Il fantasmagorico Frankenstein di del Toro

25 Dicembre 2025

I remember fire and water: “Mi ricordo fuoco e acqua”. Queste le parole che danno inizio al racconto della Creatura di Guillermo del Toro, protagonista del “suo” Frankenstein, presentato in concorso durante l’ultima edizione del Festival del Cinema di Venezia e distribuito su Netflix lo scorso 7 novembre. Fuoco e acqua costituiscono idealmente e visivamente i reami terrestri in cui si muovono i protagonisti della vicenda nata dalla penna di Mary Shelley: la Creatura, interpretata da un etereo Jacob Elordi, e il dottor Victor Frankenstein, un Oscar Isaac perfetto antieroe.

Per il Frankenstein di del Toro vanno dimenticate tutte le macro-categorie letterarie cui lettori e spettatori sono stati abituati. Il lungometraggio del regista messicano è un passaggio di testimone tra i tempi gotici e i tempi fantastici della narrazione, tra il disumano e l’umano; un racconto che ha il ritmo dell’aedo, con il suo andamento spezzato, le sue formule e i suoi molteplici punti di vista. Del Toro riesce, seppur con qualche momento di indecisione rispetto all’enorme riferimento letterario, a confermarsi come il cantore della moderna fantasmagoria.

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Guillermo del Toro.

Il cammino, e lo ricorderanno in molti, era cominciato con l’alchimia per Cronos (1992), confermato con la guerra civile spagnola di La spina del diavolo (2001) e portato verso le vette del successo con Il labirinto del Fauno (2006). Opere con le quali il regista messicano ha delineato e ribadito la sua peculiare concezione del fantastico sul grande schermo – o, per meglio dire, del fantasmagorico: alla lettera, il “discorso dei fantasmi” che, oltre a essere il nome (non certo casuale) di un “giocattolo” molto in voga nel precinema, si lega perfettamente al progetto portato avanti da del Toro.

La Fantasmagoriana è, infatti, la celebre raccolta di racconti gotici di origine tedesca e tradotti in francese che i convitati della Villa Diodati – Lord Byron, Claire Clairmont, Percy Bysshe Shelley, John William Polidori e Mary Shelley – nella “notte buia e tempestosa” di quella non-estate del 1816 lessero e da cui Mary Shelley e Polidori trassero spunto per dare alla luce due capolavori della letteratura gotica Frankenstein o Il Prometeo moderno – per l’appunto – e Il Vampiro. E si direbbe proprio che il lungometraggio di del Toro respiri quanto più possibile il sostrato di partenza dell’opera di Mary Shelley, facendo muovere i suoi personaggi all’interno di un apparato visivo spettacolare e funambolico, rendendo ogni oggetto sullo schermo (cadaveri compresi) il protagonista di una performance dai tratti a un tempo steampunk e romantici. In effetti, la direttrice narrativa del film riprende quella dell’antecedente letterario, dividendo il discorso in due grandi capitoli: il primo fedele alla memoria di Victor Frankenstein, il secondo incentrato sulla presa di coscienza e conoscenza del mondo da parte della Creatura.

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Oscar Isaac.

Ed è in questo dialogo “oppositivo” che si consuma il “discorso dei fantasmi” tra due corporeità, ognuna il negativo dell’altra: se Victor Frankenstein rappresenta l’essenza banalmente umana dell’esistenza terrena – un essere vivente, padrone del proprio corpo, in dialogo con l’ambiente che lo circonda – la Creatura incarna il “non essere”, più vicino alla consapevolezza filosofica che non a quella terrena – momento ben rappresentato dal rapporto tra la Creatura e l’anziano contadino cieco (David Bradley).

Vale la pena allora riprendere (nella traduzione di Maria Paola Saci e Fabio Troncarelli per Garzanti) le parole che Mary Shelley mette in bocca al proprio protagonista nel secondo capitolo del romanzo: “Il mondo era per me un mistero da scoprire. Curiosità, bruciante volontà di impadronirmi delle leggi segrete della natura, e una felicità vicina all’estasi quando esse mi si svelavano: queste sono le prime sensazioni che riesco a ricordare […] né la struttura delle lingue né i codici, né la politica degli stati esercitavano alcuna attrattiva su di me. I segreti della terra e del cielo, quelli bramavo scoprire. Sia che si trattasse della sostanza apparente delle cose o dello spirito recondito della natura o dei misteri del cuore dell’uomo, sempre le mie ricerche prendevano una direzione metafisica o, nel senso più elevato, miravano al mistero fisico dell’universo”.

Ed è appunto questo mistero fisico la vera ossessione del Victor di del Toro, uomo possessivo e iracondo, capace di accostarsi all’altro da sé soltanto facendone una sua diretta emanazione, prodotto di una ricerca che porta alla conferma delle sue paure più profonde. Al contrario, la Creatura è un essere ontologicamente assente – quel “non sono mai nato” che riecheggia per tutta la durata del film – che, in virtù della sua ostinata “non-presenza”, si manifesta come il diretto opposto di Victor.

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Jacob Elordi.

Se il corpo del dottor Frankenstein è spesso ripreso da del Toro in tralice, di taglio, talvolta attraverso primi piani che fanno risaltare il suo piglio arcigno e grottesco, all’opposto la silhouette della Creatura si spoglia di tutti gli orpelli storico-cinematografici che le erano stati imposti – dai bulloni del Boris Karloff targato Universal, alle cicatrici del Christopher Lee della Hammer – per diventare un corpo performativo, quasi la sagoma in un dipinto che trova il proprio scenario nella ricerca smisurata di se stesso.

A tirare le somme, questo Frankenstein di del Toro rappresenta sicuramente un capitolo da non sottovalutare nella storia del rapporto tra letteratura – gotica, in questo caso – e cinema: un rapporto intorno al quale il dibattito permane sempre molto acceso, come dimostra l’accoglienza a tratti contrastata che il film ha ottenuto fin dalla première veneziana. D’altro canto, l’inserimento del lungometraggio tra i dieci migliori dell’anno della National Board of Review e le cinque candidature ai Golden Globe 2026 (con nomination a del Toro, Isaac ed Elordi), induce senz’altro a pensare a quanto lo spettatore contemporaneo abbia bisogno di fantasmi per comprendere la propria partecipazione nello sviluppo del mondo. Ancora una volta la negazione – il non essere piuttosto che l’essere, il contrasto tra gli elementi primari di fuoco e acqua tanto cari alla filosofia antica – si fa protagonista di un discorso che supera di gran lunga le pagine di un libro e i fotogrammi di un film, per arrivare a interrogare in modo diretto le coscienze di chi guarda.

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