I Selk’nam della Terra del Fuoco: genocidio e resistenza

20 Dicembre 2022

È probabile che in un’epoca difficile da identificare, ma che possiamo inserire all’interno del Paleolitico Superiore, diverse ondate migratorie paleosiberiane si siano sparse in lungo e in largo per il continente americano attraverso lo stretto di Bering. Di alcuni di questi gruppi migratori, stanziati in diversi punti del continente, conosciamo in parte le storie, la loro architettura, in alcuni casi anche la lingua; di altri, invece, sappiamo ben poco: per esempio, di quella stirpe che giunse fino all’estremo lembo del continente, nella Terra del Fuoco, arrivata fin lì per inseguire i branchi di animali, per ricercare nuove terre o chissà per quale altro motivo.

Gli indigeni che abitavano la Terra del Fuoco sono stati conosciuti con il nome di Fuegini. Solo dopo la metà del XIX secolo iniziarono a essere classificati in quattro diversi rami: Kawésqar o Alacaluf, Yaganes o Yamana, Haush o Mánekenk e Selk’nam o Onas (nome che gli avevano dato i Yaganes e che significa vento del nord). Questi ultimi abitavano a Sud-Est dello Stretto di Magellano ed erano dediti, a differenza degli altri Fuegini, alla caccia del guanaco. Essendo nomadi, si spostavano in continuazione; possedevano, inoltre, una cospicua raccolta di miti che trasmettevano di generazione in generazione per bocca di un xo’on, un anziano che, intorno al fuoco, durante le ore di riposo, rievocava gli spiriti degli antenati e della terra e tutti i loro racconti cosmogonici. Il xo’on era anche colui che aveva la capacità di guarire i malati, estraendo dal corpo, come se fossero frecce conficcate, il malore.

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Erano parenti stretti degli Aonikenk, detti anche Tehuelches meridionali, che vivevano a sud della Patagonia. I Selk’nam avevano una notevole somiglianza fisica, di lingua e di costumi con i Aonikenk. I maschi erano alti e corpulenti, come quelli avvistati da Pigafetta: Un dì a l’improvviso vedessemo un uomo, de statura de gigante, che stava nudo ne la riva del porto, ballando, cantando e buttandose polvere sovra la testa.

Nonostante la loro dimensione avevano anche una grande agilità, che permetteva loro di catturare facilmente gli animali. Dividevano le loro terre in frammenti che chiamavano cieli (sho’on), e in questi cieli abitano, come un’intera famiglia, animali, piante, spiriti e morti. Praticavano l’esogamia, per cui era ricorrente che le donne e gli uomini cambiassero cielo. Durante i rituali si dipingevano il corpo con i simboli geometrici del proprio sho’on. Nell’epoca mitica chiamata hówenli tutte le forze della natura, il vento, la neve, la pioggia, la Luna, il Sole, così come alcune stelle, abitavano la terra ed erano potenti sciamani.

L’antropologa franco-statunitense Anne Chapman racconta che nell’inverno del 1966 era morta nella Terra del Fuoco Kiepja, più conosciuta con il nome di Lola. Con Kiepja era scomparso, scrive Chapman in uno dei sui testi sui Selk’nam, Fin de un mundo, l’ultimo testimone diretto di quella cultura. Dei pochi sopravvissuti rimasti lei era l’unica ad aver vissuto come indigena. Aveva circa novant’anni quando è morta. Era nata in una capanna di cuoio di guanaco e aveva vissuto la sua giovinezza avvolta in pelli di animali, accampandosi con la famiglia sulle spiagge, nei boschi e partecipando alle cerimonie tradizionali.

Quando, da anziana ricordava la sua vita attraverso il racconto e il canto – riferisce Chapman – sembrava felice di essere vissuta in quel modo, pur essendo consapevole che il suo mondo era scomparso per sempre. Anche se era in grado di parlare in spagnolo preferiva farlo nella sua lingua originaria. Si identificava pienamente con la sua cultura, della quale aveva una profonda conoscenza, essendo lei stessa un xo’on, l’ultimo sciamano Selk’nam. Aveva ereditato il potere di accedere al mondo soprannaturale dallo spirito di uno zio materno, il quale le aveva trasmesso quella facoltà attraverso un sogno.

Alla fine del XIX secolo, l’Isla Grande della Terra del Fuoco aveva suscitato l’interesse delle grandi aziende ovine. L’introduzione degli allevamenti di pecore, di conseguenza, aveva creato forti conflitti tra gli indigeni e i coloni inglesi, argentini e cileni; conflitti che in breve tempo si erano trasformati in una guerra di sterminio. Gli allevatori pagavano una sterlina per ogni Selk’nam morto (le mani e le orecchie tagliate della vittima erano la prova che testimoniava l’uccisione).

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Per combattere il massacro, nel 1890 il governo cileno aveva ceduto ai sacerdoti salesiani che si erano stabiliti in missione l’isola di Dawson, nello Stretto di Magellano. I Selk’nam sopravvissuti al genocidio si erano trasferiti lì, ma poco dopo la missione chiuse i battenti lasciando un cimitero popolato di croci. Qualcuno sostiene che anche chi credeva di aiutarli li ha danneggiati usando la parola di Dio per sradicare la loro cosmovisione. Alcune famiglie, inoltre, erano state esibite all’Esposizione Universale di Parigi (1889) in occasione del centenario della Rivoluzione Francese.

Di questi misteriosi indios ne parla un bel graphic novel uscito di recente, Noi, i Selk’nam. Storia di una resistenza, dello sceneggiatore Carlos Reyes e del disegnatore Rodrigo Elgueta, edito da Edicola e tradotto da Paolo Primavera, dove la ricostruzione storica si intreccia con le testimonianze di chi ha avuto a che fare con questo popolo al fine di scoprire le loro origini, la loro mitologia e, per ultimo, il genocidio che li ha travolti. Noi, i Selk’nam inizia proponendo al lettore diversi modi di raccontare la storia di questi indios. Per esempio, si potrebbe iniziare quando “14.600 anni fa un gruppo di homo sapiens ha attraversato lo stretto di Bering, lottando con gli elementi della natura (sotto una tormenta di neve) per sopravvivere”, o dai racconti di un’anziana discendente degli indios, Lola Kiepja, di cui abbiamo parlato, che “diverte con le sue storie una affascinata antropologa franco-statunitense”, oppure da quelli di un sacerdote e antropologo austriaco, Martín Gusinde, che ha vissuto in quella zona.

Secondo Gusinde i Selk’nam credevano in un unico Dio, Temáuquel o Temákel, del quale “consideravano improprio fare il nome in maniera diretta” (considerazione improbabile, frutto dell’influenza cristiana). Poi, si racconta che Kenós, un messaggero di Temáuquel, era andato in un pantano, aveva preso due zolle di terra e “durante la notte le due zolle si unirono e nacque il primo antenato”. La notte seguente le due zolle si unirono ancora e nacque un altro antenato e così per tutte le notti. Insomma, qualunque inizio si scelga non si arriverebbe mai a capire l’enigma che ha attraversato questo popolo, vissuto in un ambiente estremamente inclemente e faticoso (forse per questo motivo la vita degli indios era proiettata in funzione dello spirito e avevano sviluppato una ricca mitologia, rendendo vive e prossime tutte le forze della natura).

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Ora però che li abbiamo dimenticati per tanto tempo, ci restano solo incertezze e tante domande, come quelle che si pongono gli autori, che diventano a loro volta personaggi del libro e iniziano un lungo viaggio attraverso una serie di incontri con persone che hanno avuto modo di incrociare i Selk’nam o che si sono occupati di loro. Vanno a trovare, per esempio, lo sceneggiatore di un libro intitolato Raptados, dove si racconta la storia degli indios rapiti per essere messi in mostra negli zoo d’Europa, come quello di Carl Hagenbeck ad Amburgo.

Trovano anche Tirso Troncoso, un filosofo cileno che dichiara: “Il disprezzo per ciò che è indigeno da parte di una modernità così superba ha svegliato in me la curiosità verso coloro che non hanno fatto la storia. Quella dei Selk’nam è una cultura di precarietà materiale, ma di grande ricchezza nel modo di concepire la realtà”. Ci sono anche altri autori che sfilano attraverso le vignette, come la scrittrice e artigiana Selk’nam Margarita Maldonado, lo scrittore Magellano Pavel Oyarzún, il celebre cantautore Patricio Manns o la ballerina Pamela Morales.

Noi, i Selk’nam è un esercizio di memoria che cerca di ricostruire la storia di un popolo che non ha lasciato tracce e che si credeva estinto, ma che oggi resiste, attraverso alcuni discendenti, e non solo. Insomma, una storia che si dirama in tante storie, ciascuna delle quali continua a rievocare e a reinventare questo popolo, muovendosi in bilico tra finzione e realtà.

Ne emerge una narrazione plurale, in cui si mescolano le voci, ciascuna con il suo modo di narrare e di dare testimonianza alla loro causa. È un modo di svelare ciò che la storia ufficiale ha occultato per tanto tempo. Alla fine, il lettore scopre che, nonostante il loro genocidio da parte dei coloni, i Selk’nam non sono affatto scomparsi del tutto e che i loro antenati, insieme ai morti, continuano a lottare per la sopravvivenza, perché, sostengono gli autori, la grande lezione del XXI secolo è la necessità di un dialogo con i popoli originari: “Noi, i Selk’nam, siamo vivi”.

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