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De Signoribus: una lunga fedeltà in ombra

11 Giugno 2025

Era il 2011, e in una stanza piuttosto buia della sede periferica dell’ex Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Genova, in Balbi 6 incontrai per la prima volta la poesia di Eugenio De Signoribus. Sapevo poco di poesia contemporanea. Andai a sentire la presentazione del volume Trinità dell’esodo (Garzanti 2011). Paolo Zublena parlò delle tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, mentre Stefano Verdino presentò ai presenti (per lo più studenti) il percorso estetico di De Signoribus, nonché la sua lunga fedeltà al poeta marchigiano.

Dopo qualche domanda la parola passò al poeta, di cui mi rimasero impresso l’intensità dello sguardo e i lunghi silenzi. Non ho più incontrato De Signoribus e di quella giornata genovese conservo Trinità dell’esodo: un libro che avevo comprato alla Feltrinelli di piazza Dante e che mi ha accompagnato, dal 2011 a oggi, tra viaggi e traslochi e cambi città e luoghi. Stefani Verdino, nella sua acuta e accorata introduzione, di Ceneri germogli ceneri scrive che si tratta di un “libro davvero di una vita, e libro di poesia (non raccolta di testi)": e se la definizione formale è corretta, il taglio esistenziale che precede la configurazione di queste poesie lo è ancora di più – libro e poesia di una vita, per De Signoribus e per i suoi lettori.

Ceneri germogli ceneri è dunque più un’antologia di testi, in parti editi in parte inediti in parte riscritti (sia quelli editi, sia quelli inediti), che copre un arco temporale che va dal 1976 (dagli anni preparatori che avrebbero portato all’esordio di Case perdute nel 1986) al 2024 (un anno dopo il volume Nel villaggio oscuro, uscito per Manni), ma che più che seguire un itinerario cronologico traccia, come scrive l’autore nella nota che chiude il libro, una strada “emotiva, sentimentale” (211). È un libro allegorico, e non solo per l’architettura numerale – serie di 7 poesie in 14 sezioni (I-XIV), a cui si devono aggiungere la sezione proemiale, montalianamente in limine (in corsivo), e le due sezioni finali non numerate: Summa minima e Congedo –, quanto per la posizione che il soggetto lirico assume all’interno del libro: quella di osservatore di primo e di secondo ordine.

L’espressione non è mia, ma di uno dei più grandi sociologi del Novecento (Niklas Luhmann), e descrive un tratto distintivo della società moderna: a partire da una certa soglia (per l’arte, dall’inizio del XIX secolo), gli individui hanno sviluppato la capacità sociale e politica di osservare le proprie osservazioni, cioè di vedersi, e riconoscersi, come osservatori di sé (e del mondo), nel momento in cui capiscono di appartenere a un determinato campo – campo che per Luhmann è sociale, e che per De Signoribus è poetico.

Il soggetto delle Ceneri, più che essere un soggetto di enunciazione, un personaggio, un effetto di voce, un narcisista, un narratore implicito, un fenomeno di attenzione è un osservatore (Beobachter): in tutte le stazioni della raccolta, rivolgendosi eticamente ai propri lettori (in epigrafe: “(a chi ha coltivato / il verbo del confido / nell’universo nido)”, 3), l’io si pone dentro e alle soglie del testo, aderendo al proprio mondo lirico come soggetto dotato di parola e come osservatore di sé.

Il termine stazione non è casuale (cfr. le sue Soglie praghesi, 2012), né si rifà al canonico, e piuttosto inflazionato, uso sostitutivo per la parola ‘sezione’ (o ‘raccolta’). Ogni testo nella poesia di De Signoribus è, si può dire, un luogo fisico (di esperienza vissuta, attraverso il corpo o lo spirito), dove l’io si ferma e adotta un determinato punto di vista, che può essere, per l’appunto sul mondo (osservazione di primo ordine) o su di sé mentre osserva il mondo (osservazione di secondo ordine) da un determinato punto di vista (che può coincidere o meno con l’enunciazione lirica di prima persona singolare).

Riporto due esempi, significativi, che possono essere estesi, allegoricamente, alle modalità espressive dell’intera raccolta:

Ricordo-traccia

qui sono stato, nel cupo romitorio
d’ingannevole volto e di struggente

nel corridoio che va a finire andava
ogni volta in un blocco d’uscita

la luce sempre fuori, imbastita
sulle case di fronte

e lo sguardo che lì s’affacciava
rigirava su un niente

chi era esistente
non vedeva il suo testimone…

nella gola serale mi rinviene
così d’un purgatorio

nel quale fui
un tempo immemorato

nel quale sarò
un dì comune
(43-4)

j

Lo spazio della poesia diventa spazio dell’osservazione (“qui”), dove l’io si riconosce fuori da sé (come soggetto indefinito, “chi”, e “testimone”, ossia come colui che è sopravvissuto alla propria storia), simile e diverso in un imprecisato punto (traccia) del passato (ricordo). In questa zona liminare di movimento (il corridoio, un’uscita, le case di fronte, una gola), l’io non si limita a registrare un dato del mondo (lo scorrere del tempo e i suoi effetti), ma si osserva nell’atto di osservare qualcosa di già conosciuto (gli effetti del tempo) attraverso lo “sguardo” a cui, infine, affida la possibilità di poter ricongiungere la memoria (“nel quale fui”) e il futuro (“nel quale sarà”).

L’io rimane così fermo nel presente, sostando in un luogo in cui l’osservazione di secondo grado diventa la sede per ritrovare l’unità dell’io, per sfuggire a una profonda condizione di ripetizione, di vera e propria reificazione dell’esperienza: “tutta la natura pare / stare nel proprio idioma // e resto fuori dalla perfezione, / straniero sulla soglie di me” (166) – così leggiamo in Esodo sesto (in sogno); oppure in Interno, dove questo fenomeno prospettico viene ulteriormente accentuato attraverso lo spazio che l’io abita, cioè le “nostre stanze” piene di oggetti, di ricordi (“quaderni”, “medicinali”, “fotografie”, “occhi dubbiosi”) che “ci guardano e sono essi guardati / essi ci fissano e sono essi fissati” (30), sicché, come accade in Cosa resta, l’io si vede nel “proprio esodo”, mentre si “insegue” e al tempo tesso si “perde” (169).

Al polo opposto di questa enunciazione della soglia (l’io che si vede come “sé o estraneo”, 201), troviamo una tradizionale postura dell’io-osservatore, che intercetta, transitivamente, il mondo che lo circonda e attraversa:

qui, non visto, potrò stare
sopra la folla meccanica
nell’avantindietro senza sosta
àugure dal corpo d’uccello

e all’accomiatarsi d’ogni dì feroce
senza sosta potrò prendermi la notte
e studiarne i buchi neri nel consistere
in attesa di segnali luminosi

(ma voi, cerco di ricordare, barlume
che s’incugna nella testa,
le vostre facce, dico, non mi sono nuove
né molto liete le vostre parvenze! ...)
(23)

In questo testo, la deissi spaziale (“ qui”) e l’emergere dell’io non producono una riflessione sul soggetto né un atto di auto-riconoscimento, ma si configurano come strumenti di osservazione di primo grado: l’io si limita a registrare ciò che ha intorno (la folla meccanica, l’incidere della notte, il chiaroscuro), occupando un punto di vista mobile da cui il soggetto esercita un controllo visivo sulla realtà e su cui proietta un preciso desiderio – di distanza, relazionale: la parentesi, che è un tratto paratestuale (nei titoli) e testuale (alcuni testi sono scritti interamente in periodi parentetici) distintivo del libro (e della poesia di De Signoribus), creano un nuovo spazio dove una voce (dell’autore?) prende parola, rimarcando la propria posizione enunciativa (“cerco”, “dico”) diversa, e distante, da quella delle “parvenze” altrui.

Ecco, attorno a questi due poli di osservazione e auto-osservazione che caratterizzano, a intervalli ir-regolari, il moto “emotivo” e “sentimentale” della raccolta, il periodare parentetico, tra poesia e prosa, rappresenta il terzo elemento delle Ceneri.

È una poesia, quella di De Signoribus, che si nutre di reticenze e silenzi, e che disloca la voce e l’azione dell’io in luoghi non giurisdizionali della lirica – nel dialogo, nell’uso dei trattini, delle interrogative dirette e, soprattutto, attraverso le parentesi, da cui emerge una materia del linguaggio che è indice di una presenza che l’io non riesce del tutto a possedere: una voce che non coincide con un soggetto, ma che si lascia attraversare dai margini del discorso.

Più che intransitiva, la sua parola cerca una transitività dispersa, decentrata, che non si compie mai pienamente nell’atto dell’affermazione (o della sua performatività ritualistica), ma si inoltra nei margini del discorso parentetico: le sezioni IV-VII sono paratestualmente e/o testualmente poste da parentesi, spostando così la postura dell’io (tra l’enunciazione e l’osservazione) in un periodare parentetico – con le sue continue sospensioni, aperture digressive e autocorrezioni – che rende visibile il tentativo stesso di articolare un pensiero che sembra rifuggire ogni appartenenza con il mondo e con gli altri, collocandosi in quello spazio che l’autore chiama un luogo nascosto, dove “reclino il capo immerso / nella voce dei morti // sul palmo ho l’universo / dei miei nomi veri // mi stringo a loro come / al nome dell’assente // vivo senza e con lui / su questa nuda pietra” (176).

In una tradizione lirica contemporanea che tende all’iper-espressivismo e allo sperimentalismo intermediale, la poesia di De Signoribus r-esiste come una (voce fuori campo), un testo che non a caso chiude il libro: l’io è un’“ombra” testuale (una voce parentetica) che parla, e si osserva (“e tu, che sei sul ponte”) mentre si riconosce diverso da sé (“e tu, che da bambino sai”): “io che aspetto d’iniziare a vivere, / entrerò nel dopo senza addio” (210). Un’esperienza della fine, tra ceneri germogli ceneri: una vita che si consuma e rinasce secondo un ritmo ternario (un movimento musicale di adagio-allegro-adagio, come osservato da Stefano Verdino), “nel suo mostrarsi-ritrarsi” (195), “come una vocale dentro la parola” (198). Un esodo, dalla vita, attraverso la poesia, di cui De Signoribus ci ha ricordato ancora una volta la valenza civile e di luogo fisico, residuale e resistente, in cui è ancora possibile esercitare uno sguardo vigile e interrogante sul mondo.

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