo ciò che oggi sta accadendo nel mondo: perso il focus sull’individuo - dopo la pandemia, dopo la crisi climatica che ha messo l’accento sull’identità di specie e sull’umanità tutta - il mondo ha paura di smarrire l’identità, e dunque esplodono identità locali e localistiche, tentativi ultimi di resistenza che si focalizzano ossessivamente su confini, muri, patrie. Ma gli invasori di Treviso, come i popoli del mondo, hanno già perso l’identità, e non è detto che sia un male.
Chi arrivasse a Treviso da Venezia via terra, percorrerebbe l’arteria stradale spesso trafficata del Terraglio. Una strada dritta come una freccia nel cuore della pianura, un terrapieno che ha origini antichissime. È qui che le famiglie veneziane tra il Seicento e l’Ottocento inoltrato costruirono le loro ville: i Pesaro, i Querini, i Loredan, i Morosini, i Balbi, i Soranzo e molti altri. Ville di una nobiltà perduta, oggi spesso in disuso, aggredite da muffe e funghi, mangiate dalla vegetazione, crepate, defunte. Oppure trasformate in ristoranti eleganti per matrimoni chiassosi, fiumi di alcolici e tintinnii di posate. Le ville poi sono soffocate da industrie, da mobilifici costosi, fabbriche di caffè e lampadine, pub e benzinai. Quando con le loro audi i trevigiani passano di lì, e devono rallentare per il traffico, insofferenti, devono limitare i cavalli dei loro bolidi, vedono le fabbriche e non vedono le ville. La chiamano Plant Blindness la tendenza a non vedere o non riconoscere la vegetazione, qui la malattia diffusa potrebbe chiamarsi Beauty Blindness: tutti gli invasori ne sono affetti, è una malattia latente che si ignora per tutta la vita, ma è strisciante, difficile da debellare, i suoi sintomi sono spesso ignoranza, ricchezza, arroganza.
D’altra parte, passeggiando sulla Restera, il lungosile che piega placido nella campagna veneta, ci si imbatte nel cimitero dei burci, un’ansa del fiume dove giacciono antichi relitti di barche da navigazione utilizzate un tempo per collegare Treviso a Venezia: 3 gabarre, 5 burci, 2 comacine, 2 burci da escavazione, 3 batei, 1 topo, 1 barchetto. Giacciono sommersi. Li intravedi sott’acqua come se ci fosse un mondo di sotto in cui resiste la bellezza, l’eleganza, il navigare lento sospinto da una corrente sorniona che conduce a Venezia. Gli invasori ci passano accanto correndo, hanno maglie tech, scarpe Nike, cardiofrequenzimetri, AppleWatch, magari biciclette da sterrato acquistate da Pinarello, una delle aziende più note di Treviso, che porta sulla home del suo sito la scritta “Pure Luxury” e “Noi siamo fatti per competere, siamo nati per vincere”. E i burci non li vedono neppure, non sanno neppure che esista quel mondo altro, quel mondo sommerso, attenti a studiare un piano di smaltimento delle calorie in eccesso per poter indossare al lavoro la camicia bianca slim fit.
Chi siamo?, si chiedono gli invasori e non lo sanno, non hanno risposte, conoscono solo il pronome singolare “io”, conoscono solo i verbi al presente, un eterno inscalfibile presente, che non ha provenienza e radici, tutto il resto, ciò che non è “io” e “ora” è da evitare o respingere. Credono che l’identità sia la loro forza, mentre è la loro sconfitta.

L’ultima mutazione
Goffredo Parise amava Treviso, o almeno la sua provincia. Nel 1970 si trasferì nella «casa delle fate» di Salgareda, una casetta rosa sul greto del Piave. Il fascino di quel luogo divenne il corpo di una ragazza, tutto nervi e fame di vita, una ragazza senza dialettica, senza retorica, che nasceva dalla terra e dal fiume, dall’ovvietà stupefacente della natura, dalla «estrema gioventù di una sessualità normale ma fatta di magnifica carne colore e sapore del latte». A Salgareda, fino al 1982, Parise scrisse i suoi Sillabari, raggiunse la perfezione della sua scrittura, l’essenza della vita stava in quel luogo lungo il Piave, che non conosceva la decadenza di Roma, il languore del regno al culmine della decadenza.
Da allora ad oggi nessuno scrittore, intellettuale, reporter, che abbia attraversato queste zone ha potuto evitare di denunciarne la cementificazione selvaggia, il deturpamento del territorio, il mancato rispetto di ciò che il Veneto è stato per molto tempo. Il 7 aprile del 1944, Treviso viene bombardata e quasi rasa al suolo dagli Americani con lo scopo di strangolare l’esercito tedesco. Nel dopoguerra Treviso è in ginocchio, la povertà è terribile, ovunque. Il salottino di Venezia si era trasformato in un abisso di stenti e dolore che durò molti anni. La gente moriva di fame o pellagra, gli uomini emigravano in terre lontane, la mortalità infantile era alle stelle. Mentre il resto d’Italia si rialzava dalle tragedie della seconda guerra mondiale, Treviso restava in ginocchio. Mentre il resto d’Italia conosceva una nuova ricchezza economica e culturale, Treviso era l’ultima, dimenticata, persino derisa dalla commedia all’italiana. Bisognava pensare a far crescere i frutti della terra per sfamarsi, figuriamoci se si poteva pensare a studiare, a costruirsi un futuro. È in quel periodo e in quel contesto che nascono e crescono gli invasori.
Perché poi il boom economico arrivò anche qui, in ritardo ma repertino, l’etica del contadino che si spaccava la schiena nei campi è entrata nell’industria che è esplosa improvvisamente, il lavoro, la ricchezza hanno fatto irruzione nella città e non c’era altro: né bellezza, né cultura, né eleganza. Dopo tutta quella povertà la città si sentiva in diritto di crescere senza guardare in faccia a nessuno, dopo tanto tempo da ultimi della classe, una volta raggiunta la ricchezza gli invasori sono diventati i bulli, hanno fatto valere il loro potere economico sugli altri, creato partiti indipendentisti, teorizzato l’egoismo politico, dimenticando che pochi decenni prima erano loro gli ultimi, gli invasori, gli arricchiti, erano i poveri, i bisognosi, i migranti.
La cultura, la letteratura, ha espresso per tanti anni il conflitto, il disprezzo per gli invasori affermando la necessità di un pensiero, di una logica, di una moderazione contro questo sviluppo senza progresso. Il conflitto tra mondo economico e mondo umanistico è stato violento, per molti anni. Eppure c’è qualcosa di stanco in tutto questo, come se il conflitto fosse ormai sterile, come se non potesse durare in eterno: in fondo la protesta a oltranza è inutile, forse, per qualcuno, è tempo di edificare.
Così sembra si presenti alle porte della città un’ultima mutazione. Oggi ci sono dei segnali che suggeriscono che qualcosa persino a Treviso sta cambiando. Nascono iniziative culturali, spazi di confronto e dibattito, l’identità non è più un baluardo ma un motivo di riflessione, le imprese chiedono alle università umanistiche collaborazioni o aiuti. Certo gli invasori ci sono sempre, sono ovunque, con la stessa cecità e arroganza di sempre, ma l’ultima mutazione sembra affacciarsi, un’ultima, pacifica, costruzione di un futuro migliore.
Leggi anche:
Silvia Bottani | Paesi e città. Rimini
Gianni Bonina | Paesi e città. Modica
