Diane Keaton, un’attrice in dialogo

13 Ottobre 2025

Prima di tracciare un ritratto inevitabilmente sommario di Diane Keaton, scomparsa l’11 ottobre a 79 anni, sarà bene tenere fin da subito a mente il tema di Kay, composto da Nino Rota per Il Padrino - parte II: note che ancora oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, sembrano riuscire miracolosamente a evocare e insieme a restituire la sua versatilità, il suo acume, la sua grazia attoriale.

Losangelina, classe 1946, Diane Hall (come ormai tutti sanno, la scelta del cognome Keaton, ripreso da quello materno, fu dovuta ragioni sindacali), dopo un lungo apprendistato, che comprende fra l’altro esperienze come cantante di nightclub, debutta a Broadway alla fine degli anni Sessanta (Hair, 1968, Provaci ancora, Sam, 1969) e nel cinema all’inizio dei Settanta (Amanti ed estranei, Cy Howard, 1970). Fa parte di una generazione d’interpreti che, sull’onda del rinnovamento imposto nella regia dai movie brats, danno vita a un nuovo modo di stare davanti alla macchina da presa. Keaton legge, approfondisce e si nutre dei copioni che le vengono sottoposti, andando ben al di là delle parole dei personaggi.

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Diane Keaton in Io e Annie, 1977.

Racconta l’ex compagno di vita Woody Allen, con il quale il sodalizio lavorativo, iniziato sul palcoscenico, durerà fino al 1993, contando sette film e un Oscar come Migliore Attrice (per Io e Annie), “[…] lei fa sempre ridere nella scena perché dà un contributo psicologico, attraverso il personaggio. Un film come Io e Annie, io posso interpretarlo da comico, con battute relativamente facili e superficiali, lei invece risalterebbe come personaggio”. Diane Keaton, quindi, come transfert con cui la macchina da presa riesce a catturare una persona quanto più verosimile, e, soprattutto, slegata da qualsivoglia affiliazione interpretativa.

Le scelte lavorative di Keaton sono sempre state libere e ragionate; dopo esperienze gigantesche come i primi due capitoli della saga del Padrino di Francis Ford Coppola, Keaton si muove dai grandi affreschi della New Hollywood – cui va aggiunta anche la preziosissima esperienza in Reds (1981) di Warren Beatty (altra nomination agli Oscar), nei panni della giornalista e attivista comunista Louise Bryant – verso la tranche de vie newyorkese di Richard Brooks (In cerca di Mr. Goodbar, 1977) e soprattutto le trame comico-psicologiche di Woody Allen; per approdare poi, una decina d’anni più tardi, a personaggi tipicamente Eighties come la J.C. Wiatt di Baby Boom (Charles Shyer, 1987), prototipo della donna in carriera che condensa in una battuta (“Non devo stare in ansia? Ansia è il mio secondo nome”) tutto un dettato interiore i cui effetti a tutt’oggi viviamo pienamente e pesantemente sulla nostra pelle di donne (non più in carriera).

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Reds, 1981.

Per quanto possa sembrare inattuale, la massima di Sanford Meisner secondo cui il recitare consisterebbe nel “vivere in maniera vera all’interno di circostanze immaginarie”, definisce perfettamente la Diane Keaton che tutti gli spettatori custodiscono nella loro memoria: quella che rappresenta sé stessa e il mondo che la circonda con il riverbero di una risata, con la potenza di un sorriso al posto e al momento giusto, trovando la sua arma segreta nelle espressioni del volto e nel movimento degli occhi, che spesso sembrano sottolineare o, ancora meglio, tradire il pensiero che nasce dalle battute del personaggio.

“Amare è soffrire. Se non si vuol soffrire, non si deve amare. Però allora si soffre di non amare. Pertanto amare è soffrire, non amare è soffrire, e soffrire è soffrire. Essere felice è amare: allora essere felice è soffrire. Ma soffrire ci rende infelici. Pertanto per essere infelici si deve amare. O amare e soffrire. O soffrire per troppa felicità”. Per quanto siano un trionfo di nonsense, quasi al pari del ritmo di un’opera buffa, nei dialoghi folli e serrati di Amore e Guerra (1975) la precisissima Keaton non perde mai un briciolo di consapevolezza e veridicità, persino nel movimento finale in cui invita la povera Natasha (Jessica Harper) – e forse anche lo spettatore – a prendere appunti.

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 Con Tom Berenger in In cerca di Mr. Goodbar, 1977.

Una Keaton sempre in dialogo con se stessa, il suo personaggio e l’ambiente che la circonda, senza mai diventare un’isola irraggiungibile di parole. Forse anche per questo i suoi grandi “assoli” attoriali sono relativamente pochi. Uno di questi è senz’altro In cerca di Mr. Goodbar, in cui porta sullo schermo il turbamento di una giovane donna in conflitto con il suo ambiente e la sua fisicità, in uno spazio fisico e psicologico indefinito, privo di appigli e sconsacrato alle logiche carrieriste del mondo “fuori”, dove i non-allineati sembrano inevitabilmente destinati a una brutta fine.

Indiscutibile rimane la duttilità di Keaton come interprete, la sua molteplicità di registri e di interessi in campo cinematografico. Ne sono testimoni sia una commedia leggera come Il club delle prime mogli (Hugh Wilson, 1996), destinato comunque a diventare un cult grazie alla presenza di comprimarie del calibro di Maggie Smith, Goldie Hawn, Bette Midler e Sarah Jessica Parker; sia un (melo)dramma come La stanza di Marvin (Jerry Zaks, 1996), tratto dall’omonima pièce teatrale di Scott McPherson, per cui Keaton ottiene una terza candidatura all’Oscar ritornando ai moduli del palcoscenico, in dialogo con Meryl Streep, Leonardo DiCaprio e Robert De Niro. Tra le ultime interpretazioni, merita di essere ricordata almeno quella di suor Mary nella serie firmata da Paolo Sorrentino The Young Pope (2016), in cui si riserva ancora una volta un personaggio quasi silenzioso ma di grande carisma e potere.

Del resto, Keaton si è espressa con ferma consapevolezza anche dietro la macchina da presa: oltre ai lungometraggi – il documentario Heaven (1987), l’originale televisivo Wild Flower (1991), Eroi di tutti i giorni (1995), Avviso di chiamata (2000), ultimo film di Walter Matthau – è suo il videoclip del successo discografico Heaven Is a Place on Earth (1987) di Belinda Carlisle, con tanto candidatura ai Grammy; e sua è anche la regia del quindicesimo episodio, Slaves and Masters, della seconda stagione di Twin Peaks (1990-91), ideata da David Lynch e Mark Frost.

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Con Jack Nicholson in Tutto può succedere - Something’s Gotta Give, 2003.

“You're only as good as the person you're acting with”: sei bravo unicamente quanto la persona con cui stai recitando. Così Keaton spiega il metodo Meisner in un’intervista per il “Venice Magazine” in occasione dell’uscita di Tutto può succedere - Something’s Gotta Give (Nancy Mayers, 2003), ultima candidatura all’Oscar e forse ultimo ruolo davvero indimenticabile, di sicuro uno dei più amati, in cui con misura perfetta divide la scena con un altro ex-ragazzo della New Hollywood come Jack Nicholson. In effetti, a un’occhiata rapida, la carriera di Diane Keaton è costellata di grandi titoli e grandissime collaborazioni, spesso a fianco di nomi tanto importanti quanto ingombranti. Ma forse è stato questo il suo punto di forza: l’attore non è mai solo, chi recita non può non vivere del rapporto con i partner di scena. Ed è da questo rapporto continuo con l’altro che nasce la grandezza di un’interprete come Diane Keaton; lei, che mai si sarebbe aspettata di avere proprio sulla risolutezza del suo volto il finale che Coppola riserva al “suo” Padrino.

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