L’invincibile estate di Liliana

15 Maggio 2023

La statistica è nota: in Messico muoiono assassinate circa dieci donne al giorno e solo il 24% dei casi viene indagato come femminicidio. È una tendenza che si mantiene costante da anni. Il tasso di impunità è altissimo. Ai femminicidi, che possiamo considerare il punto estremo di una catena, bisogna aggiungere anche la violenza verbale e psicologica, le percosse, lo stupro, con i quali convivono quotidianamente le donne.

La scrittrice messicana Cristina Rivera Garza ha impiegato 29 anni per poter raccontare la storia della morte di sua sorella in un libro, L’invincibile estate di Liliana, tradotto da Giulia Zavagna e pubblicato da Sur. È stata un’impresa rimandata dall’impossibilità di poter fare i conti con quella tragedia. In quegli anni non c’erano ancora le parole per descrivere la violenza di genere: “Il femminicidio non è stato ufficialmente classificato come reato in Messico prima del 14 giugno 2012”. Sì, perché Liliana, e insieme a lei tante altre donne, è morta vittima di un delitto passionale, come lo si riteneva allora: faceva parte, ci si rassegnava a pensare, di un amore romantico o di una rappresentazione teatrale con il coro che sentenziava: non doveva vestirsi così, non avrebbe dovuto comportarsi cosà, una donna deve stare al suo posto, i suoi genitori non hanno saputo darle un’educazione, ecc. Eppure, in Liliana non c’era niente che la rendesse differente da tutte le sue coetanee. Aveva vent’anni e studiava architettura. Da tempo cercava di porre fine a una relazione tormentata e ingestibile. Tossica. Quando, nell’estate del 1990, aveva deciso di chiudere definitivamente con quella storia per ricominciare una nuova vita, un master, un trasferimento a Londra, un sogno, una svolta, ecco che lui, Ángel González Ramo, stabilì che lei non poteva avere una vita senza di lui.

E ora, riflette e scrive Rivera Garza, “Liliana ha passato, ormai, molti più anni sotto terra di quelli che ha vissuto sulla terra. Sarebbe stato il suo compleanno numero cinquantuno. È il suo cinquantunesimo compleanno. Bilancia ascendente capricorno. Un gallo nell’oroscopo cinese”.

Il libro si pone alcune domande fondamentali: come raccontare il dolore delle vittime? Come raccontare questi eventi sconvolgenti e questa violenza? Come dare un senso a questa desolazione che intere famiglie (sorelle, figlie, madri, nonne, nipoti, mogli) si portano dietro, come un trauma indicibile? E Rivera Garza lo fa scavando nel dettaglio, con una scrittura potente dove la tensione tra contenuto e forma, racconto e testimonianza, porta il lettore dentro un caleidoscopio di voci, di sguardi e di punti di vista diversi.

Dunque, L’estate invincibile di Liliana non è solo il recupero di una memoria, quella di sua sorella Liliana, ma è anche e soprattutto una speranza e una promessa di futuro. Una ricostruzione destinata a riaprire un caso giudiziario al fine di “rintracciare il fascicolo dell’indagine preliminare 40/913/990-07, che contiene il mandato di arresto emesso contro Ángel González Ramo per l’omicidio di Liliana Rivera Garza, mia sorella. La mia sorella minore. La mia unica sorella”, e in questa esplorazione costruisce una mappa delle strade e degli uffici di Città del Messico. Inoltre, dopo tanti anni di silenzio, l’autrice si mette alla ricerca delle testimonianze di amici e parenti che le permettano di ricostruire la storia del delitto rimasto impunito: “Sono andata a trovare delle zie, ho partecipato a feste di compleanno che normalmente rifuggo, ho fatto molte telefonate. Alcuni hanno risposto a monosillabi, altri si sono dilungati senza ragione. Tutti a un certo punto hanno abbassato gli occhi, con vergogna. Mi dispiace, dicevano. Non ricordo altro”.

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Le indagini la portano a scoprire e ad analizzare gli scritti di Liliana, la sua calligrafia che cambia nel tempo e che risente dell’inquietudine degli ultimi giorni di vita. Un resoconto, insomma, attraverso una polifonia di voci orchestrata alla perfezione, che cerca di portare in superficie la morte per dare un senso alle tante vite di Liliana che restano rinchiuse in un mi dispiace, non ricordo altro. Una voce che si alza di fronte al silenzio, all’impunità, alla corruzione.

Liliana aveva scritto per la prima volta il nome di Ángel González Ramo nel 1984, quando aveva quindici anni: “Oggi non scrivo con la mia penna, perché non ce l’ho, l’ho prestata ad Ángel. Mi piace. Mi piace molto; e non mi sembra sdolcinato dire che gli voglio bene. Ho imparato a volergli bene a suon di SCEMENZE. Lily”. Da qui inizia il suo rapporto travagliato.

Come si diceva prima, il libro è anche una rilettura di documenti, di lettere, di frammenti scritti, di annotazioni su quattro quaderni, due grandi e due piccoli, in cui si avverte come, all’arrivo del fatidico momento, Liliana abbia subìto un mutamento nel suo stato d’animo e nella sua scrittura (le testimonianze giungono fino al giorno prima della sua morte, il 16 luglio 1990). C’è anche un cambiamento nell’autrice, nel momento in cui recrimina se stessa per essere rimasta in silenzio per parecchio tempo. Si chiede perché le sia occorso così tanto per percorrere la strada da Azcapotzalco, la terra delle formiche, all’ufficio del procuratore di Città del Messico, e poi fino a Mimosas 658 (dove Liliana è stata uccisa), per recuperare i dettagli e fare giustizia o per riaprire le scatole che, nella parte alta di un armadio, contenevano le cose di sua sorella. “Sette scatole di cartone e tre o quattro ceste dipinte di color lavanda. Gli averi di Liliana”. Erano rimaste chiuse per trent’anni: “Per trent’anni rimasero lì, in vista, ma non a portata”. E infine gli articoli della stampa che trattavano del delitto: “Una giovane studentessa di architettura è stata trovata assassinata per strangolamento nel piccolo appartamento che affittava nella zona nord della città, la polizia cerca l’assassino fra i suoi amici”. Un viaggio o un’odissea, si diceva prima, che pur nell’impossibilità di raggiungere Itaca, riesce con una scrittura vigorosa e frammentaria, conforme alla memoria collettiva, a trovare giustizia in un sistema arcaico e patriarcale che rimane indifferente alla necessità di proteggere e dare garanzie alle donne.

Cristina Rivera Garza è nata a Matamoros, Tamaulipas, nella frontiera con Brownsville, Texas. È docente all’Università di Houston. È stata l’unica scrittrice ad aver vinto due volte il premio Sor Juana Inés de la Cruz: nel 2001 con Nadie me verá llorar (Nessuno mi vedrà piangere, Voland, 2008, tradotto da Raul Schenardi), definito dallo scrittore messicano Carlos Fuentes “una delle opere di narrativa più importanti della letteratura non solo messicana, ma in lingua spagnola”, e nel 2009 con La muerte me da. Ha vinto anche il Premio Anna Seghers nel 2005 e il Roger Caillois nel 2013 per la letteratura latinoamericana.

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